Soccorso Rosso Proletario

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Il carcere, le accuse, le torture: tutto quello che Patrick Zaki non può raccontare

Lo studente egiziano è “libero”, ma deve ancora fronteggiare due accuse e rischia 17 anni di carcere. Per questo oggi non può parlare di quello che gli è accaduto in prigione. Ma c’è chi lo fa per lui

«La speranza fa rimanere in vita». Patrick Zaki è libero dopo 668 giorni di prigionia e si trova nel salotto della sua casa di infanzia a Massoura. Dopo l’annuncio della sua scarcerazione lo studente egiziano ha passato la sua prima giornata in libertà con la sorella Marise, la fidanzata Reny e i genitori George e Hala. E ha parlato con i giornalisti italiani raccontando le sue ultime 48 ore: «Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato e hanno cominciato a prendermi le impronte – dice al Corriere della Sera -. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi volessero scarcerare. Ma poi ho capito che c’era una speranza. E la speranza è la cosa che ti fa rimanere in vita quando ti tolgono la libertà».

Cosa succede se Zaki parla

Repubblica spiega oggi che il primo febbraio dovrà tornare in aula per rispondere all’accusa di diffusione di notizie false e dannose per lo Stato. Rischia una pena di cinque anni. In più c’è una seconda accusa sospesa, quella di associazione terroristica. In questo caso si rischiano fino a 12 anni. La speranza è che la seconda accusa cada e che per la prima venga comminata una pena pari o inferiore ai 22 mesi scontati nel carcere di Tora a sud del Cairo. In questo modo l’Egitto potrebbe salvare la faccia e Zaki potrebbe tornare in Italia. Ma affinché questo accada è necessario che l’accusato tenga un profilo basso e che le diplomazie lavorino sottotraccia come è accaduto finora. Per questo nelle interviste rilasciate oggi lo studente egiziano parla pochissimo delle accuse nei suoi confronti e di quello che gli è accaduto in carcere.

«Grazie. Grazie ai tutti gli italiani, ai partiti politici che hanno preso a cuore il mio caso. E prima di tutto, Bologna: grazie. Bologna è la mia città, la mia università, la mia alma mater. Tornerò il prima possibile, perché lì c’è la mia gente. Grazie a Amnesty International, a Riccardo Noury a tutto il suo gruppo», dice solo oggi. E aggiunge che con l’italiano se la cava ancora «non troppo bene. Dico solo qualche parola. Allora… Insomma… Parlo italiano così così. Prometto che dalla prossima settimana mi rimetterò a studiare perché quando torno voglio parlare bene». Però racconta che in carcere ha letto Dostoevskij, Saramago ed Elena Ferrante: «È bellissima – dice – la migliore letteratura italiana che ho mai letto. Non vedo l’ora di andare a Napoli, io adoro Napoli». Anche perché la sua bisnonna Adel veniva da quella città.

Le mani da stringere in Italia

Zaki sa che l’Italia si è adoperata per tirarlo fuori dal carcere: «Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di persone a cui dovrò stringere la mano». Anche Liliana Segre, che ha votato per dargli la cittadinanza italiana al Senato: «Mi ha riempito d’orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che ciò avvenga quanto prima». Patrick Zaki è stato arrestato il 7 febbraio del 2020, appena sceso dall’aereo che lo riportava in Egitto dall’Italia. L’accusa punta il dito su un articolo pubblicato nel 2019 in cui parla delle persecuzioni patite della minoranza dei cristiani copti nel suo Paese. Non si sa ancora se può lasciare l’Egitto.

La sua legale, Hoda Nasrallah, ha spiegato ieri all’Ansa: «Non possiamo conoscere se c’è un’interdizione a partire se prima non decide di viaggiare. Lo sapremo in aeroporto». Lui intanto ringrazia anche la professoressa Rita Monticelli, la sua mentore al master Gemma di Bologna: «Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto». Khaled Douad, giornalista e oppositore del regime di Al Sisi, è finito anche lui in carcere e lì ha incontrato Zaki. «Non stava bene ovviamente, chi starebbe bene lì dentro. Immaginate il vostro corpo perquisito regolarmente in ogni angolo e la rabbia di non poter esprimere la rabbia», dice oggi a La Stampa.

La prigione di Patrick

E ancora: «Lo immagino adesso coricarsi nel suo letto e lo ripenso in carcere: era meno fortunato di me, che, dividendo la cella con un paio di settantenni, avevo una branda di ferro su cui dormire. Lui e i suoi due compagni stendevano le coperte sul pavimento di 4 metri quadrati, un buco dentro cui c’era pure un piccolo bagno. Aveva però 2 ore d’aria e poteva leggere i giornali che a me erano preclusi. Diceva che lo aiutavano i libri, quelli che hanno salvato anche me. I testi politici sono proibiti nelle carceri egiziane ma i manuali di storia e i romanzi no, capita cosi di leggere Camus, Kafka, Arthur Miller. Basta che te li portino i famigliari, perché chi è in attesa di giudizio non può accedere alla biblioteca».

Carcere assassino, un altro detenuto suicidato dallo stato

Tragedia nel carcere di Ascoli, si toglie la vita un detenuto di origini calabresi

Un uomo di 45 anni, Roberto Franzè, residente nel Bresciano ma originario della Calabria si è ucciso oggi nel carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove era detenuto nella sezione “alta sicurezza”. Ha approfittato dell’assenza dei compagni di cella, usciti per l’ora d’aria, e si è impiccato alle sbarre, usando le lenzuola. Quando gli altri detenuti sono rientrati hanno dato l’allarme, ma gli agenti di polizia penitenziaria subito intervenuti non hanno potuto far nulla per salvargli la vita.

L’uomo stava scontando una condanna definitiva per reati legati alla criminalità organizzata, con fine pena prevista nel 2023. In passato aveva minacciato il suicidio.

L’uomo si è tolto la vita in carcere dopo aver più volte comunicato alla Procura di Brescia le proprie condizioni psicofisiche. «Non possiamo proprio dire che Franzè non abbia urlato quotidianamente di non farcela più. Aveva un’invalidità accertata. Il magistrato di sorveglianza competente è stato particolarmente sensibile nel cercare una soluzione. Per il resto è stato solo deserto e solitudine» commenta l’avvocato Gianbattista Scalvi che, con Anna Marinelli, difendeva Roberto Franzè.

I CPR UCCIDONO! Chiudere i CPR!

TESTIMONIANZE VIDEO E AUDIO DAL CPR DI GRADISCA

da Comitato Lavoratori Delle Campagne

Ieri mattina un’altra persona è morta dentro al CPR di Gradisca. Non sappiamo ancora il suo nome, è morta durante il periodo di quarantena che doveva fare una volta entrata nel CPR.

Nell’audio un prigioniero, che era anche lui in quarantena, racconta i tentativi di tenere nascosto l’accaduto da parte di chi gestisce questo luogo. Si parla di suicidio, e che sia stato così o meno poco importa: sappiamo bene che a uccidere questa persona sono stati il sistema delle frontiere e del controllo sulle vite, la violenza delle prigioni, il razzismo delle leggi sui documenti.

Tutti elementi che fanno parte della stessa macchina assassina, che continua ad ammazzare, ogni giorno, da un estremo all’altro dell’Europa, sotto gli occhi complici di chi non vuole vedere: due settimane fa, Abdel Latif, ventiseienne tunisino, è stato trovato morto legato al letto, all’Ospedale san Camillo di Roma, dopo essere stato prima su una nave quarantena e poi rinchiuso nel CPR di Ponte Galeria (Roma); lunedì una donna curda di 39 anni, Avin Irfan Zahir, è morta al confine tra Polonia e Bielorussia; ieri un uomo nigeriano è stato trovato morto a nord di Olchówka, in Polonia, poco dopo il confine. Solo per ricordare i casi più recenti.

Condividiamo alcuni video girati all’interno delle mura di Gradisca, che mostrano chiaramente quali siano le condizioni di detenzione all’interno di questi luoghi: in pieno inverno, manca l’acqua calda e manca il riscaldamento. I prigionieri accendono il fuoco con quello che hanno, per scaldarsi un po’ prima di dormire in celle in cui le finestre sono rotte. Si vede anche una deportazione verso la Nigeria avvenuta qualche giorno fa: più di cinque guardie portano via di peso una persona, nonostante i suoi tentativi di resistere, per obbligarla a lasciare l’Italia, perché non ha il giusto pezzo di carta.

Facciamo sentire alle persone rinchiuse la nostra solidarietà, continueremo a lottare al loro fianco per distruggere questi luoghi e abbattere questi circuiti di morte!

Non lasciamo sole le persone che resistono all’interno!

Libertà!

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=4944467508952668&id=904745212924938

Cpr di Torino: 5 o 6 tentati suicidi al giorno. Chiudere tutti i lager per migranti!

Cpr, l’accusa dei periti dopo la morte di Moussa Balde: “Non c’era solo l’ospedaletto, gravi carenze in tutta la gestione sanitaria”

Il documento nelle mani dei magistrati che hanno aperto un’inchiesta dopo il suicidio del ragazzo africano

Gli avvocati dei migranti e le associazioni di giuristi che a lungo si sono occupate del Cpr, l’avevano già sostenuto a gran voce. Ma ora anche i consulenti della procura hanno stabilito quanto «inadeguata e carente» sia la gestione sanitaria delle persone trattenute in corso Brunelleschi in attesa di essere rimpatriate. L’anticipazione della loro perizia ricostruisce un quadro di gravi inadempienze e mancanze, che servirà alla pm Rossella Salvati e all’aggiunto Vincenzo Pacileo per tirare le fila dell’inchiesta che vede indagati il medico e il direttore della struttura, oltre ad alcuni poliziotti.
Il lungo elenco dei tentativi autolesionistici e anticonservativi è solo l’ultima parte di un capitolo amaro di questa struttura, finita nell’occhio del ciclone dopo il suicidio, il 23 maggio, di Moussa Balde, il migrante che era stato aggredito per strada a sprangate a Ventimiglia e che era stato portato al Cpr e messo in isolamento all’“ospedaletto”, una struttura fatiscente, con gabbie “pollaio”, senza possibilità di controllo dall’esterno delle condizioni di chi è recluso. Proprio sull’“ospedaletto” (ora chiuso per ristrutturazione) si sono soffermati i consulenti della procura, un pool di medici che deve valutare sia i trattamenti sanitari fisici e psicologici degli ospiti, sia se spazi e procedure fossero corretti.
L’anticipazione arrivata sul tavolo della procura racconta di una mancanza di organizzazione, un sistema mal concepito, ma anche di una «assenza di protocolli». L’ospedaletto non è un luogo adatto «per l’osservazione delle persone» che vengono messe lì per ragioni sanitarie (nel caso di Moussa Balde era per il sospetto di una dermatite) .
Il regolamento del Cpr prevede una stanza di osservazione, ma questa dovrebbe essere uno spazio attiguo a quello dove visitano medici e infermieri, non distante quasi cento metro da loro, dove nemmeno le grida e i lamenti degli ospiti possono venire udite da loro. Il controllo non può essere affidato alla ronda esterna dell’esercito: dovrebbe essere il personale sanitario a verificare la situazione di persona.
Ma manca personale e questa carenza è la prima lacuna lampante. Basti pensare, come aveva spiegato l’Asgi nel “libro nero” del Cpr, che per 180 reclusi, «c’è solo un infermiere per 24 ore e un medico è presente solo cinque ore al giorno».
Anche sul fronte psicologico, gli esperti incaricati dalla procura hanno messo in luce una serie di gravi carenze da protocollo. Nel libro nero si dava atto di un’assistenza di questo tipo garantita solo per 24 ore alla settimana. «Nei primi dieci mesi di pandemia nessun medico psichiatra ha fatto ingresso nel Cpr» denunciava l’Asgi. E alcuni mesi fa era stato trattenuto un uomo, con gravi problemi (un coprofago) che durante un’ispezione era stato trovato tremante e in condizioni drammatiche: non riusciva nemmeno a parlare.
Non stupisce gli inquirenti il fatto che le persone trattenute, che hanno affrontato spesso viaggi della speranza per fuggire dalla povertà e dalle guerre del proprio paese, mettano in atto gesti anticonservativi, sia come escamotage che come atti dimostrativi per evitare di rimanere lì e poi essere rimpatriati.
I tentativi di suicidio all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Torino, in atto dalla fine di settembre, sono un pretesto per uscire, per ottenere rapidamente il rilascio per motivi sanitari.  Negli ultimi due mesi 115 persone avrebbero cercato di togliersi la vita strofinandosi il collo con lenzuola di carta o ingerendo sorsate di bagno schiuma: dopo la visita medica, sono state tutte liberate. 
Ci sono 7 indagati: la direttrice della struttura, il medico e 5 agenti. Sotto accusa le carenze del centro, e l’assistenza sanitaria. «Quella di Moussa è una tragedia su cui non si discute e sarà la magistratura ad accertare i fatti. Al momento nel complesso di corso Brunelleschi ci sono una cinquantina di ospiti, ma i numeri oscillano ogni giorno. Il centro è l’anticamera delle espulsioni. Nel 2019 erano state espulse 430 persone, 50 nel 2020, 133 nel primi mesi del 2021.
Stando ai dati, i tentativi di suicidio sono 5 o 6 al giorno.

Spagna: Pablo Hasél è stato assolto

Pablo Hasél era stato accusato e arrestato per reati di diffamazione con pubblicità, odio e coercizione.

Il Tribunale Penale numero nove di Siviglia ha assolto il rapper Pablo RD, musicalmente noto come Pablo Hasél , dai possibili reati di insulti con pubblicità, odio e coercizione per i quali è stato processato per i commenti che ha pubblicato sul suo account Twitter contro di lui Real Betis Balompié per il suo sostegno al calciatore Roman Zozulya , che l’indagato ha legato all’ideologia nazista, considerando che i commenti fatti in detti tweet devono ritenersi tutelati dal diritto alla libertà di espressione.

Il suddetto rapper è entrato in carcere lo scorso febbraio per scontare una condanna a nove mesi di reclusione per un delitto di glorificazione del terrorismo, insulti e calunnie nei confronti della monarchia e delle forze e degli organi di sicurezza dello Stato, per aver diffuso messaggi minacciosi sui social network.

Nel processo svoltosi a Siviglia contro di lui, la Procura ha chiesto l’assoluzione dell’imputato, mentre la pubblica accusa esercitata dal Real Betis ha chiesto due anni e mezzo di reclusione e il pagamento di una multa di 5.400 euro per un crimine d’odio; 6.000 euro di multa per il reato di insulti con pubblicità e 1.200 euro di multa per il reato di coercizione.

Nella sentenza, emessa dall’Ufficio Comunicazione TSJA, il giudice ritiene provato che, il 20 aprile 2017, il Real Betis ha citato in giudizio l’imputato. Ciò è avvenuto dopo la pubblicazione tramite il suo account sul social Twitter di una serie di commenti relativi al trasferimento al Rayo Vallecano del calciatore Zozulya, appartenente al Betis, dopo che i giocatori della prima squadra di quest’ultimo club sono comparsi insieme al tecnico squadra e ha rilasciato una dichiarazione a sostegno del calciatore e della sua famiglia.

Così, le liste del magistrato hanno detto commenti pubblicati dall’imputato il 2 e 3 febbraio 2017, così come sono «al personale Betis che difende i nazisti, se non fosse per il fatto che morirebbero anche piloti e assistenti di volo, vorrei come se il loro futuro aereo si schianterà “, o “spazzatura dei giocatori del Betis, parlando di linciaggio contro il giocatore nazista, il linciaggio è ciò che fanno i nazisti”.

L’8 febbraio 2017, e dopo che il Betis ha annunciato l’intenzione di sporgere denuncia contro gli indagati, ha pubblicato una serie di tweet in cui ha affermato ” in uno stato veramente democratico, la denuncia sarebbe andata contro il Betis per aver difeso un nazista, essendoci innumerevoli prove che è “,” @Realbetis le vittime dei nazisti ucraini non possono lamentarsi perché sono già morti “,” che continuano a ritrarre se stessi, perseguitando e criminalizzando quelli di noi che non tollerano il nazismo o i suoi difensori, ci aprono gli occhi a molti”, oppure “le bombe degli amici del giudice nazista, che lui finanzia e promuove, fanno questo. Scusa al terrorismo è difenderli“.

In relazione al delitto d’odio, il giudice espone i criteri giurisprudenziali esistenti al riguardo e conclude, d’intesa con la Procura della Repubblica e la difesa, che i fatti perseguiti ” mancano di entità sufficiente per essere incriminati come delitto d’odio ” . , «sebbene sia evidente che le osservazioni contenute nel resoconto fattuale siano riprovevoli, di cattivo gusto e non necessarie, il loro rimprovero penale non è possibile in quanto nel contesto in cui sono state pronunciate non hanno messo in pericolo i valori essenziali di coloro a chi erano diretti, come la sua vita, la sua integrità fisica o la sua libertà».

Il giudice ritiene, in tal senso, che, “sebbene le espressioni e i giudizi di valore espressi dall’imputato nei confronti del Real Betis e dei suoi giocatori possano non essere necessari per riflettere un’opinione o una critica e siano provocatori, dovrebbero essere considerati protetti dalla libertà di espressione in il contesto in cui sono state pronunciate, perché sebbene possano essere offensive, maleducate e anche offensive, non presentano gli elementi necessari per poter integrare la condotta nell’ambito tipico del reato di cui all’articolo 510 del codice penale”, ed è che tali espressioni,” Nonostante il loro contenuto, non erano oggettivamente atte a diffondere incitamento all’odio ai destinatari dei loro messaggi. “

Diritto alla libertà di espressione

“Alla stessa conclusione si deve giungere in relazione al presunto reato di ingiurie denunciate”, afferma il giudice, il quale aggiunge che, “sebbene la normativa penale conceda ampia tutela alla buona reputazione e all’onore del popolo, il riconoscimento costituzionale di la libertà di espressione ha profondamente modificato il modo di affrontare il perseguimento dei delitti contro l’onore nei casi in cui la condotta da ritenersi sia stata posta in essere nell’esercizio di detta libertà”, dunque, anche quando si ritenga che i commenti” dell’imputato “può descrivere un’immagine negativa del club e dei suoi giocatori, sarebbero tutelati nell’esercizio di detta libertà”, applicando le considerazioni fatte in merito a tale diritto in sede di reato di odio, estrapolabili anche a tale figura penale”.

In linea, il giudice rileva che, “a prescindere dal giudizio che si può avere circa la correttezza e la tempestività dei tweet pubblicati dall’imputato e il tono in essi utilizzato, si deve concludere che i requisiti legali e giurisprudenziali non soddisfano . di ritenere commesso nessuno dei reati contestati”.

Il magistrato afferma che il diritto alla libertà di espressione, «che certamente implica possibilità di critica, va esercitato, anche se purtroppo non sempre così, nel rispetto dell’altro e nella tolleranza per le idee altrui, senza dover ricorrere, come nel caso in esame, espressioni disgraziate e provocatorie , ma la verità è che non ogni eccesso verbale, né ogni messaggio che esuli dalla tutela costituzionale, per questo solo fatto, dovrebbero considerarsi costitutivi di reato, offrendo in ogni caso la nostra sistema altre forme di riparazione di tali eccessi che non passano necessariamente per l’incriminazione penale”.

Infine, e in relazione al reato di coercizione, il giudice precisa che in questo caso « la concomitanza degli elementi propri» di detto reato non è individuata nella condotta descritta nella denuncia, poiché « elementi quali l’uso della violenza o intimidazione, fermo restando che la condotta svolta dall’imputato sia stata molesta o addirittura molesta per i denuncianti, non è provato l’elemento di violenza intimidatoria proiettata direttamente su di loro per costringerli ad adottare un determinato comportamento, e non vi è evidenza che , Dopo il comunicato rilasciato con il team tecnico il 2 febbraio 2017, i giocatori hanno visto la loro libertà limitata al riguardo e gli è stato impedito di fare altre dichiarazioni pubbliche a sostegno del loro compagno di squadra”.

«Non si può comprendere che il comportamento dell’imputato raggiunga la gravità che implica la sua qualificazione come reato ai sensi dell’articolo 172 del codice penale, che non può essere apprezzata dal solo turbamento dell’umore», poiché «è richiesta una condotta di sufficiente intensità e una chiara restrizione del diritto alla libertà di azione della vittima, che non concorre, per cui l’inclusione dei fatti dichiarati nel reato di coercizione comporterebbe un eccesso nell’applicazione della norma penale”, conclude il magistrato, che per tutti Quanto precede assolve l’ imputato dai reati di diffamazione con pubblicità, odio e coercizione attribuitigli dall’accusa mossa dal Real Betis.

da publico

APPELLO ALL’ AZIONE AL FIANCO DI CHI RESISTE IN LIBIA.

APPELLO ALL’ AZIONE AL FIANCO DI CHI RESISTE IN LIBIA
Dal 1° ottobre più di 300 donne e diverse migliaia di uomini stanno resistendo in un presidio permanente davanti alla sede dell’UNHCR di Tripoli.
Alcune evase ai lager libici, altre sfuggite alla cattura, hanno deciso di non nascondersi più: la speranza di una salvezza individuale da quell’inferno ha lasciato il posto alla “lotta collettiva fino alla morte”.
la loro richiesta è l’evacuazione immediata della Libia verso paesi sicuri per tutte, senza distinzioni di status migratorio.
Le autorità italiane, l’UE e lo stesso UNHCR, oltre che voltarsi dall’altra parte, lavorano incessantamente per aggravare la loro posizione: se da un lato lo stato italiano e l’UE hanno aumentato ulteriormente i finanziamenti agli aguzzini libici, che in questo presidio hanno assassinato diverse decine di persone, dall’altro l’UNHCR ne ha chiesto per ben due volte lo sgombero immediato.
Cosa abbiamo fatto noi in questi 60 giorni per sostenere questa coraggiosa resistenza?
In che modo abbiamo deciso di sottrarci, o meno, alla complicità con queste istituzioni assassine?
Sentiamo l’urgenza di mettere in campo al più presto azioni concrete e determinate di pressione e solidarietà attiva con questa lotta, che riguarda chiunque aspiri alla libertà.
Nelle prossime settimane… stateve accuort!

EVACUAZIONE IMMEDIATA DELLA LIBIA.
BASTA FINANZIAMENTI AI LAGER!
FREEDOM, HURRIYA, LIBERTA’

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RIFUGIATƏ IN LIBIA: MANIFESTO POLITICO

Siamo persone rifugiate che vivono in Libia.
Veniamo dal Sud Sudan, Sierra Leone, Ciad, Uganda, Congo, Ruanda, Burundi, Somalia, Eritrea, Etiopia e Sudan. Stiamo fuggendo da guerre civili, persecuzioni, cambiamenti climatici e povertà tornando nei nostri paesi di origine. Siamo state tutte spinte da circostanze al di là della sopportazione umana.

Volevamo raggiungere l’Europa cercando una seconda possibilità per le nostre vite e siamo dunque arrivate in Libia. Qui siamo diventate la forza lavoro nascosta dell’economia libica: poniamo mattoni e costruiamo case libiche, ripariamo e laviamo auto libiche, coltiviamo e piantiamo frutta e verdura per i/le contadini/e libici/he e per le mense libiche, montiamo satelliti su tetti alti, schermi etc.
A quanto pare questo non basta alle autorità libiche. La nostra forza lavoro non è sufficiente. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità. Quello che abbiamo trovato al nostro arrivo è stato un incubo fatto di torture, stupri, estorsioni, detenzioni arbitrarie.
Abbiamo subito ogni possibile e inimmaginabile violazione dei diritti umani, non solo una volta.

Siamo state intercettate con la forza in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica – finanziata dalle autorità italiane ed europee – e poi riportate nelle carceri e nei disumani campi di concentramento. Alcune di noi hanno dovuto ripetere questo ciclo di umiliazione due, tre, cinque,
fino a dieci volte. Abbiamo cercato di alzare la voce e diffondere le nostre storie. Le abbiamo
raccontate a istituzioni, politici, giornalisti ma, a parte pochissimə interessatə, le nostre storie sono rimaste inascoltate.

Siamo state deliberatamente messe a tacere e abbiamo deciso di rompere questo silenzio.

Dal 1° ottobre 2021, il giorno in cui la polizia e le forze militari libiche sono venute nelle nostre case nel quartiere di Gargaresh e hanno compiuto repressioni spietate e raid di massa contro di noi, migliaia di persone sono state arbitrariamente arrestate e detenute in disumani campi di concentramento. Il giorno dopo, siamo venute come individualità e ci siamo riunite presso la sede dell’UNHCR. Qui abbiamo capito che non avevamo altra scelta che iniziare ad organizzarci. Abbiamo alzato la nostra voce e quella dellə rifugiatə che sono statə costantemente messə a tacere.
Non possiamo continuare a restare silenti mentre nessuno difende noi e le nostre vite . Ora siamo qui per rivendicare i nostri diritti e cercare protezione in paesi sicuri.

Perciò ora chiediamo con fermezza con le nostre voci:

Evacuazioni verso terre sicure dove i nostri diritti possano essere tutelati e rispettati.
Giustizia e uguaglianza tra rifugiatə e richiedenti asilo registratə presso l’UNHCR in Libia.
L’abolizione dei finanziamenti alle guardie costiere libiche che hanno, costantemente e violentemente, intercettato le persone in fuga dall’inferno libico e le hanno portate in Libia dove sono vittime di ogni tipo di atrocità.
La chiusura di tutti i centri di detenzione in Libia, che sono interamente finanziati dalle autorità italiane ed europee.
Che le autorità consegnino alla giustizia i/le colpevoli che hanno sparato e ucciso i nostri fratelli e le nostre sorelle sia dentro che fuori dai centri di detenzione.
Che le autorità libiche interrompano la detenzione arbitraria di persone presso l’ufficio dell’UNHCR.
Forzare la Libia a firmare e ratificare la costituzione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui/lle rifugiati/e.
FREEDOM, HURRIYA, LIBERTÀ!

Fonte: https://www.passamontagna.info

Arrestato Turi Vaccaro, pacifista no muos

Nel pomeriggio di giovedì 2 dicembre Turi Vaccaro è stato arrestato dalla polizia ferroviaria di Firenze.

Dicono che deve scontare un residuo di pena di 5 mesi più altri due mesi di arresto. Turi è stato trasferito presso il carcere di Sollicciano.

Nei confronti di Turi, pacifista integrale e conseguente, è in atto un vero e proprio accanimento; la persecuzione nei suoi confronti è in atto in ogni parte d’Italia. Oltre tutto Turi è malato ed è reduce da un ricovero ospedaliero in Sicilia da cui è uscito molto provato.

Il Movimento NO MUOS esprime tutta la massima solidarietà al compagno e invita i movimenti e gli attivisti contro la guerra e contro le sopraffazioni del capitale a chiedere e lottare per la sua liberazione immediata.

Contro la repressione la solidarietà è un’arma. Turi libero, Emilio libero, tutti e tutte liberi Movimento NO MUOS

 

da nomuos