Appello :Una vergogna tutta italiana. No al ddl che istituisce l’orgoglio nazifascista

L’appello della  Rete madri.Ita. La verità sulla campagna del 1942-1943 in Russia non è quella evocata nell’istituzione della Giornata della memoria e del sacrificio degli Alpini

Mai ci saremmo aspettate che le massime istituzioni di questo paese arrivassero a un oltraggio e un tradimento della Carta Costituzionale, come quelli consumati con l’approvazione  del ddl  n. 1371, sull’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, già approvato dalla Camera lunedì 25 giugno 2019 e poi al Senato martedì 5 aprile 2022 con 189 voti favorevoli, nessun contrario e un astenuto. Composta da 5 articoli, la proposta di legge A.C. 622 prevede l’istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino individuandola nella data del 26 gennaio di ciascun anno. Scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka, combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano” (art.1).

Ma cosa è stata la battaglia di Nikolajewka?

Uno scontro disperato che permise ad alcune –sempre troppo poche – truppe di sfuggire all’accerchiamento sovietico, su territorio russo e mentre l’esercito russo combatteva contro l’invasione nazifascista. E’ vero che i soldati italiani vennero decimati (morti nella neve, dispersi, catturati presi prigionieri) ma in quella battaglia, dobbiamo ricordare che gli  italiani  erano  “invasori “. L’Italia fascista, allora il principale alleato europeo della Germania, partecipò alla campagna in qualità di aggressore e di forza occupante.

Perché allora  lo Stato repubblicano, nato dalle ceneri della dittatura e che si professa antifascista, ha sentito il bisogno di ripescare un evento che si colloca pienamente e compiutamente all’interno della politica di potenza e della guerra fascista, che si rivelò un disastro militare di prima grandezza, e che costò all’Italia la morte di oltre 80.000 uomini? Non c’è nessun eroismo in un tale massacro. Gli Alpini furono carne da macello  mandare a morire in modo atroce. La Campagna Italiana di Russia e come essa si rivelò un tale disastro da poter essere annoverato senza dubbio tra i più grandi crimini del fascismo. Il fascismo ha mandato al massacro i suoi soldati, sapendo di farlo! La classe dirigente italiana non vuole fare i conti con la propria storia!

 E’ giusto che ci sia una giornata dedicata agli alpini. Molti di essi combattenti in Russia, che  dopo l’8 settembre 1943 del si unirono alla Resistenza Partigiana. Nella Prima Guerra mondiale furono tantissime le pagine di storia scritte dagli Alpini in difesa del nostro Paese e altre ne scrissero nel dopoguerra con importanti interventi verso la popolazione civile colpita da disastri come nel caso del Vajont nel 1963.

La nuova ricorrenza cade immediatamente prima della Giornata della Memoria il 27 gennaio. Il fronte orientale fu anche il luogo dove ebbe inizio lo sterminio degli ebrei, luogo dove venne avviata la “soluzione finale”, poi compiutasi soprattutto all’interno della Polonia occupata.

Perché offuscare la giornata della memoria del 27 gennaio in cui si ricorda la liberazione dei reclusi di Auschwitz da parte dell’armata Sovietica con una Giornata immediatamente precedente dove la stessa armata, in una propaganda figlia ancora oggi del regime fascista,  viene descritta come nemico responsabile della morte dei nostri alpini.

Pare di più una scelta legata ad una evidente venatura nazionalistica, che ormai scorre nel territorio europeo,  non solo in Ungheria, ma spinta fortemente da quel vento di revisionismo storico che aleggia da alcuni anni in Italia, che vuole equiparare ogni evento storico,  ogni morte.

Lo Stato ci chiede di ricordare contemporaneamente la morte degli alpini che purtroppo hanno combattuto in quel 1943 per un regime fascista e l’ebreo massacrato dallo stesso regime.

Tutto questo a qualche giorno da quel 25 aprile che vede l’Italia, l’Europa e la stessa Russia liberato dal terribile regime nazifascista.

Ma questa non è  equidistanza. Dietro quest’atto istituzionale c’è una gravissima azione di divisione del popolo italiano, di continuare a seminare e a far crescere nel Paese l’odio al posto dello spirito di libertà conquistata di quel 25 aprile del 45

Consideriamo questo atto del Parlamento  infamante per la memoria del nostro paese, per il sacrificio di quelle persone che questo Paese hanno aiutato a liberarsi dal regime fascista compresi quegli alpini che sopravvissuto alla ritirata dalla Russia e che dopo l’8 settembre parteciparono alla Resistenza.

Ogni sincero antifascista deve combattere affinché non vinca una riscrittura falsa della storia nera e tragica del fascismo.

Comitato Madri per Roma Città  Aperta

Mamme in piazza per la libertà  di dissenso ( Torino)

Madri contro l’operazione Lince- Contro la repressione ( Cagliari)

 

Per Adesioni

ita.retemadri@gmail.com

madricontrorepressione.lince@gmail.com

Da compagni di Napoli, una proposta di incontro

LA SOLIDARIETA’ E’ UN’ARMA, USIAMOLA

Un’iniziativa tenutasi a L’Aquila nel 2017 in solidarietà alla prigioniera comunista Nadia Lioce, sottoposta da oltre 19 anni all’isolamento e quindi al 41bis, è stata trasformata, da zelanti giudici, in un processo a carico di 31 compagni e solidali che a quella iniziativa avevano preso parte.
Le accuse sono di manifestazione non autorizzata Art. 18 comma V del R.D. 773 del 18 giugno 1931. La data dell’inizio del processo è stata fissata per il 18 maggio 2022.
Pensiamo che questo processo non deve essere un’occasione per difendersi dall’accusa di aver partecipato ad una manifestazione non autorizzata, quanto quella di cogliere il momento per riaffermare la nostra solidarietà e la nostra lotta contro il carcere in quanto strumento di controllo, repressione e annientamento dell’intera classe di subordinati al dominio del capitale. Il 41bis, in quanto tortura e isolamento ne rappresenta la parte più avanzata.
Oltre alla compagna Lioce ci sono centinaia di proletari/e sottoposti alla tortura dell’isolamento nelle democratiche carceri italiane, dove sono rinchiusi ancora compagni/e da circa 45 anni. Oltre che a migliaia di prigionieri/e tenuti in condizioni miserabili.
Negli ultimi anni nulla è cambiato se non in peggio. L’inizio della sciagurata gestione pandemica fù inaugurata con la strage di Stato di 14 prigionieri, 9 dei quali nel mattatoio di Modena (la maggioranza proletari immigrati), per poi proseguire con pestaggi generalizzati in moltissime carceri, non ultime Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. Questo in risposta alle richieste di garanzie e di non aggravare la situazione vietando colloqui con familiari e difensori, cosa che avrebbe instaurato di fatto un regime di ulteriore isolamento massificato.
La strage è stata ordinata dal governo ed eseguita dal D.A.P. perché tutti si dovevano attenere alle sciagurate direttive governative e ogni minima forma di dissenso andava annientata.
Anche all’esterno la situazione montava: multe, arresti, denunce, divieti di manifestare come strumenti di appiattimento di ogni senso critico e procedere alla gestione di una profonda crisi proprio delle strutture capitaliste e procedere così a liberarsi di quanti lavoratori e operai costituivano in di più nei processi di produzione e lavoro di sfruttamento.
La gestione della pandemia non è stata altro che la funzionalizzazione di apparati statali alla tendenza alla guerra con la messa in campo di strategie di divisioni e contrapposizioni tra proletari e nello stesso movimento proprio in previsione di un conflitto armato da scatenare in Europa. Guerra che non può essere attuata se non annichilendo ogni voce che ad essa si contrappone e mettendo in campo le peggiori ideologie guerrafondaie, di mistificazione e quant’altro rientra nelle pratiche della propaganda di guerra, appunto, anche sul fronte interno!
È in questo quadro, solo accennato, che va letta la repressione di ogni soggetto e organizzazione.
Le rinnovate accuse di associazione a delinquere verso quanti lottano per un lavoro e una vita dignitosa, la montatura del ritrovamento di un’arma (nel cesso!) nella sede di un sindacato di base e così via, fino alla repressione delle lotte fuori i cancelli delle fabbriche e dei depositi della logistica dove si attuano modelli di lavoro neo schiavistico e dove, durante iniziative di lotta, sono stati uccisi dai crumiri due operai.

RILANCIARE LA LOTTA CONTRO IL 41BIS
SOLIDARIETA’ A TUTI I PRIGIONIERI E LE PRIGIONIERE RIVOLUZIONARI

PROPONIAMO UN DIBATTITO CITTADINO CONTRO CARCERE E REPRESSIONE DA TENERSI QUANTO PRIMA

Repressione e provocazioni di stato contro il sindacalismo di base e di classe. Carabinieri nella sede di USB a Roma “alla ricerca di armi”

Unione Sindacale di Base denuncia con forza l’inaudita irruzione dei carabinieri nella sede nazionale del sindacato, in via dell’Aeroporto a Roma. I militari pretendono di effettuare una perquisizione alla ricerca di armi, in seguito a una segnalazione telefonica.

Un pretesto evidentemente e totalmente risibile per lanciare un messaggio al sindacato che in questo momento dà evidentemente fastidio ai palazzi del potere.

USB ha immediatamente attivato i propri avvocati e lancia un appello alla solidarietà contro la provocazione messa in atto.

Non ci fermeranno!

La successione dei fatti.

I Carabinieri, stamattina alle 11, si sono presentati nella sede nazionale Usb dicendo di dover fare una perquisizione. Asserivano di aver ricevuto una telefonata anonima che segnalava la presenza di una pistola nella sede. In un secondo momento dichiaravano che l’anonimo telefonista attribuiva la proprietà dell’arma a un sindacalista molto odiato dai padroncini delle finte cooperative che lavorano in subappalto nel settore.

Erano senza mandato di perquisizione, ma – per le leggi reale e Cossiga, in materia di droga e armi – abilitati comunque ad eseguire la perquisizione.

I compagni dell’Usb hanno imposto l’attesa dell’arrivo degli avvocati e delle parlamentari di ManifestA – Yana Ehm e Simona Suriano.

In pratica non c’è stata alcuna perquisizione, ma i carabinieri sono andati direttamente nel bagno degli uomini – un locale aperto a chiunque entri nella sede, anche per il pubblico che deve presentare delle pratiche – e, nello sciacquone hanno trovato una pistola di calibro imprecisato, avvolta nel cellophane.

Evidentemente, il/la telefonista ha piazzato l’arma in quel posto e successivamente ha chiamato i carabinieri.

Successivamente, hanno prelevato un compagno del sindacato per eseguire una perquisizione anche nella sua abitazione.

E’ assolutamente evidente che si tratta di una provocazione. L’unica incognita è chi sia il mandante. Altra cosa certa è che i carabinieri conoscono nome e cognome dell’anonimo/a telefonista.

Nelle ultime settimane Usb è stata molto attiva nel segnalare o boicottare il carico di armi per la guerra in Ucraina (nascoste su un volo classificato come “aiuti umanitari”, dall’aeroporto civile di Pisa) e per quella in Yemen (i portuali di Genova).

Piazzare un’arma nella sede del sindacato che combatte a viso aperto il traffico di armi è più di una provocazione. Sa molto di vendetta istituzionale o para-istituzionale.

Alle 16.30 si terrò una conferenza stampa per denunciare l’operazione e rilanciare tutte le ragioni dello sciopero del 22 aprile.

Contro USB una pistola nascosta nel water. Le nostre sole armi sono gli scioperi e le mobilitazioni

Una denuncia telefonica, una perquisizione a colpo sicuro, una pistola che salta fuori dallo scarico di un water. È la sintesi dell’operazione da film dei carabinieri andata in scena questa mattina contro l’Unione Sindacale di Base.

Poco prima delle 11 i militari si presentano nella sede nazionale di USB, in via dell’Aeroporto 129 a Roma, pretendendo di operare un’ispezione alla ricerca di armi, segnalate telefonicamente da un anonimo al mattino presto.

I dirigenti USB attivano lo staff legale del sindacato e i parlamentari di ManifestA. Si chiede ai militari presenti, che invocano la procedibilità senza mandato in forza dell’articolo 4 della legge 152/1975, un provvedimento scritto dell’autorità giudiziaria.

Le forze dell’ordine vanno a colpo sicuro. L’anonimo segnalatore ha indicato dove trovare “le armi”: lo scarico di un water, “quello” scarico di “quel” water nei bagni riservati al pubblico maschile.

Salta così fuori una pistola malamente avvolta nel cellophane e immersa nell’acqua, depositata lì da mani premurose.

USB denuncia la chiara ed evidente macchinazione contro un sindacato conflittuale, una messa in scena che fa comodo a molti, troppi.

I locali di via dell’Aeroporto sono quotidianamente aperti al pubblico, come tutte le sedi USB. Di certo l’ultimo posto in cui nascondere qualcosa, figurarsi delle armi.

Di certo il primo posto in cui tentare il colpo di mano per screditare un’intera organizzazione e le moltitudini di lavoratori, di disoccupati, di precari, di senza casa che la supportano.

Le uniche armi che USB usa sono gli scioperi, le rivendicazioni, le manifestazioni, le lotte. Le pistole le lasciamo a chi le ama, a cominciare dalla compatta maggioranza che alimenta la guerra in Ucraina.

Unione Sindacale di Base

Sri Lanka, scontri e proteste contro il carovita. Esercito in città e decine di arresti

Nel Paese di 22 milioni di persone mancano beni essenziali e i prezzi hanno subito forti aumenti, appesantiti da un enorme debito pubblico. La polizia di Colombo ha dichiarato di aver arrestato 45 persone dopo i disordini, in cui un uomo è rimasto gravemente ferito. Si tratta della peggiore crisi finanziaria da quando, nel 1948, lo Sri Lanka ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito

Lo Sri Lanka è sull’orlo del baratro per la peggior crisi economica degli ultimi decenni. La causa è il calo vertiginoso, del 70%, di valuta straniera nelle casse dello Stato, che impedisce alle autorità di importare beni di prima necessità, dai farmaci al cibo, dal carburante al cemento, e di rimborsare un gravoso debito estero. I 22 milioni di abitanti sono allo stremo delle forze per il rincaro dei prezzi, conseguenza diretta della costante diminuzione dei prodotti disponibili sul mercato, costretti a lunghe code per acquistare quei pochi beni essenziali ancora in vendita e razionati, oltre a dover sperimentare black-out fino a 10 ore al giorno.

ESERCITO IN CITTA’

Le forze di sicurezza dello Sri Lanka sono state dispiegate massicciamente a Colombo, la capitale, dopo una notte di scontri e violenze, con i manifestanti che hanno cercato di assaltare la casa del presidente per protestare contro la peggiore crisi economica dall’indipendenza. La polizia di Colombo ha dichiarato di aver arrestato 45 persone dopo i disordini, in cui un uomo è rimasto gravemente ferito. Il coprifuoco, messo in atto durante la notte, è stato revocato all’alba di questa mattina, ma la presenza della polizia e dell’esercito è stata rafforzata in tutta la città, dove i rottami di un autobus bruciati stavano ancora bloccando la strada che conduce alla casa del presidente Gotabaya Rajapaksa.

I motivi della crisi

Il malcontento popolare e la crescente preoccupazione per una situazione sempre più disperata sono già esplosi nei giorni scorsi con manifestazioni nelle strade della capitale, sfociate in tentati assalti al palazzo presidenziale e richieste di dimissioni del capo dello Stato, Gotabaya Rajapaksa, i cui discorsi non sono finora riusciti a rassicurare i cittadini. Secondo alcuni analisti, si tratta della peggiore crisi finanziaria da quando, nel 1948, lo Sri Lanka ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito. Sono settimane ormai che nella capitale in tutta l’isola si ripetono le stesse scene di vita quotidiana, fatta di privazioni, ore di code ai mercati, supermercati, benzinai e farmacie, sotto la sorveglianza delle forze armate che temono sommosse della fame. La situazione è notevolmente peggiorata nei giorni scorsi: nella capitale i mezzi di trasporto pubblici sono fermi per la carenza di carburante, diversi ospedali hanno dovuto bloccare gli interventi chirurgici ordinari a causa dei black-out e della penuria di farmaci e forniture sanitarie. Sono persino saltate le sessioni di esame degli studenti per mancanza di fogli per stampare le prove e per scrivere.

Ieri importante giornata di lotta dei lavoratori e lavoratrici immigrati in varie città per documenti per tutti, lotta alla repressione e al razzismo di guerra di “due pesi e due misure”

Riportiamo cronache da Roma e da Foggia – a queste ha partecipato lo Slai cobas sc e l’Mfpr

ROMA

Oltre un centinaio di persone al presidio di oggi a Roma contro razzismo e sfruttamento indetto da Campagne in lotta. Molte donne, soprattutto latinoamericane, hanno denunciato la guerra quotidiana che le persone immigrate subiscono in questo paese, la violenza delle istituzioni, che negano loro qualsiasi diritto, dalla casa al lavoro alla salute. “Molte donne non sono potute venire perché sono all’ospedale” ha detto una donna al microfono che ha perso suo marito col covid. “Se ci ammaliamo come ci curiamo?”

Un’altra donna ha denunciato la segregazione delle badanti da parte dei loro datori di lavoro, che hanno sequestrato loro il passaporto per non farle uscire di casa con la scusa del covid.

“Da anni ci trattano come palloni da calcio, ci rimandano da una parte all’altra, ma questo è inaccettabile. Non possiamo restare in silenzio, dobbiamo alzare la nostra voce. Siamo tutti uguali e tutti uniti, Ucraini, Russi, persone che subiscono tutte le guerre. Ora basta!” Ha detto un’altra donna al microfono

Una compagna dello Slai Cobas s.c. e del MFPR ha espresso solidarietà e sostegno alle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati contro il razzismo istituzionale di questo sistema imperialista, che fomenta la guerra tra poveri e scatena la guerra tra popoli per il controllo dei mercati, delle risorse e della forza lavoro.  Le politiche migratorie, il controllo dei flussi a questo servono, a mantenere sempre più sotto ricatto i lavoratori immigrati.

L’uso propagandistico e razzista di donne e bambini ucraini fa il paio con i vergognosi respingimenti di tutti gli altri profughi che continuano ad essere ignorati dalla politica, ma non dai padroni e dalla polizia. Quello che i padroni chiamano pace e solidarietà, nella lingua dei proletari di tutto il mondo si chiama guerra, repressione e razzismo. Essi sono funzionali alla sopravvivenza di questo mortifero sistema di sfruttamento, che cerca sempre di dividere la classe antagonista, le lavoratrici dai lavoratori, i lavoratori italiani da quelli immigrati, i profughi di serie a da quelli di serie b, c ecc. Ma oggi più che mai questo sistema in crisi ci mostra che esistono 2 sole razze a questo mondo, quella degli sfruttati e quella degli sfruttatori. Ci mostra che da questa guerra interimperialista, da tutte le guerre del capitale si può uscire solo con la guerra popolare a tutti gli imperialismi, ma per far ciò bisogna unirsi in un fronte unico di classe che ribalti i rapporti di forza esistenti.

E’ necessaria un’unità internazionale dei lavoratori. I lavoratori non hanno patria, in ogni paese sono sfruttati e repressi. Per mantenersi al potere la borghesia ci divide in mille modi. E’ ora che i lavoratori si uniscano tra loro per lottare contro i comuni nemici, contro i padroni, contro i governi e gli stati che li rappresentano. Contro guerra e repressione l’internazionalismo proletario è una necessità oggettiva che deve essere concretizzata, e in questo senso la compagna ha informato sulla campagna internazionale di sostegno alla lotta del popolo indiano, sul grande sciopero generale dei lavoratori indiani del 28/29 marzo, sulla campagna prolungata per la solidarietà e la liberazione di tutti i prigionieri politici e in particolare delle combattenti indiane, cuore della più grande guerra di popolo attualmente in corso, sulle quali la repressione del regime fascista e genocida di Modi si abbatte con particolare ferocia con stupri, torture e uccisioni nelle carceri. E’ stato così spiegato il senso della mostra esposta in Piazza dell’Esquilino e del dossier, di cui sono state diffuse alcune copie.

Una forte testimonianza è stata anche quella di un compagno del Tigré, che ha denunciato la chiara matrice fascista, razzista e di classe delle leggi sull’immigrazione e la cittadinanza e ha parlato anche della gravissima situazione che si vive nel Tigré, governato da un regime fantoccio e fascista che ha portato la guerra nel paese, delle 120mila donne stuprate in 8 mesi di occupazione militare, delle distruzioni e la miseria portate dalla guerra, dei bombardamenti con i droni venduti dalla Russia e dall’Ucraina.

Il presidio si è concluso intorno alle 13,30. L’incontro al ministero dell’interno non è stato concesso, la rabbia delle persone immigrate ha trovato ancora una volta un muro di gomma, tanto razzismo e discriminazione. I presenti si sono dati un nuovo appuntamento a breve per decidere come proseguire: “Fino a quando non avremo documenti, le istituzioni di questo paese non dormiranno sonni tranquilli, la prossima volta non chiederemo permessi, invaderemo Roma!”.
Sotto il volantino diffuso a Roma in solidarietà alle prigioniere politiche indiane

FOGGIA

Alcune decine di braccianti immigrati e attivisti hanno presidiato oggi la Prefettura di Foggia, mentre una delegazione veniva ricevuta dalla prefettura.
L’iniziativa è parte di una giornata di mobilitazione nazionale che ha visto presidi anche alle Prefetture/Questure di Roma, Milano, Torino, Modena.
Mentre da Roma arrivava notizie che il Ministero degli Interni negava l’incontro previsto con un funzionario centrale, proponendo in alternativa un incontro col prefetto, a Foggia l’azione ha ottenuto un risultato parziale: l’impegno a riaprire da domani le presentazioni delle domande di protezione internazionale, sospese un mese fa per l’eccessivo numero di richieste.
All’uscita della delegazione dal palazzo, è stata improvvisato un breve corteo che al grido di “Documenti per tutti! Documenti subito!” ha attraversato l’isola pedonale, sfidando una fitta pioggia.

Da Taranto, una delegazione dello Slai Cobas per il Sindacato di Classe ha voluto contribuire alla manifestazione.

Ecco un sommario estratto dell’intervento: Anche da Taranto abbiamo voluto portare la nostra presenza e contributo, malgrado ogni difficoltà, alla manifestazione “documenti per tutte e tutti, repressione per nessuno”. Lo abbiamo fatto perché questa è una lotta importante, per tutti i lavoratori in Italia, nativi o immigrati che siano, e ancor di più in questi giorni. Lottare per i documenti oggi non è soltanto, come sempre è stata, la lotta per sottrarre i lavoratori immigrati, soprattutto in questa zona i braccianti, alle condizioni di ricatto e schiavitù, negazione dei diritti elementari, ma in questi giorni di guerra imperialista, significa lottare anche contro un’ulteriore ancor più inaccettabile discriminazione: a fronte dell’accoglienza a braccia aperte, garantita ai profughi di guerra ucraini, per altro giusta, questo governo rinnova la sua logica razzista continuando a negare documenti per gli altri profughi fuggiti da altre guerre, come se la guerra inter-imperialista in Ucraina fosse l’unica vera guerra, come se gli ucraini fossero gli unici veri profughi; mentre quelli che sono qui da anni e lavorano nelle nostre campagne, in fuga da altre guerre, di ogni tipo, di cui le potenze imperialiste di NATO, UE, Italia compresa, sono corresponsabili e da cui hanno tratto profitti.
Perciò in questa giornata è importante che si uniscano le legittime rivendicazioni alla lotta contro questa guerra e questo governo che in essa ci sta trascinando. E’ ben chiaro il legame che c’è tra la politica guerrafondaia di questo governo e le politiche che permettono il super-sfruttamento degli immigrati, le politiche razziste che li discriminano.
Abbiamo appena ricevuto la notizia che mentre qui la nostra delegazione viene ricevuta in Prefettura, a Roma stanno negando l’incontro col funzionario del Ministero che avevano assicurato. Non ci sorprende, sappiamo per nostra esperienza diretta, anche a Taranto dove anni fa abbiamo ottenuto risultati positivi nella lotta per i documenti, che solo la lotta in prima persona, dura, senza paura di ritorsioni, degli immigrati e di tutti gli antirazzisti e solidali può imporre tavoli, incontri, fino a ottenere soluzioni.
Per questo questa giornata deve essere l’inizio di una campagna di lotta prolungata e diffusa che continui la lotta che tutti noi stiamo portando avanti da anni e che ci impegniamo a continuare fino a quando questo sistema di sfruttamento di tutti i lavoratori, italiani e immigrati, non sarà sconfitto.

Oggi è soltanto l’inizio: quello che ci negano oggi dovranno darcelo domani, se insistiamo e alziamo il livello della nostra forza e unità, rendendo più forti e ampie le nostre azioni.”

Combattere il fascismo di stato e padronale. Massima solidarietà ai lavoratori Si Cobas Bologna

Il comunicato dello Slai Cobas s.c.

la nuova inchiesta nei confronti del SI Cobas a Bologna in cui la lotta sindacale dura viene equiparata a una ‘estorsione ‘ ai danni delle cooperative del bolognese appartiene a un tipo di criminalizzazione delle organizzazioni sindacali non nuova che in generale sono cadute nel vuoto, per la loro sostanziale inconsistenza .. dato che è pratica normale del sindacalismo classista e combattivo di richiedere salari, lavoro, diritti dei lavoratori minacciando altrimenti forme di lotta dura necessarie a ottenere gli obiettivi ..  non è la prima volta  che avviene e varie organizzazioni sindacali di base e classiste sono stati oggetto negli anni di  questo tipo di criminalizzazione ..Proprio per questo è un attacco al diritto di sciopero e alla libertà sindacale alla pratica delle lotte dei lavoratori di tutti – naturalmente oggi avviene verso il SI COBAS in un’area in cui i lavoratori organizzati da questo sindacato hanno condotto lotte dure e sono stati spesso oggetto di repressione e criminalizzazione

e’ necessaria la massima solidarietà contro questa operazione repressiva e giudiziaria che come altre prima di essa non deve passare – è fascismo padronale e di stato ed è quindi anche un’attacco politico che domanda una solidarietà che vada oltre i confini del sindacalismo classista e combattivo

certo l’esistenza del patto d’azione per un fronte unico di classe avrebbe aiutato questa battaglia, come è stato in occasione della repressione a Piacenza-

la strada del fronte unico di classe va percorsa comunque ed è questa una altra occasione per riprenderla e elevarla

slai cobas per il sindacato di classe

coordinamento nazionale

Comunicato Si Cobas
ENNESIMA INCHIESTA CONTRO IL SI COBAS!
Domani il Si Cobas si troverà protagonista della cronaca della città di Bologna, con una notizia che deflagherà come l’innesco di una bomba.
L’ipotesi è quella associativa, per il compimento di atti estorsivi nei confronti di aziende e di corruzione tra privati.
L’inchiesta, da quanto comunicatoci dai nostri legali, parte dalle dichiarazioni di un soggetto (il caporale di Castello d’Argile, filmato mentre costringeva i lavoratori a restituire una parte della retribuzione dai lavoratori pachistani, costretti a lavorare fino a 12 ore all’interno di un capannone e alloggiati dallo stesso caporale in un casolare diroccato privo di servizi igienici) denunciato dal SI Cobas nell’agosto del 2018 e successivamente arrestato per tali fatti.
Dalle dichiarazioni di tale soggetto, peraltro rese mentre si trovava in stato di arresto per tali ragioni, partono le richieste di intercettazione telefonica e telematica che tracciano l’attività di un paio di sindacalisti per due anni.
Il fondamento dell’inchiesta è dunque costruito su deposizioni di caporali e altri soggetti denunciati dal Si Cobas e su intercettazioni telefoniche, allo stato solo parzialmente oggetto di trascrizione.
Tali elementi vengono tradotti in una fantasiosa ipotesi associativa a delinquere (cioè il SI Cobas…), ed in una serie di attività definite estorsive, costituite principalmente da scioperi e picchetti nel settore Logistico.
Allo stato attuale non vogliamo e non possiamo dire di più, in quanto non abbiamo minimamente contezza del contenuto integrale di questa inchiesta, ma in base a quanto emerge attualmente denunciamo l’ennesimo tentativo di ridurre al silenzio un sindacato, al quale, nonostante gli oltre 50.000 iscritti a livello nazionale e gli oltre 5000 iscritti nella sola città di Bologna, non si riconoscono i diritti e le agibilità sindacali perchè non firmatario del T.U. sulla rappresentnza, che chi si occupa di diritto sindacale ben conosce nei limiti che pone all’azione dei sindacati di base.
Vogliamo solo dire che da sempre siamo oggetto di interventi repressivi da parte della magistratura, anche con arresti culminati in quello del Coordinatore Nazionale Aldo Milani, poi assolto dal reato di estrorsione, oltre che di decine e decine di processi per violenza privata (scioperi), dai quali i sindacalisti ed i lavoratori sono stati sempre assolti.
Il SI Cobas dunque si riserva di esprimere una posizione più articolata nel merito non appena sarà possibile visionare gli atti, e non appena possibile sarà pienamente a disposizione per chiarire a tutti l’intera vicenda con la trasparenza che ci ha sempre contraddistinto, riservandosi altresì di valutare eventuali condotte personali difformi dai principi e dai valori che da sempre hanno contraddistinto il nostro sindacato.

SI Cobas Bologna, 23 marzo

Carcere di Modena: Violenze e torture da “macelleria messicana”

Nelle testimonianze raccolte dalla Procura si parla di detenuti ammassati in uno stanzone, ammanettati, presi a manganellate e alcuni denudati. Tra loro persone semi coscienti per l’abuso di metadone. Era l’8 marzo 2020

di Damiano Aliprandi

Ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno.

Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro – com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci.

Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito – trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri – morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione.

E l’agente minacciò: «Adesso facciamo un altro G8!»

Ma dagli atti della vicenda Piscitelli emergono altri dettagli che, se confermati dalle indagini tuttora in corso, dipingono un vero e proprio “sistema” di abusi e torture attuato da alcuni agenti penitenziari di almeno tre istituti penitenziari diversi: oltre a quelli di Modena, anche di Bologna e di Reggio Emilia giunti come rinforzo.

E questo, sottolineiamo, riguarda la presunta mattanza avvenuta nel carcere Sant’Anna a fine rivolta. Il Dubbio ha potuto visionare in esclusiva gli atti. Sono diverse testimonianze di detenuti raccolte dalle Pm della procura modenese e tutte convergono su una vera e propria “macelleria messicana”, tanto che – come testimonia un detenuto – c’è stato un agente penitenziario, una volta entrato nella stanza del casermone, che avrebbe urlato: «Adesso facciamo un altro G8!». Il ricordo va inevitabilmente ai terribili fatti della scuola Diaz avvenuti a Genova nel 2001, quando la polizia fece irruzione e al grido «Adesso vi ammazziamo», picchiò i ragazzi del coordinamento del Genoa Social Forum.

Dopo la rivolta le violenze inaudite su circa ottanta detenuti

Ritorniamo ai fatti di Modena emersi dalla ricostruzione delle testimonianze raccolte dalla procura. L’8 marzo 2020 scoppia una violenta rivolta, prendono fuoco alcune sezioni, compreso l’ufficio di comando. Scene apocalittiche. Alcuni detenuti riescono a prendere le chiavi lasciate dagli agenti, mettendo così in salvo altri reclusi rimasti chiusi in cella. Man mano gli agenti hanno indirizzato i detenuti nel campo dicendo loro di rimanere lì, tranquillizzandoli perché non sarebbe successo niente. Dopodiché, man mano, sarebbero stati ammanettati e costretti a rimanere con la testa abbassata. Hanno attraversato due porte carraie, fino a giungere in un specie di casermone e ammassati dentro una stanza.

Dalle testimonianze raccolte in atti emerge che diversi detenuti sarebbero stati manganellati, insultati e riempiti di sputi lungo il corridoio che portava al locale. Alcuni detenuti, soprattutto stranieri, entravano nello stanzone già con la testa sanguinante. All’interno c’erano agenti penitenziari che provenivano sia da Bologna che da Reggio Emilia. Alcuni testimoni li hanno riconosciuti perché precedentemente erano stati reclusi in quei penitenziari. A tutti i detenuti ammassati nello stanzone, circa una ottantina, sono state fatte togliere le scarpe e costretti a rimanere seduti per terra.

Ed è in quel momento che diversi reclusi avrebbero ricevuto ulteriori manganellate in faccia, nei fianchi, sulle gambe. «Ad esempio c’era un ragazzo straniero – racconta alle Pm un testimone -, non so se tunisino o marocchino. Si vedeva che era in condizioni pietose, al livello di… non so cosa avesse assunto, e gli hanno dato un sacco di manganellate a questo qua, in faccia, in testa, questo ha fatto uno, due, tre, quattro metri e si è accasciato a terra».

Salvatore Piscitelli stava già male ed è stato manganellato

Altri detenuti, come dicono più testimoni ascoltati, sono stati fatti completamente spogliare con la scusa della perquisizione. In quella caserma giunse anche Salvatore Piscitelli. Secondo un altro testimone sentito dalle Pm, era già in condizioni particolari. «Quando lui è entrato già nella stanza lui tremava, tremava – racconta il detenuto –, io l’ho guardato e lui mi fa: “Mi hanno picchiato”». Testimonia che tremava così tanto, che un agente ha chiamato un’infermiera dell’ambulanza, che gli ha dato delle gocce. Un altro testimone racconta che avrebbero manganellato Piscitelli anche dentro quella famigerata stanza.

Nel trasferimento uno di loro è stato lasciato a Rimini e rianimato

Non sarebbe finita lì. Nella notte diversi detenuti sono stati fatti salire nei pullman per trasferirli nel carcere di Ascoli Piceno. Durante il tragitto, un detenuto testimonia di aver visto agenti manganellare alcuni reclusi. Diversi di loro si sentivano male, uno in particolare gli usciva la schiuma dalla bocca e per questo motivo è stato portato al carcere di Rimini, quello più vicino. Giunti sul posto lo hanno messo sull’asfalto, è venuta l’ambulanza, gli hanno fatto una siringa e lo hanno rianimato con il defibrillatore. Ricordiamo che nel tragitto c’era anche Piscitelli che, a detta di alcuni testimoni, stava già visibilmente male.

Giunti al carcere di Ascoli Piceno, l’inferno non sarebbe finito

Sempre tutti i testimoni ascoltati convergono con il fatto che la visita medica effettuata appena sono entrati, sarebbe stata fatta superficialmente. Non solo. Un detenuto testimonia che, nonostante fosse visibilmente pieno di segni dovute dalle percosse, il medico di guardia gli avrebbe soltanto chiesto: «Hai qualche patologia? Prendi farmaci particolari?». A riposta negativa, «A posto, vai!». Tutto qui. Anche Piscitelli stava male, tanto è vero – come raccontano i detenuti -, gli agenti l’avrebbero fatto scendere dal pullman prendendolo per i capelli, perché lui non riusciva a camminare da solo. Un testimone racconta che alla visita medica, Piscitelli ha lasciato bisogni fisiologici sulla sedia. Scene indegne per un Paese civile.

Le violenze sarebbero proseguite anche nel carcere di Ascoli Piceno

Come risulta dalle testimonianze raccolte dalle Pm di Modena, al carcere di Ascoli sarebbero proseguite le violenze da parte degli agenti. Nella notte, i detenuti trasferiti hanno infatti avuto il sentore che potesse accadere di nuovo. Un testimone racconta di come il suo compagno di cella, un serbo, gli ha detto di ripararsi dietro di lui nel caso di una spedizione punitiva. Tutto tace. Ma è stata la quiete prima della tempesta. Il mattino seguente, una squadra di agenti sarebbero entrati nelle celle a manganellare. In seguito, per quasi 15 giorni, avrebbero proseguito la violenza senza manganelli, ma con gli schiaffi. Per quasi un mese sono rimasti scalzi e con gli stessi vestiti e biancheria intima. Emerge una omertà che avrebbe coinvolto non solo gli agenti, ma anche altre figure penitenziarie. Solo grazie all’esposto fatto da sette detenuti, è emerso tutto questo Sistema di torture e lesioni aggravate.

Resta il dubbio: tra i morti c’era qualcuno di quelli picchiati?

Attualmente il fascicolo sulle violenze al carcere di Modena è ancora aperto. Alcuni agenti sarebbero stati identificati grazie al riconoscimento dei detenuti. Nove però sono le morti archiviate. Molti sono detenuti stranieri deceduti per overdose. Rimane il dubbio atroce: alcuni di loro sono quelli picchiati nella caserma del carcere Sant’Anna? Sappiamo che Piscitelli, per la cui morte Antigone ha fatto opposizione all’archiviazione, era tra quelli come dicono più testimoni. Su queste morti sarà investita la Corte Europea dei Diritti umani. Sulle violenze, ancora si attende l’esito delle indagini. Sullo sfondo c’è la commissione ispettiva del Dap istituita per le rivolte del 2020, ed è composta da un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti. Darà risposte su questa ennesima mattanza che emerge dagli atti?

da il dubbio