Un desaparecido al 41 bis: la famiglia non ha sue notizie da più di un anno

l detenuto soffre di gravi problemi psichiatrici e rifiuta le necessarie cure e assistenza specialistica, sia medica che difensiva. L’ultimo contatto telefonico lo ha avuto più di un anno fa, da allora la moglie non ne ha più notizie. Parliamo di un uomo al 41 bis fin dal 2008, prima al carcere di Parma in area riservata (il super 41 bis), dopodiché è stato trasferito nel carcere di Novara.

di Damiano Aliprandi

Durante la detenzione a Parma ha cominciato ad avere allucinazioni lamentandosi di essere stato sottoposto a scosse elettromagnetiche. Da allora una discesa negli inferi della patologia psichiatrica. L’associazione Yairaiha Onlus ha raccolto la denuncia della moglie di Pasquale Condello, così si chiama il detenuto al 41 bis, visionando anche le cartelle cliniche che hanno accertato la sua grave patologia psichiatrica. Come appunto si evince dalla comunicazione della moglie e dalla documentazione, il detenuto soffre di gravi problemi psichiatrici e rifiuta le necessarie cure e assistenza specialistica, sia medica che difensiva.

La famiglia nutre grande preoccupazione per le sue sorti, non avendo sue notizie da più di un anno: l’ultimo contatto telefonico risale a febbraio 2021. Condello, nel 2012 è stato ritrovato nella sua cella al carcere di Parma in stato di incoscienza e ricoverato nell’ospedale dove glie erano stati diagnosticati ematomi alla testa. La moglie, con la lettera inviata all’associazione Yairaiha Onlus, denuncia che secondo lei non poteva ridursi in quel modo con una caduta. È rimasto incosciente per tanti giorni. Tornato dall’ospedale, non mangiava e non beveva più, per poi essere ricoverato nel centro psichiatrico di Livorno. Lì aveva ripreso a mangiare ed era più tranquillo. Trasferito nel carcere di Novara, è riprecipitato nel delirio.

La moglie riferisce che sentiva voci e discorsi fuori della sua stanza che erano inimmaginabili. Non si è mai sottoposto a visite mediche né tantomeno a cure. Ha sempre rifiutato di essere curato in carcere perché riteneva che lì lo volevano uccidere. Secondo la moglie avrebbe trovato sempre un ambiente avverso che lo spaventava.

A quel punto era stato mandato uno psichiatra in privato, che ha fatto 4 ore di visita tra cui anche dei test, con la diagnosi che era un malato psichiatrico e che quindi aveva bisogno di cure. Dopo la pandemia, la famiglia non ha più potuto fare i colloqui. Ricordiamo che durante l’emergenza, fu data la possibilità ai detenuti di poter fare più telefonate e video-colloqui. La moglie racconta che Condello telefonava dal carcere a Reggio per potere dare sue notizie. Tutto questo fino al febbraio 2021, dopodiché non si è fatto più sentire. Non ha voluto più ricevere visite dall’avvocato, né dal medico o dai familiari.

La famiglia ha insistito ad andare tante volte per effettuare un colloquio con lui, inutilmente. Non hanno sue notizie da allora. Secondo i famigliari non risulta che qualche perito lo abbia visitato nonostante venga richiesto da parecchi mesi, e nonostante sia in corso un processo per interdirlo, perché non è in grado neppure di avere un rapporto con gli avvocati che dovevano aiutarlo, per cui se ne dovrà occupare la famiglia al suo posto. La famiglia dice di aver incessantemente smosso garanti, associazioni, inutilmente.

Ad oggi ancora la famiglia non sa niente di Pasquale Condello, sta vivendo un tormento. La moglie denuncia che non è possibile che una famiglia non possa vedere un congiunto detenuto o almeno avere notizie. Non chiedono che esca dalla detenzione, ma che venga curato, quindi che venga almeno portato in una struttura adatta dove possa farsi curare. Yairaiha Onlus, rivolgendosi alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, si unisce alla richiesta dei famigliari, chiedendo che venga fatta luce sulla vicenda del detenuto Pasquale Condello.

In attesa delle opportune verifiche da parte delle autorità preposte – scrive Yairaiha nella missiva – da associazione che si spende per la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale indistintamente, a prescindere dunque dal nomen iuris del reato commesso dal detenuto, non possiamo che manifestare il nostro sconforto nel venire a conoscenza delle condizioni di abbandono in cui versa un detenuto anziano, affetto da patologie psichiatriche. Riteniamo che il diritto alla salute dei detenuti, anche di coloro che si trovano in regime di 41 bis, richieda un attento monitoraggio da parte di ogni componente della società democratica”.

da il dubbio

Coca Cola di Nogara: la polizia carica i manifestanti per difendere il profitto di pochi sull’interesse di tanti

Attiviste e attivisti di Rise Up 4 Climate Justice e Adl Cobas hanno manifestato questa mattina davanti allo stabilimento della Coca Cola di Nogara, una fabbrica che estrae quasi un miliardo e mezzo di litri d’acqua all’anno dalla vicina falda a un prezzo poco più che gratuito, guadagnando milioni che, grazie a un sistema di holding, vanno tutti in paradisi fiscali. Basti pensare che il prezzo a metro cubo pagato dalla multinazionale è di circa 1 centesimo, mentre il costo medio dell’acqua per l’utilizzo domestico è di circa 1 euro e 37 centesimi a metro cubo.

Rise Up Adl Cobas Coca Cola

La cosa, già di per sé scandalosa, assume ancora più gravità in questa fase storica che vede la crisi climatica diramare prepotentemente i suoi effetti sulle condizioni materiali di vita delle persone. Mai prima d’ora l’Occidente era stato in preda a una siccità su così larga scala ed a una reale carenza di acqua, dovuta in particolare ai disequilibri nella sua gestione. Governo e istituzioni locali si stanno apprestando infatti a varare misure di razionamento idrico per la popolazione, mentre ci sono multinazionali come la Coca Cola che la sprecano senza alcun limite. Ed è proprio al grido di “riappropriamoci dell’acqua bene comune”, che i manifestanti si sono avvicinati ai cancelli con alcuni cubiteni vuoti (l’obiettivo simbolico era quello di riempirli di acqua appunto per riappropriarsene) e sono stati caricati dalle forze dell’ordine.

Lo stabilimento della Coca Cola di Nogara (VR) è uno dei più limpidi esempi di estrattivismo nel nostro Paese. La fabbrica – già nota per condizioni di sfruttamento e precarietà a cui sono sottoposti i lavoratori – si avvale di concessioni che la stessa regione non ha mai voluto rinegoziare: meno di due anni fa un decreto del direttore della Direzione Ambiente escludeva addirittura l’azienda dalla procedura di V.I.A., rinnovando a tempo indeterminato l’uso delle derivazioni di acque sotterranee.
La Coca Cola continua a estrarre, sfruttare, produrre e incassare. «L’Adl Cobas nel 2017 aveva aperto in questo stabilimento contro il licenziamento di 40 persone» dice un rappresentante sindacale, «oggi siamo qua per altre ragioni, ma la logica è sempre la stessa perché stiamo parlando di sperpero di risorse pubbliche connesso a un grave sfruttamento del lavoro e dei beni naturali».

Nulla di più iniquo e diseguale, eppure si continua a non prendere alcun provvedimento. È la medesima logica “dell’emergenza”, che scarica verso il basso costi e responsabilità della crisi, che abbiamo visto palesarsi più volte negli ultimi anni, dalla pandemia alla guerra, passando per il “cambio” di modello energetico. «Forse è questa la “transizione” che hanno in mente i governi e le multinazionali: un nuovo grande terreno di accumulazione, a discapito di quella fetta di popolazione povera che si è fatta sempre più grande» dice un attivista di Rise Up 4 Climate Justice, che prosegue «nei giorni passati il Parlamento europeo ha approvato la nuova tassonomia che vedrà gas ed energia nucleare essere annoverate tra le rinnovabili. Questo, come lo sfruttamento incondizionato delle risorse del pianeta, è un altro passo verso la completa devastazione ecologica».

Coca Cola è solo una delle tante multinazionali del territorio che usano un bene comune a scopi industriali, continuando a mettere a profitto risorse sempre più scarse. Uno dei casi da poco emersi nelle cronache locali è quello di Acqua Vera a San Giorgio in Bosco, in provincia di Padova. L’azienda, che appartiene alla Nestlé, ha appena annunciato di voler creare un nuovo polo di imbottigliamento di oltre 37 mila metri quadri, raddoppiando di fatto la produzione.

E questo avviene nonostante 11 anni fa un referendum ha sancito che non ci potesse essere più alcun margine di business per l’acqua e che qualsiasi scelta sul servizio idrico dovesse passare attraverso il pieno controllo democratico. Non solo questo non è mai avvenuto, ma il trend a cui stiamo assistendo è l’esatto opposto: l’acqua sta diventando il simbolo della negazione della democrazia.

Ed è per questa ragione che Adl Cobas e Rise Up 4 Climate Justice annunciano che non si fermeranno nelle mobilitazioni per difendere un bene che le stesse Nazioni Unite definiscono “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”.

India: arrestate 10 contadine adivasi che protestavano contro la rimozione illegale delle loro capanne. Le donne sono state molestate e trascinate via con forza dalle guardie forestali. Il CPI (maoista) chiede una lotta comune a sostegno degli agricoltori di Podu e le organizzazioni adivasi in Telengana proclamano un bandh (sciopero) per l’11 luglio.

Scontri tra tribali e polizia forestale, 10 arresti

C’è una situazione di tensione a Koyaposhagudem del distretto di Manchiryal di Telangana. Venerdì sono scoppiati scontri tra tribali e funzionari del Dipartimento forestale per il secondo giorno consecutivo, dopo che il personale del dipartimento forestale ha sgomberato con la forza le contadine adivasi dai terreni forestali che coltivano da generazioni e che permettono loro la sopravvivenza.

Circa 300 membri del personale del dipartimento forestale di polizia sono stati dispiegati a Koyaposhaguda di Dandepally mandal, nel tentativo di rimuovere le capanne.

A causa di questa azione del Dipartimento forestale, c’è molto risentimento tra i tribali che vi vivono. Per protesta, le contadine hanno cercato di fermare i poliziotti forestali con peperoncino in polvere e bastoni e si sono verificati scontri con la squadra del dipartimento, che ha arrestato con violenza 10 donne coltivatrici di podu.

Donne tribali che protestano contro la squadra del Dipartimento forestale

I video mostrano chiaramente il personale forestale che sgombera le donne, spogliandole dei loro vestiti e trascinandole con la forza.

Nel frattempo, lunedì 11 luglio, l’adivasi Adhikar Sangharsh Samiti ha chiesto un bandh nel distretto di Samyukta Adilabad contro il comportamento dei funzionari forestali con i tribali a Koyaposhagudem.

Condannando l’accaduto, l’organizzazione Adivasi Tudum Debba ha lanciato un appello invitando tutte le organizzazioni adivasi a bloccare gli uffici governativi nella regione un tempo unita di Adilabad, lunedì 11 luglio. Tudum Debba ha detto: “I contadini adivasi di Koyaposhagudem erano appena tornati dal carcere pochi giorni fa. Ora di nuovo il Dipartimento forestale li ha attaccati. Il primo ministro K Chandrasekhar Rao sembra essere dietro questi attacchi”. L’organizzazione Adivasi ha affermato di aver chiesto ripetutamente ai funzionari di risolvere la questione della terra di Podu, ma queste preoccupazioni non sono state affrontate.

“Il mese scorso, abbiamo fatto una manifestazione da Koyaposhagudem all’ufficio dell’Integrated Tribal Development Agency (ITDA) e abbiamo consegnato una rappresentanza all’ITDA Project Officer per risolvere immediatamente il problema. Questo attacco è avvenuto a causa del ritardo dei funzionari nell’affrontare la questione”, hanno affermato in una nota.

Tudum Debba ha affermato che i funzionari sono riluttanti ad affrontare la questione poiché sia ​​l’Unione che i governi statali vogliono sfrattare gli Adivasi dalla foresta.
Il presidente del distretto di Tudum Debba Adilabad, Godam Ganesh, ha chiesto che fosse intentata una causa contro i funzionari forestali che hanno attaccato e ferito le donne Adivasi. Ha detto che il personale coinvolto nel raid dovrebbe essere licenziato dal lavoro.

“In risposta alle molestie da parte dei funzionari forestali che hanno impedito agli agricoltori adivasi di coltivare nell’ex distretto di Adilabad presentando casi illegali, abbiamo chiesto il bandh. Esortiamo tutti i partiti politici ad estendere il loro sostegno a noi e rendere il bandh un successo”, ha detto Ganesh.

Tradizionalmente, gli agricoltori Adivasi sia in Telangana che in Andhra Pradesh hanno praticato l’agricoltura Podu, una forma di coltivazione a turni nella foresta. È in corso da anni un conflitto tra il Dipartimento forestale e gli Adivasi per la proprietà di queste terre. Nel distretto di Jayashankar Bhupalapally a Telangana vennero alla luce, nel 2017 gli atti barbarici del governo e del personale forestale, che per cacciare le donne adivasi che vivevano nelle foreste, le legavano agli alberi mentre davano fuoco alle loro capanne. Queste violenze, da parte dei funzionari forestali, sono quindi considerate un’abitudine dai tribali. In seguito, il governo statale aveva annunciato di concedere titoli di proprietà fondiari a richiedenti meritevoli. Tuttavia, il processo iniziato nel novembre 2021 è stato interrotto bruscamente il mese successivo.

Condannando la violenza contro gli Adivasi, il presidente del Congresso Telangana Revanth Reddy ha dichiarato: “Le terre dei Podu ora assomigliano a campi di battaglia. I distretti di Mancherial, Mahabubabad, Nagarkurnool e Khammam sono costantemente in preda alla questione della terra dei podu. Assicurando che daranno titoli di proprietà della terra a podu, KCR ha ottenuto voti e ora le donne vengono spogliate e trascinate via”.

In una dichiarazione pubblicata da The hindu il 6 luglio, il Comitato di Divisione Bhadradri Kothagudem-Alluri Sitarama Raju (BK-ASR) del CPI (maoista) ha chiesto una lotta comune per sostenere la causa dei coltivatori di podu danneggiati nelle aree tribali.

Nella dichiarazione, rilasciata dal portavoce ufficiale del partito maoista, il compagno Abhay, i maoisti hanno affermato che i contadini podu sono stati molestati e coinvolti in falsi casi per aver tentato di arare le terre forestali coltivate da loro per generazioni.

I maoisti hanno accusato le persone al timone nello Stato di non aver mantenuto la promessa pre-elettorale di affrontare tutte le questioni relative ai coltivatori di podu.

I maoisti hanno criticato il governo del BJP al Centro con l’accusa di aver tentato di diluire i diritti duramente conquistati degli Adivasi e di stendere un tappeto rosso sulle grandi entità aziendali per consentire loro di saccheggiare la ricchezza mineraria nelle aree forestali.

Hanno inoltre affermato che il CPI (maoista) estenderà il suo sostegno alle lotte di massa degli Adivasi per l’attuazione del Forest Rights Act, del Panchayats (Extension to the Scheduled Areas) Act (PESA) e del Land Transfer Regulation (LTR) Act di 1 del 1970.

Fonti:

https://www.abplive.com/news/india/telangana-a-clash-broke-out-between-tribals-and-forest-officials-to-vacate-the-huts-built-on-the-forest-department-s-land-ann-2163836

https://www.redspark.nu/en/peoples-war/cpi-maoist-calls-for-joint-struggle-in-support-of-podu-farmers/https://www.thehindu.com/news/cities/Hyderabad/cpi-maoist-calls-for-joint-struggle-for-podu-farmers/article65604085.ece

Turchia: Libertà di Sibel Balac e Ģökhan Yildrim

Riprendiamo e rilanciamo l’appello del “Coordinamento per la Libertà degli Attivisti Turchi”, in solidarietà con i prigionieri nelle carceri di Erdogan in sciopero della fame da dicembre 2021.

Dopo il sit-in tenutosi a Martano (Lecce) mercoledì 29 giugno scorso, e in previsione della SERATA SOLIDALE programmata per giovedì 7 luglio a LECCE, presso Tagghiate Urban Factory, come Coordinamento per la Libertà degli Attivisti Turchi

vi invitiamo a manifestare e ad ESPRIMERE SOLIDARIETÀ con Sibel BALAÇ e Gökhan YILDIRIM, inviandoci, a partire già da oggi, un documento solidale, una foto o un brevissimo video che riporti la seguente dicitura: IO STO con Sibel BALAÇ e Gökhan YILDIRIM e con TUTT* LE/I PRIGIONIER* POLITIC* TURCH*!

Sibel BALAÇ e Gökhan YILDIRIM sono due attivist* politic* turch* ingiustamente condannat*, dai tribunali di Ankara e di Istanbul, rispettivamente ad otto anni e mezzo e a quarantasei di carcere.

Sibel è un’ex insegnante turca che, più volte, ad Ankara, ha manifestato il proprio dissenso contro il provvedimento di licenziamento di centomila persone fra insegnanti e impiegat* pubblic* voluto da Erdogan.

Contro tutto ciò, Sibel BALAÇ, dal 19 dicembre 2021, è in sciopero della fame.

Cosa chiede Sibel?

– un processo equo;

– il reintegro delle/dei centomila docenti ed impiegat* licenziat*;

– la liberazione di tutte/i le/i prigionier* politic*, a partire da quell* malat*.

Gökhan, invece, è un attivista turco che, nel quartiere di Gazi (Istanbul), denunciava il traffico di droga e gli spacciatori della zona, fin quando un curdo, impiegato dal governo come “guardiano del villaggio” contro gli stessi Kurdi, non lo ha denunciato come sobillatore e fomentatore di proteste contro il governo di Erdogan.

Anche Gökhan che, come Sibel, è in regime di detenzione, ha seguito l’esempio della compagna e, sei giorni dopo quest’ultima, dal 25 dicembre 2021, è in sciopero della fame con le sue stesse rivendicazioni.

Il professor Pati Luceri, di Martano (Lecce), membro del Coordinamento, è in sciopero della fame dal 23 giugno 2022 in solidarietà con Sibel e Gökhan.

Alla voce di Pati, oggi, è doveroso aggiungere quella di tutt* noi.

Attendiamo, dunque, le vostre foto/i vostri video tramite WhatsApp al numero 3398277593.

Viva la Solidarietà Internazionalista, oggi e sempre!

Libertà per Sibel BALAÇ, Gökhan YILDIRIM e per TUTT* le/i PRIGIONIER* POLITIC* TURCH*!

La pagina FBGiustizia per Sibel e Gökhan  qui

 

Lettera di Sibel Balac del marzo 2022   qui

Le proteste nel quartiere di Gazi ad Istambul  Proteste in Turchia 2013

https://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Turchia-la-rivolta-di-Gezi-Park

i licenziamenti politici in Turchia 130.000 licenziati dal settore pubblico attendono giustizia

gli scioperi del 2017  due insegnanti in sciopero della fame contro le purghe

allora almeno…                    consiglio d’europa chiede liberazione insegnanti

l’anniversario un mese fa istanbul-proteste-e-scontri-nel-9-anniversario-delle-manifestazioni-del-parco-gezi

sull’iniziativa pugliese  condanne-ingiuste-in-turchia-anche-in-salento-ce-chi-si-ribella/

In Bottega abbiamo scritto e riportato spesso sulle carceri e repressioni turche dei dissidenti, curdi e non solo:

Grup Yorum grup-yorum-vengono-a-visitarci/

il-lager-turchia-continua-a-uccidere/     il-fascista-erdogan-la-resistenza-in-turchia-e-noi/

Roma: Denunce a pioggia dopo le proteste di marzo degli abitanti di San Basilio

La macchina repressiva dello stato lavora a pieno regime: notificate decine di denunce agli attivisti di asia e agli abitanti del quartiere per le proteste di marzo 2022. Alla richiesta della tutela dei diritti da parte dei cittadini, lo stato risponde con le denunce.

di Asia USB Roma

Sono state notificate, negli ultimi giorni, alcune decine di denunce agli abitanti di San Basilio ed agli attivisti di Asia-Usb per le manifestazioni di marzo 2022. I reati contestati sono svariati: radunata sediziosa, manifestazione non autorizzata, disturbo della quiete etc. Si tratta dell’ennesimo tentativo di sopprimere sul nascere qualsiasi forma di opposizione sociale con l’uso, nemmeno tanto mirato vista la pioggia di denunce e atti di accusa, della repressione poliziesca. Riassumiamo brevemente i fatti per capirlo.

Il 09/03/2022 gli abitanti di San Basilio, uomini e donne che vivono all’interno dei lotti popolari, hanno dato vita a una manifestazione spontanea in segno di dissenso verso i numerosi sgomberi che la prefettura aveva eseguito nelle settimane precedenti nella borgata romana con modalità militari: blitz all’alba da parte delle forze dell’ordine con camionette disposte lungo tutto il perimetro dei lotti per impedire l’accesso o l’uscita a chiunque. Il tutto per liberare una manciata di alloggi di proprietà dell’Ater (ancora oggi sotto sequestro e non riassegnati). L’operazione è stata poi presentata ai media come atta a contrastare la “criminalità organizzata dei clan”, ma questa versione preparata ad hoc per la stampa è stata smontata dall’intervento nel dibattito pubblico di questo sindacato. Asia-Usb infatti seguiva e sta seguendo due dei nuclei sgomberati. Famiglie di lavoratori oneste che erano entrate negli alloggi in seguito a gravi difficoltà economiche e abitative.

La protesta spontanea messa in atto dagli abitanti di San Basilio è stata pacifica e all’insegna della non violenza, solo l’intervento della Polizia ha surriscaldato gli animi, subito placatisi in seguito all’intervento organizzativo di Asia-Usb, che ha proposto un’assemblea e due manifestazioni per portare le istanze dei manifestanti presso i palazzi che, almeno in teoria, avrebbero il compito di ascoltare i cittadini e risolvere le tensioni.

Le notifiche e le contestazioni ricevute in questi giorni sono dunque gravissime. In primis poiché non colpiscono solo gli attivisti sindacali dell’Asia, ma anche i residenti del quartiere. Cittadini e cittadine che per paura ed esasperazione sono scesi in strada per difendere la propria dignità. Inoltre, va registrato che in questo paese vi è il palese tentativo di bloccare ogni forma di dissenso stroncandola sul nascere. In questo senso, oltre che gli articoli del codice più datati, i vari decreti sicurezza varati da tutti i governi fin qui succedutisi (dai decreti Minniti-Orlando ai decreti Salvini) si stanno dimostrando degli strumenti mortiferi nei confronti della libertà di manifestare ed esprimere il semplice dissenso. A pagarne il prezzo saranno tutte quelle fasce deboli che nel dibattito pubblico non hanno né rappresentanza politica né voce in capitolo. Questi cittadini che hanno nella mobilitazione e nella contestazione l’unico loro strumento politico di ascolto, ora rischiano di essere definitivamente silenziati dall’apparato repressivo dello stato.

Per questo nei quartieri è necessario organizzare gli abitanti ed i cittadini, rendendoli in grado di difendersi dall’ondata repressiva in corso, sia con strumenti conflittuali che legali. Questa necessità fa il paio con quella di continuare a ribellarsi di fronte alle disastrose politiche economiche del Governo Draghi, il quale si sta rilevando inerme di fronte all’impoverimento generale della popolazione, per colpa dell’inflazione fuori controllo, in piena stagnazione economica, e dell’imminente crisi energetica (il tutto accompagnato dalle solite politiche compiacenti ai padroni dell’economia nostrana).

All’apparato di controllo e punizione messo a punto dallo Stato, opponiamo la cultura della lotta e della contestazione, col fine di iniziare a riconquistare il terreno fin qui perso: più dignità e più diritti, cominciando da quelli alla casa ed a un reddito dignitoso.

Da Osservatorio repressione

Le orribili condizioni dei migranti nei Cpr sono responsabilità dello Stato e del Governo imperialista italiano

«Migranti nel totale degrado» Le visite dei parlamentari Nugnes, Sarli, Suriano e De Falco. Acqua non potabile, caldo soffocante, zero socialità, abuso di psicofarmaci

di Giansandro Merli

Deliri psicotici, lamette ingerite, suicidi tentati, fiumi di psicofarmaci, acqua non potabile, mancanza di cure, degrado igienico-sanitario, socialità negata. E poi il caldo, che sta colpendo tutto il paese ma nei luoghi di coscrizione moltiplica le sofferenze, trasforma le celle in serre e il cibo precotto in poltiglia maleodorante. Sono alcune delle istantanee scattate dai parlamentari che nelle ultime settimane hanno visitato i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo e Milano. Al loro interno hanno potuto ascoltare le storie individuali dei migranti trattenuti e verificare i problemi delle singole strutture, ma anche comporre una fotografia d’insieme del sistema della detenzione amministrativa.

Un unicum tra le ipotesi di privazione della libertà personale per due ragioni: non è motivata da reati o da finalità di prevenzione; è affidata a privati, sul modello statunitense, che nella gestione delle strutture perseguono i loro interessi economici. Secondo i dati del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale, resi disponibili dal Garante nazionale, al 30 giugno scorso i reclusi nei dieci Cpr italiani erano 667 uomini e 5 donne. In tutto il 2021 sono stati 5.147. Di questi è stato espulso il 49%.

«LA SITUAZIONE è drammatica. Il caldo in questa parte di Sicilia è devastante e nella struttura non c’è un albero, un luogo dove prendere un po’ di fresco. Non ci sono tv, possibilità di distrarsi, leggere un libro», dice Simona Suriano, deputata del gruppo Manifesta. Giovedì è entrata nel Cpr di Pian del Lago, provincia di Caltanissetta, mentre fuori si teneva un presidio di solidarietà con i reclusi organizzato da Lasciatecientrare e altre associazioni. «Nei giorni scorsi ci sono state delle proteste. Ho visto persone con gli arti fasciati. N., 25 anni, ha pianto tutto il tempo. Diceva di essere stato picchiato. Le forze dell’ordine negano, ma interrogherò la ministra Lamorgese», continua.

ALL’ALTRO CAPO DELL’ITALIA, mille chilometri a nord-est, c’è il Cpr di Gradisca d’Isonzo. Ha riaperto a gennaio 2020 e da allora sono morte già tre persone: Vakhtang Enukidze, Orgest Turia e Anani Ezzeddine. Il 17 giugno scorso la senatrice Paola Nugnes (Misto) e la deputata Doriana Sarli (Manifesta) hanno effettuato un’ispezione. «Le persone sono chiuse in gabbie da sei. Non escono mai. Le finestre sono sbarrate da pannelli di plexigas che creano un calore assurdo. La situazione è oltre ogni limite», dice Nugnes. L’ispezione è durata otto ore. Non c’era il medico, ma solo un infermiere che secondo quanto riferito dall’ente gestore, la cooperativa Ekene che ha anche il Cpr di Macomer, rimarrebbe dentro per due-tre giorni con turni continui.

LE PARLAMENTARI hanno riscontrato molte difformità con il regolamento d’appalto. «Dal Viminale alla prefettura, dalla questura alle forze dell’ordine presenti c’è una catena di comando che dovrebbe rendersi conto della situazione. Che le cose non sono a norma non è un’ipotesi, è evidente alla vista», denuncia Nugnes. «La Ekene si chiama Onlus ma segue il modello del profitto: meno ti dà, più guadagna», sostiene Sarli.

«Un signore diabetico vomitava sangue. Non era curato e aveva smesso di mangiare per paura che gli salisse la glicemia. Un altro ragazzo non parla con nessuno, è inavvicinabile, ma urla tutta la notte: come può un paziente psichiatrico in uno stato psicotico così forte essere tenuto lì?», continua la deputata. Le parlamentari stanno preparando un esposto in procura e una relazione al Garante nazionale.

Il CPR DI VIA CORELLI, a Milano, è stato visitato il 29 maggio scorso dal senatore Gregorio De Falco (Misto) e dall’infettivologo Nicola Cocco, esperto di medicina penitenziaria. Rispetto alla precedente ispezione di giugno 2021 è cambiato il gestore, da Engel Italia a Martinina (peraltro con una procedura poco chiara), ma sono rimasti i problemi già denunciati nel rapporto Delle pene senza delitti. Tra questi: mancanza di visite specialistiche, assenza di medicinali, cibo scadente, limitazione del diritto alla difesa. Particolare degno di nota: l’ispezione non ha potuto accertare se l’acqua della struttura è potabile o meno, come farebbe pensare un cartello sul lavandino dell’infermeria. Il direttore del centro non ha trovato, né poi fatto avere, la certificazione di potabilità dell’acqua.

TRA LE PERSONE incontrate dalla delegazione tre ragazzi finiti dietro le sbarre dopo aver chiesto asilo in questura, un uomo che ha moglie e sei figli e risiede in Italia dal 1993, altri due che ci vivono da 22 anni. Emblematica la storia di D. D., egiziano di 28 anni. Il ragazzo ha terminato di scontare un periodo di detenzione nel carcere di Trento il 18 maggio scorso. Scarcerato per buona condotta non è stato rimesso in libertà, ma portato senza preavviso al Cpr di Milano. Qui non ha ricevuto le cure per la malattia di cui soffre, l’epilessia, e in 48 ore ha avuto due violente crisi. Una gli ha causato un trauma facciale.

In prigione D. D. aveva ottenuto la certificazione di italiano A2 e superato la terza classe dell’educazione per adulti. Aveva anche studiato tutto l’anno per un esame che avrebbe dovuto fare all’uscita. Alla data della prova, però, ha capito che dal Cpr non sarebbe stato portato a Rovereto per sostenerla. E ha tentato di uccidersi. Il caso si è chiuso solo grazie all’intervento del Garante nazionale, quattro giorni prima dell’ispezione di De Falco. Così D. D. è stato liberato, ha superato l’esame e si è ricongiunto con moglie e figlio. Ma resta irregolare e in qualsiasi momento può finire di nuovo al Cpr.

NUGNES, SARLI, SURIANO E DE FALCO concordano sul fatto che la detenzione amministrativa vada superata. I problemi non dipendono solo dalle singole strutture, ma da un sistema che toglie la libertà a chi non ha commesso reati. L’ultimo tassello del più ampio mosaico delle politiche anti-migranti che hanno creato i lager in Libia, trasformato il Mediterraneo in un cimitero e portato le frontiere fin dentro le città, intorno ai corpi degli «irregolari». I Cpr, si legge in un’anticipazione del report curato da De Falco che sarà pubblicato nei prossimi giorni, sono «la chiusura del cerchio di un preciso progetto di razzismo istituzionale di costante respingimento e rifiuto, che pretende di sanzionare con la privazione della libertà individuale un mero illecito amministrativo».

da il manifesto

carcere di genova – basta pestaggi

 

Interrogatorio con pestaggio in carcere, Cassazione conferma la condanna del vice ispettore: “Ingiustificabile”

L’episodio era successo a Marassi: “dopo averlo fatto denudare, dapprima colpendolo con schiaffi in faccia, poi dopo che la vittima si era rannicchiata a terra con le braccia sulla testa per proteggersi dai colpi” gli aveva sferrato “calci sulla schiena, sulla testa e sul braccio sinistro”

Genova. E’ stata confermata dalla Cassazione la condanna per lesioni a carico di un vice ispettore della polizia penitenziaria per aver picchiato pesantemente un detenuto inerme nel carcere ‘Marassi’ di Genova, in concorso con un assistente capo verso il quale si è proceduto separatamente.

Senza successo, la difesa dell’imputato – Salvatore G., genovese di 42 anni – ha provato a sostenere che non si era trattato di una aggressione violenta ai danni di Dziri S. – questo il nome della vittima – ma “dell’esercizio di un dovere di perquisizione, sconfinato involontariamente in lesioni a causa del comportamento di opposizione” assunto dal detenuto. Al vice ispettore della polizia penitenziaria, è contestato di aver condotto il detenuto nella stanza delle perquisizioni “dopo averlo fatto denudare, dapprima colpendolo con schiaffi in faccia, poi dopo che la vittima si era rannicchiata a terra con le braccia sulla testa per proteggersi dai colpi” gli aveva sferrato “calci sulla schiena, sulla testa e sul braccio sinistro”.

Il pestaggio aveva causato lesioni, edema, escoriazioni, eritema, con circa venti giorni di prognosi. Ad avviso degli ‘ermellini’, “la tesi dell’adempimento del dovere non riesce ad estendersi alla condotta effettivamente addebitata all’imputato, perchè, anche a voler ammettere che la perquisizione fosse legittima, è la successiva, violenta aggressione fisica contro un soggetto inerme (riferita anche da due testimoni oculari esterni di cui l’imputato sembra dimenticarsi) a non trovare alcuna giustificazione”.