Storia di Hakimi, detenuto straniero schizofrenico morto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

Un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere è morto circa un mese dopo il giorno dei pestaggi. Per la Procura si è trattato di “morte come conseguenza di altro reato”, per le violenze e le successive mancate cure, ma il gip non ha accolto questa tesi optando per quella del suicidio con massiccia assunzione di farmaci.

Suicidio. È stato chiuso così il caso di Lamine Hakimi, algerino di 27 anni, morto nel maggio 2020 nella sezione Danubio del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Ma sulla scrivania del gip la sua storia era arrivata con un’altra versione: secondo la Procura l’uomo era un caso di “morte come conseguenza di altro reato”. Vale a dire: deceduto in seguito alle percosse e alle mancate cure in carcere. In particolare, l’uomo era tra i 15 detenuti del reparto Nilo classificati dalla Polizia Penitenziaria come pericolosi e per questo messi in isolamento dopo quella che il gip, nell’ordinanza, aveva definito “una orribile mattanza”.

Hakimi, affetto da schizofrenia, è deceduto per un arresto cardiocircolatorio, conseguente a un edema polmonare acuto, causato da una grossa quantità di farmaci (tra oppiacei, neurolettici e benzodiazepine) assunti “in rapida successione e senza controllo sanitario”. La morte risale al 4 maggio 2020, a distanza di quasi un mese dalle violenze perpetrate dagli agenti della Penitenziaria contro i detenuti del reparto Nilo. Agli altri detenuti in isolamento, si legge nell’ordinanza da 52 misure cautelari firmata due giorni fa dal gip, venne sospesa la somministrazione dei farmaci. Il giorno della morte del 27enne, inoltre, ci fu un’altra perquisizione personale, durante la quale gli agenti sputarono sui detenuti e li minacciarono di ripetere le violenze di poche settimane prima: “Mica è finita qua! Avete avuto la colomba, dovete avere ancora l’uovo di Pasqua!”.

La testa contro il pavimento

Durante quelle violenze, viene ricostruito nell’ordinanza, Hakimi aveva provato a ribellarsi: venne quindi preso con la forza dalla sua cella e picchiato con tale violenza durante il trasferimento da provocarne lo svenimento. L’algerino aveva sferrato un pugno ai poliziotti, che si erano quindi maggiormente accaniti: gli avevano schiacciato la testa contro il pavimento e lo avevano colpito alle gambe e alle costole mentre lo trascinavano per la maglia. “Lo hanno sfondato – aveva poi commentato un altro detenuto – stava così male che per 4 giorni non ha preso la terapia. Dopo 4 giorni si è svegliato e abbiamo parlato…”.

Dal 16 giugno Natascia Savio è in sciopero della fame contro il trasferimento al carcere di S.M. Capua Vetere. Solidarietà e mobilitazione

“Lucidamente consapevole della strategia punitiva che sta ponendo in essere il DAP nei miei confronti, e contemporaneamente offuscata di rabbia e disgusto, ho deciso che, se non ho mezzi per interpormi concretamente alle loro logiche vendicative, ho perlomeno la possibilità di non lasciarglielo fare con la mia collaborazione. Alla notizia del mio ritorno a S. Maria, alle h. 18.00 del 16.06.21, ho immediatamente comunicato l’inizio di uno sciopero della fame a tempo indeterminato. So che queste decisioni non competono alla direzione del carcere, ma io in questo posto di merda non intendo più mangiare un boccone”

Con queste parole il 16 giugno, alla notizia del nuovo trasferimento nel carcere di S. Maria Capua Vetere, Natascia ha intrapreso uno sciopero della fame a tempo indeterminato.

Natascia si trova in carcere da oltre due anni, accusata assieme ad altri due compagni, Beppe (anche lui imprigionato da oltre due anni) e Robert, dell’invio di buste esplosive all’ex direttore del DAP, Santi Consolo, e a due pm torinesi particolarmente dediti all’accanimento giudiziario nei confronti di compagne e compagni, Rinaudo e Sparagna.

Dal giorno del suo arresto, Natascia non ha mai subito passivamente le angherie dei suoi carcerieri: trasferimenti punitivi in luoghi improbabili e lontani dai propri affetti e dal proprio avvocato, impossibilità di comunicare in maniera adeguata con il proprio legale per riuscire a costruire una qualunque difesa processuale, processi in videoconferenza, censura e trattenimenti arbitrari sulla corrispondenza, strette sui colloqui e sull’ora d’aria, sulla musica, sui libri.

Stanno tentando in ogni modo di fiaccare la forza e la determinazione di Natascia, e nel contempo di lanciare un monito per chiunque decida di porsi di traverso con corpo, testa e cuore alle loro decisioni. Il suo trasferimento nel carcere di S. Maria Capua Vetere è solo l’ultimo degli stratagemmi vendicativi messi in atto dal DAP. Lo stesso carcere noto alle cronache per i brutali pestaggi e per le torture subite e testimoniate da diversi prigionieri e che ebbero luogo nell’aprile del 2020, a freddo e dopo una protesta nata in piena emergenza sanitaria per chiedere tamponi e pretendere le distanze sociali rese impossibili dal sovraffollamento carcerario. Lo stesso carcere che in questi giorni è noto alle cronache per la notizia di 52 misure cautelari emesse nei confronti di altrettante guardie penitenziarie proprio per quegli stessi fatti. (Qui il video dei pestaggi)

Natascia ha deciso di usare il suo corpo per non subire passivamente la lunga sequela di azioni infami che il DAP e la direzione del carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno deciso di adottare nei suoi confronti, e che proseguono incessantemente da quasi 4 mesi.

La corte d’assise di Genova ha deciso che il processo per l’op. Prometeo non può rallentare neppure di fronte ad un leso diritto alla difesa: the show must go on.

Venerdì 2 luglio, h: 8,30 vi sarà un presidio di solidarietà davanti al tribunale di Genova e Domenica 4 luglio ore 14, sotto il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in solidarietà con la compagna anarchica Natascia in sciopero della fame
e con tutti i detenuti e le detenute di quell’infame galera.

Segue testo di Nat sullo sciopero della fame Continua a leggere

Mele marce? Marcio il sistema e la feccia fascio-leghista che sostiene gli squadristi in divisa: Il video della spedizione punitiva del 6 aprile 2020 al carcere di S. M. Capua Vetere

I filmati inediti, pubblicati da «Domani», delle violenze: carcerati in ginocchio umiliati con calci e manganelli Il video conferma la spedizione punitiva del 6 aprile 2020 nell’istituto penitenziario ‘Francesco Uccella’ di Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. In uno dei filmati pubblicati dal quotidiano «Domani» si vedono i detenuti che vengono fatti inginocchiare e vengono colpiti con calci, pugni e manganellate. Qualcuno è trascinato a forza, altri vengono picchiati con insistenza dopo essere caduti a terra. Detenuti costretti a spogliarsi e a restare nudi anche davanti agli agenti donna, pestaggi di gruppo, ispezioni anali col manganello, e poi i “cappottoni”: reclusi costretti a passare in un corridoio umano di agenti e bersagliati di colpi fino a restare senza fiato. Leggere le oltre duemila pagine di ordinanza dell’inchiesta che ha portato all’emissione di 52 misure cautelari per agenti della Polizia Penitenziaria e funzionari del Dap è scendere nell’inferno del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), quello che il gip che ha firmato le misure definisce “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania” e, senza mezzi termini, “una orribile mattanza”.

“Orribile mattanza”: il video shock delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicato in esclusiva su “Domani”

Un video shock è la prova regina dell’accusa. Nelle sequenze riprese dalle telecamere di sorveglianza pubblicate da Il Domani le scene che inchiodano gli agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella” il 6 aprile del 2020. Un pestaggio durato quattro ore che mostra nel video alcuni momenti salienti ripresi dal circuito interno e che hanno fatto firmare misure cautelari per 52 tra dirigenti e agenti della casa circondariale del Casertano.

Incappucciati e colpiti

Ecco che cosa si vede nelle riprese che risalgono al pomeriggio del 6 aprile dello scorso anno, quando, dopo le proteste dei detenuti (senza conseguenze) avvenute il giorno prima per chiedere mascherine e tamponi dopo il primo caso di Covid-19, arriva un vero e proprio raid punitivo che viene definito dai responsabili del carcere e annunciata ai detenuti come una “perquisizione generale straordinaria”.

Violenze in carcere, 52 misure cautelari per gli agenti. Il gip: “Orribile mattanza”

Nel video pubblicato da Il Domani, di cui molti frame compaiono negli atti giudiziari, c’è una sala piena di sedie impilate dove due agenti con casco e scudo e manganello fanno camminare davanti a sè in ginocchio un detenuto sul pavimento. Un altro, seduto a terra e appoggiato al muro, come tanti altri, lungo la parete e con le mani dietro la testa, viene avvicinato da un agente con il casco che lo prende a manganellate. Un’altra guardia con i capelli bianchi trascina un detenuto incappucciato e gli dà dei calci nell’addome e nel sedere. Un altro ancora, in piedi, viene colpito da una violenta manganellata sulle gambe.

Forche Caudine nel corridoio del carcere

Poi la scena cambia, dalla telecamera della videosorveglianza viene inquadrato un corridoio e si vede in primo piano un agente coperto dal casco che schiaffeggia un detenuto che indossa una tuta rossa. È l’inizio di quella che negli atti è stata definita qualcosa di simile a una mattanza: i detenuti vengono fatti sfilare uno dopo l’altro fra due ali di agenti – nel corridoio ce ne sono almeno cento – e a ogni passaggio sono botte. Non viene risparmiato chi cade a terra, succede a un detenuto che a un certo punto perde l’equilibrio e scivola: a quel punto si vede la guardia infierire su di lui con il manganello. I colpi vengono inferti anche con le mani coperte da guanti. Si vedono anche i detenuti presi di mira coprirsi il volto per non essere colpiti. Tutti gli agenti distribuiscono colpi e quasi tutti indossano le mascherine.

I colpi al volto sul pianerottolo

La scena seguente vede due agenti in cima a una scala che porta ai piani superiori e due detenuti che salgono gli ultimi scalini: entrambi sul pianerottolo vengono colpiti al volto e alla testa e uno viene preso per la maglia e spinto, dopodiché gli arriva anche un colpo di manganello sulla schiena.

Salvini domani nel carcere di Santa Maria, il garante Ciambriello: “Ma ha letto le carte?”

“Giovedì sarò a Santa Maria Capua Vetere per portare la solidarietà, mia e di milioni di italiani, a donne e uomini della Polizia Penitenziaria che lavorano in condizioni difficili e troppo spesso inaccettabili”, ha spiegato Matteo Salvini, “La Lega sarà sempre dalla parte delle Forze dell’Ordine”. Indagini che però vanno ancora avanti. Stando a quanto emerso dalle indagini, ci sarebbero state vere e proprie rappresaglie mascherate da perquisizioni, durante le quali i detenuti sarebbero stati picchiati, umiliati e lasciati senza cure per punirli della rivolta avvenuta qualche giorno prima. A finire al centro dell’inchiesta anche le chat tra alcuni indagati, nelle quali si parla apertamente delle violenze: “allora domani chiave e piccone in mano”, “li abbattiamo come vitelli”, ” domate il bestiame”, “spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovare tutti malati”, “si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, il tempo delle buone azioni è finito”, si legge nell’ordinanza del Tribunale sammaritano. Gli inquirenti, al termine degli indagini, hanno ritenuto la gravità indiziaria per il delitto di concorso in tortura nei confronti di 41 detenuti, di maltrattamento aggravato verso 26 detenuti e di lesioni personali volontarie nei confronti di 130 detenuti.

Ancora calci e spintoni nel corridoio nuovamente inquadrato, in particolare su un detenuto quasi calvo e con una t-shirt azzurra addosso. E ancora in corridoio a un certo punto arriva un detenuto extracomunitario che indossa la celebre maglia del Barcellona che era della stella argentina Leo Messi, erede di Maradona. Su di lui i colpi si moltiplicano: il carcerato cerca di avanzare, ma viene respinto all’indietro.

Il pestaggio del detenuto disabile

E come in un crescendo di disumanità, viene poi inquadrato un altro detenuto che viene spinto sulla sedia a rotelle da una guardia con casco e scudo. Costui non gli risparmia colpi di manganello addosso. Gli fanno ala altri quattro agenti, almeno due dei quali indossano la pettorina bianca con la scritta “Polizia penitenziaria”. Dopo l’invalido escono altri quattro detenuti che vengono tutti colpiti alla testa da una guardia con i capelli bianchi e da altri colleghi. Ognuno che esce dopo il portatore di handicap dalla stanza di fronte a una grande vetrata, riceverà questo tipo di accoglienza.

Trattenuto e colpito con il manganello

In un’altra sequenza si vedono tre o quattro ospiti del carcere di Santa Maria Capua Vetere contro i quali gli agenti si accaniscono particolarmente prima che vengano spinti e trascinati dentro una stanza. Una guardia carceraria che indossa guanti arancione si scatena contro un detenuto, colpendolo ripetutamente per tutto il suo passaggio in corridoio. Nessuno si ribella. Quasi tutti si fanno schermo con le mani e camminano con la testa abbassata. Un altro con una maglia bianca viene trattenuto per la manica e picchiato ripetutamente con il manganello da cinque o sei agenti con casco e scudo. Poi vengono nuovamente fatti uscire dalla stanza, piegati, con la testa bassa e comunque colpiti mentre si allontanano. Uno con una t-shirt grigia viene addirittura trascinato sul pavimento fuori dalla stanza e portato via, come non si deve fare neppure agli animali.

Solidarietà al compagno Eddy di Napoli. L’unica associazione a delinquere è quella di stato e padroni.

Il SRP  esprime piena solidarietà a Edoardo Sorge, un compagno generoso che ha scelto di lottare ogni giorno contro la guerra di classe che quotidianamente i padroni e lo stato al loro servizio conducono contro la classe sfruttata.

Su di lui è stata aperta un’indagine per associazione a delinquere, ma l’associazione che stato e padroni vogliono colpire cercando di ingessare con questa indagine l’impegno di Eddy è quella dei lavoratori e delle lavoratrici combattive, degli operai, dei disoccupati, dei senza casa, degli immigrati, degli sfruttati che a testa alta lottano e si organizzano in difesa dei propri diritti, nella prospettiva di una trasformazione radicale dei rapporti di produzione, dei rapporti sociali.

L’indagine su Eddy, la repressione di lavoratrici e lavoratori messa in atto da stato e padroni con la complicità dei sindacati collaborazionisti, fa il paio con l’assassinio di Adil, con le squadracce assoldate dai padroni per piegare la resistenza di operai e operaie, e si inserisce a pieno titolo nella guerra di classe del capitale.

Una guerra sistemica che nella crisi capitalistica si inasprisce ancora di più e ricorre a qualsiasi mezzo, “legale” e “illegale”, repressivo e preventivo, per procrastinare la sua fine.

Consapevoli di questo, nel rinnovare la nostra solidarietà a Eddy e a tutti i lavoratori e le lavoratrici combattive colpiti dalla repressione padronale e di stato, rilanciamo il nostro appello a tutte le forze che si battono contro la repressione, a tutte le energie del sindacalismo conflittuale, alle lavoratrici che si battono contro ogni tipo di discriminazione e a tutti i proletari coscienti, a costruire un fronte unitario contro la repressione padronale e di stato. Un organismo di autodifesa legato a livello nazionale e nei territori alle lotte proletarie e che punti apertamente alla mobilitazione politica dei lavoratori sul terreno del carcere e della repressione, contro l’attività permanente controrivoluzionaria di stato, governi e padroni.

Se toccano uno toccano tutti e tutte, L’unica associazione a delinquere è quella di stato e padroni

SRP

 

Dal Laboratorio Politico Iskra

Negli ultimi anni e in questi mesi di pandemia decine di procedimenti giudiziari e amministrativi si sono accumulati sulle spalle di disoccupati, attivisti, studenti e lavoratori. È evidente ora a tutti l’escalation repressiva di questi mesi.

In questi giorni un militante del Laboratorio Politico Iskra, Eddy, membro dell’esecutivo nazionale del Si Cobas e tra i portavoce del Movimento di Lotta Disoccupati 7 Novembre, è stato informato dai nostri legali di un’indagine a suo carico per Associazione a delinquere (articolo 416 del codice penale) in cui sarebbe coinvolto e che risulta tuttora in corso.

Non entriamo nel merito di un’indagine di cui sappiamo ancora molto poco ma iniziamo a sottolineare la cornice politica entro cui si attua questa azione repressiva. L’utilizzo dell’associazione a delinquere è un capo d’imputazione usato più volte contro i movimenti di lotta. Qui a Napoli la Procura, con questa fattispecie di reato utilizzata spesso contro i disoccupati organizzati, ha provato a distruggere queste esperienze di lotta collettive, utilizzandolo come un monito chiaro per chiunque avverta la necessità di mobilitarsi in difesa del diritto ad un salario.

Il fatto che gli sfruttati e le sfruttate stiano provando ad organizzarsi a più livelli e in maniera sempre più convinta non fa dormire sonni tranquilli ai padroni la cui unica esigenza diventa quella di prevenire e poi reprimere ogni tentativo di lotta che metta in discussione questo sistema sociale ed economico. Per evitare che ciò possa accadere stato e sfruttatori ricorrono ai tanti strumenti repressivi in loro possesso e affinati nel corso di decenni di controrivoluzione, colpendo soprattutto le avanguardie di lotta più combattive.

La criminalizzazione dei movimenti di lotta, la depoliticizzazione degli stessi, l’uso indiscriminato dei reati associativi, disegna una pericolosa strategia volta a risolvere il conflitto sociale sul piano dell’ordine pubblico, spesso in maniera preventiva, nel tentativo di sbarazzarsi di chiunque osi organizzarsi per rivendicare i più basilari diritti come quello al lavoro, alla casa, alla salute, alla bonifica.

L’unica possibilità concreta che abbiamo oggi è unirsi attorno ad un programma politico di lotta capace di fare da ponte tra le rivendicazioni immediate e la prospettiva rivoluzionaria ed anticapitalista, che sia in grado di parlare alle emergenze ed esigenze sociali in un’ottica di trasformazione politica, sociale ed economica.

Se è vero che una lotta contro questi meccanismi repressivi non può essere slegata da una lotta quotidiana contro il sistema economico e sociale che li produce, tra le esigenze immediate resta centrale la necessità di fare quadrato attorno a chi viene represso perché prova a rovesciare lo status quo.

E’ da tempo che siamo scesi in campo e continueremo ad allargare il fronte unico degli sfruttati pronti a farvi tremare e rovesciarvi e non saranno teoremi fantasiosi, denunce, fogli di via o multe a fermarci.

Come urliamo ogni giorno dalle piazze, il messaggio chiaro a chi mette in atto queste montature è uno solo: se toccano uno, toccano tutte e tutti noi. Giù le mani da Eddy! Giù le mani da chi lotta!

Milano: insulti razzisti e percosse da parte delle Forze dell’Ordine in assetto antisommossa su una quindicina di giovani che facevano colazione fuori dal McDonald’s. Ferita una ragazza

da MilanoInMovimento

Razzismo e abuso in divisa in Darsena

Nella mattinata di ieri, intorno alle 6, una quindicina di giovani che facevano colazione ai tavolini esterni del McDonald’s hanno subito un blitz da parte delle Forze dell’Ordine in tenuta antisommossa che si è concluso con un arresto e una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale e 12 sanzionamenti per violazione delle misure anti-Covid. Una prima pattuglia si sarebbe fermata sulla strada per placare degli schiamazzi, per la precisione il rumore contestato era il campanello di un monopattino elettrico. Ma trovatasi di fronte ad un gruppo di giovani, per la maggioranza non bianchi e non inclini a prostrarsi di fronte all’autorità in divisa, sono stati chiamati i rinforzi.

L’evidenza dell’accanimento si evince dalla sproporzione di forze schierate. 7 pattuglie e 2 blindati della celere, che hanno prontamente caricato il gruppo che consumava la colazione seduto sui tavolini del Mc. A seguito del pestaggio indiscriminato, una ragazza di circa 18 anni ha avuto bisogno di soccorso medico a causa delle manganellate sulla testa, ma gli agenti si sono rifiutati di chiamare l’ambulanza e hanno negato di averla colpita.

Durante l’identificazione si sono susseguiti numerosi insulti razzisti come “Annientate questo negro” e “Torna al tuo paese”, peraltro rivolto verso giovani con la cittadinanza italiana. Dopo aver rubato il cellulare a un ragazzo che registrava le irregolarità in corso le pattuglie si sono dileguate, senza dare alcuna motivazione circa l’arresto di un ragazzo. Solo quando il gruppo ha protestato bloccando la partenza della volante il cellulare è stato restituito. Le poche notizie pubblicate sui media parlano di una rissa e del lancio di bottiglie. Come al solito gli abusi polizieschi vengono coperti e giustificati nella cronaca come reazioni necessarie. Le bottiglie impugnate da due ragazzi rappresentavano il tentativo di difendersi da uomini che li inseguivano con caschi, scudi e manganelli e che stava picchiando senza ragione una decina di giovani al grido di insulti razzisti. Alle vittime di questo abuso in divisa e della repressione che ne segue va tutta la nostra solidarietà.

Curioso che questo episodio non sia stato cavalcato dalle destre, sempre pronte ad acclamare nuove strette securitarie. Probabilmente perché in questo momento la tolleranza verso la movida rappresenta la possibilità per i bottegai del centro di fatturare, ragione per cui fino ad ora è stato permesso di far festa nelle piazze, in particolare alle Colonne di San Lorenzo, nonostante la difficoltà di gestione della folla. Il disordine delle serate milanesi ha evidentemente turbato l’umore dei tutori della legge, che frustrati, hanno visto nella mattinata di ieri un’occasione di rivalsa. Va anche evidenziato che i recenti interventi di polizia non stanno brillando per lungimiranza. Il colpo di pistola sparato lo scorso mese da un carabiniere contro un cane che ha lievemente ferito una passante è indicativo del livello di inadeguatezza. L’urgenza di contenere una situazione sociale potenzialmente esplosiva dovuto alla crisi pandemica ha messo nelle strade nuovi giovani agenti, esaltati da una fase politica securitaria e xenofoba, come sempre a pagarne il prezzo sono le categorie più discriminate.

Il racconto dettagliato su Instagram

Pestaggi e torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, misure cautelari per 52 agenti. “Domate il bestiame”, “Li abbattiamo come vitelli”, queste alcune frasi estratte dalle chat degli agenti

Dai messaggi compiaciuti per come avevano “ristabilito l’ordine” a quelli di paura, quando avevano saputo che gli inquirenti avevano acquisito le immagini della videosorveglianza e che, da quei video, sarebbero arrivati a loro. E che non l’avrebbero passata liscia. Tutto ricostruito nelle indagini che hanno portato oggi all’esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti di poliziotti e impiegati del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria della Campania, firmate dal gip di Santa Maria Capua Vetere dopo la richiesta della Procura locale.

Il gip che ha firmato le misure, parlando di raid pianificati e studiati, non usa mezzi termini: “una orribile mattanza”. Le accuse sono gravi: torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.

Le punizioni dopo la rivolta in carcere
La vicenda è collegata alla rivolta che scoppiò nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, quando circa 150 detenuti “presero possesso” di sei sezioni della struttura e costrinsero ad allontanarsi gli agenti, inscenando una protesta dopo aver saputo di un contagio Covid dietro le sbarre. Secondo l’ipotesi della Procura dopo quella rivolta, che rientrò con la promessa che venissero effettuati i test, ci furono perquisizioni punitive e ritorsioni. A denunciarlo, pochi giorni dopo, furono i garanti dei detenuti campani.

Precedentemente, nello stesso carcere, c’era stata un’altra protesta. Il 9 marzo un gruppo di 160 detenuti del reparto Tevere si era rifiutato di rientrare in cella dopo l’ora del passaggio, protestando per l’interruzione dei colloqui imposta per le norme anti Covid, ma in quella circostanza non ci furono incidenti, danni o episodi di violenza.

Detenuti picchiati, costretti a strisciare e lasciati senza cure
Dopo la seconda protesta, nella giornata del 6 aprile, ci fu una perquisizione straordinaria nei confronti di quasi tutti i ristretti del reparto Nilo, quello dove c’era stata la protesta. Ma, ricostruiscono i magistrati, il vero intento degli agenti non era di cercare armi: si trattava di violente rappresaglie, a cui avevano partecipato 283 unità, sia interne all’organico del carcere sia provenienti dal Gruppo di Supporto agli Interventi. Erano state perquisite 292 persone.

I video della videosorveglianza, sottolinea in un comunicato il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone, dimostrano “l’arbitrarietà delle perquisizioni, disposte oralmente”, e fanno emergere “il reale scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale della Polizia Penitenziaria, essendosi conseguentemente utilizzato un atto di perquisizione”.

Le immagini, prosegue il procuratore, “rendevano una realtà caratterizzata dalla consumazione massificata di condotte violente, degradanti e inumane, contrarie alla dignità ed al pudore delle persone recluse”. Dopo la denuncia dei garanti c’era stata una visita ispettiva del Magistrato di Sorveglianza, durante la quale diversi detenuti avevano riferito delle violenze.

Era emerso che alcuni ristretti erano stati lasciati senza biancheria e che non erano stati visitati nonostante avessero contusioni ed ecchimosi evidenti, e gli fosse impedito qualsiasi contatto telefonico coi familiari. Da qui, la decisione di acquisire i nastri della videosorveglianza, con delega ai carabinieri della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere.

I video dell’orrore nel carcere di Santa Maria Capua Vetere
Dai video acquisiti, scrive il Procuratore, “era possibile accertare, in modo inconfutabile, la dinamica violenta, degradante e inumana che aveva caratterizzato l’azione del personale impiegato nelle attività, persone difficilmente riconoscibili perché munite di DPI ed anche, quanto a numerosissimi agenti, di caschi antisommossa, unitamente a manganelli in dotazione, illegalmente portati con sé, ed anche di un bastone”.

I detenuti del reparto Nilo, ricostruiscono i magistrati, erano stati costretti a camminare attraverso un “corridoio umano” formato dai poliziotti e percossi al passaggio con “un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello, che le vittime non riuscivano in alcun modo ad evitare”.

Altri video, che inquadrano le sale della socialità, mostrano detenuti costretti a stare in ginocchio per lungo tempo e picchiati anche quando, ormai esanimi, crollavano a terra. Uno di loro viene ripreso mentre cerca di riparare la testa dai colpi e un agente lo colpisce col manganello sulle nocche delle dita.

Gli inquirenti hanno ritenuto la gravità indiziaria per il delitto di concorso in tortura nei confronti di 41 detenuti, di maltrattamento aggravato verso 26 detenuti e di lesioni personali volontarie nei confronti di 130 detenuti.

Il gip: “Nel carcere una orribile mattanza”
Il Procuratore ricorda poi le parole del gip, che nell’emettere i provvedimenti aveva parlato di “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania”, “un vero e proprio uso diffuso della violenza, intesa da molti ufficiali ed agenti della Penitenziaria come l’unico espediente efficace per ottenere la completa obbedienza dei detenuti” e “una orribile mattanza”.

Le chat tra gli agenti da “Li abbattiamo come vitelli” a “Finisce come la cella zero”
Altri elementi sono emersi dall’analisi delle chat intercorse tra gli agenti della Penitenziaria, i loro dirigenti e altre persone dopo il sequestro dei telefoni cellulari. Il tenore dei messaggi cambia sensibilmente da prima delle perquisizioni, quindi nelle fasi preparative, a quando si diffonde la notizia dell’acquisizione dei video.

“Allora domani chiave e piccone in mano”, “li abbattiamo come vitelli”, “non sempre il mefisto serve ai banditi per fortuna”, “spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovare tutti malati”, “si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, il tempo delle buone azioni è finito”, scrivono prima delle perquisizioni.

Subito dopo gli eventi, altri messaggi che li commentano: “Il sistema Poggioreale”, “quattro ore di inferno per loro”, “qualche ammaccato tra i detenuti… cose normali”; “Abbiamo ristabilito un po’ l’ordine”, “ho visto cose che in sei anni non immaginavo nemmeno”, “c’è stato un carcerato che ha dato addosso a un collega e lo hanno portato giù alle celle e come di rito ha avuto pure la parte sua”, “Dalle 16 alle 18 abbiamo fatto tabula rasa” e “Oggi si sono divertiti al Nilo”.

Dopo l’acquisizione dei video, invece, il tenore cambia. C’è la paura di venire identificati, di pagare le conseguenze. Quindi i messaggi sono del tutto diversi: “Temo che da domani sarà una carneficina”, “Ci andranno pesante”, “mò succede il terremoto”, “pagheremo tutti, 300 agenti e una decina di funzionari”, “decapiteranno mezza regione”, “è stata gestita male e sta finendo peggio” e “finirà come la cella zero”.

I detenuti picchiati accusati di resistenza e lesioni
Nei giorni successivi, già a partire dal 7 aprile 2020, agenti e ufficiali della Penitenziaria avevano inoltrato una informativa di reato nei confronti di 14 detenuti, accusandoli di resistenza e di lesioni. Per la Procura si trattava di accuse false: in realtà quelle ferite “non erano sicuramente state procurate dai detenuti ma risultavano conseguenza delle violenze consumate dagli stessi agenti, mediante pugni, schiaffi, calci e ginocchiate ai danni dei reclusi”.

Inoltre, sempre per coprire le violenze, gli agenti e diversi ufficiali sono accusati di avere prodotto delle false fotografie, scattate ad armi e oggetti atti a offendere sequestrati in altre circostanze, spacciandole per materiale trovato durante e subito dopo la protesta. Tra questi, gli scatti che ritraevano dei pentolini sui fornelli, che nei racconti sarebbero diventati quelli utilizzati per riscaldare olio e acqua da gettare sui poliziotti.

Detenuti picchiati a Santa Maria Capua Vetere, 52 misure cautelari
Delle 52 misure cautelari eseguite oggi, 28 giugno, 8 sono con custodia in carcere, nei riguardi di un ispettore coordinatore del reparto Nilo e di 7 tra assistenti e agenti della Penitenziaria, tutti in servizio nel carcere sammaritano.

Disposti i domiciliari per 18 persone: per il comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del carcere di Secondigliano /comandante del Gruppo di Supporto agli interventi, del comandante dirigente della Penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, della commissaria capo responsabile del reparto Nilo dello stesso carcere, di un sostituto commissario, di 3 ispettori coordinatori Sorveglianza Generale e di 11 tra assistenti e agenti della Penitenziaria, sempre in servizio a Santa Maria Capua Vetere.

Tre misure di obbligo di dimora sono state notificate a 3 ispettori della Penitenziaria, tutti in servizio a Santa Maria Capua Vetere. Infine, sono state disposte 23 misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio, per un periodo tra i 5 e i 9 mesi, nei confronti della comandante del Nucleo Investigativo Centrale della polizia Penitenziaria, Nucleo Regionale Napoli, del Provveditore Regionale per la Campania, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e per 21 tra assistenti e agenti della Penitenziaria, questi ultimi quasi tutti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Qui le testimonianze dei pestaggi raccolti da il Dubbio

Svuotare le carceri a tutela della salute dei detenuti. Chiacchiere e niente fatti dalla ministra Cartabia. E intanto nel carcere di Taranto, il più sovraffollato, aumentano ancora i contagiati da Covid 19.

In tre giorni i casi positivi tra i detenuti sono passati da 40 a 46. Uno è in ospedale

Tentò di uccidere la ex a Ginosa si suicida nel carcere di Taranto

Taranto – Aumentano ancora i contagiati nel carcere di Taranto, dove in tre giorni i casi positivi tra i detenuti sono passati da 40 a 46, uno dei quali ricoverato in ospedale.

E’ quanto emerge dal report nazionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato al 24 giugno.