TORINO, SABATO 26 ALLE ORE 10:30 Presidio antimilitarista contro la guerra e chi la arma

L’Italia è in guerra. Sebbene le forze armate del Belpaese abbiano preso parte attiva a conflitti in Europa, Africa e Medioriente sin dal 1992, la gran parte delle persone è convinta che l’ultima guerra sia finita nel 1945. I governi che si sono succeduti hanno coperto le operazioni belliche tricolori sotto un manto di ipocrisia. Missioni umanitarie, operazioni di polizia internazionali hanno travestito l’invio di truppe sui fronti di guerra in Somalia, Libano, Serbia, Iraq, Afganistan, Libia.
Quest’estate, per la prima volta in quarant’anni un ministro della Difesa, in occasione del rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero, ha rivendicato spudoratamente le avventure neocoloniali delle forze armate come strumento di tutela degli interessi dell’Italia.
Ben 18 delle 40 missioni militari all’estero sono in Africa nel triangolo che va dalla Libia al Sahel sino al golfo di Guinea. Sono lì per fare la guerra ai migranti diretti in Europa e per sostenere l’ENI. La bandiera gialla con il cane a sei zampe dell’ENI accompagna il tricolore issato sui mezzi militari.
Il conflitto imperialista tra la NATO, che mira a continuare l’espansione ad est cominciata dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, e la Russia, che, dopo decenni di arretramento, ha deciso di passare al contrattacco occupando l’Ucraina, ha visto un repentino ritorno alla retorica umanitaria tipica dei governi di Roma.
Dal 24 febbraio, quando la Russia ha attaccato l’Ucraina, sono scesi in piazza anche i guerrafondai del PD, che si oppongono alla guerra spedendo armi al governo Zelensky. In un tripudio di bandiere nazionali ucraine e arcobaleni della pace viene messo in scena un pacifismo armato, chiaramente schierato con uno dei due imperialismi che si stanno sfidando sulla pelle di chi vive in Ucraina e deve affrontare morte, bombe, paura, coscrizione obbligatoria.
Il governo ha proclamato lo Stato di emergenza “umanitario”. Questa decisione conferisce poteri straordinari all’esecutivo, che ha mano libera nella gestione dell’impegno dell’Italia nel conflitto in Ucraina. Un ponte aereo ha trasportato in Polonia armi destinate al governo Zelensky sin dal 2 marzo. Draghi ha deciso un ulteriore aumento della spesa militare e l’invio di truppe sul fronte est della NATO. 500 militari, scelti tra gli incursori della Marina, Col Moschin, Forze speciali dell’Aeronautica e Task Force 45, si vanno ad aggiungere ai 240 alpini in Lettonia e i 138 uomini dell’Aeronautica in Romania. Nel Mar Nero ci sono la fregata FREMM “Margottini” e il cacciamine “Viareggio”, oltre alla portaerei “Cavour” con i cacciabombardieri F-35.
Noi non ci stiamo. Noi non ci arruoliamo né con la NATO, né con la Russia. Rifiutiamo la retorica patriottica come elemento di legittimazione degli Stati e delle loro pretese espansionistiche. L’antimilitarismo, l’internazionalismo, il disfattismo rivoluzionario sono stati centrali nelle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici sin dalle sue origini. Sfruttamento ed oppressione colpiscono in egual misura a tutte le latitudini, il conflitto contro i “propri” padroni e contro i “propri” governanti è il miglior modo di opporsi alla violenza statale e alla ferocia del capitalismo in ogni dove.
Le frontiere sono solo linee sottili su una mappa: un nulla che solo militari ben armati rendono tragicamente reali. Cancelliamole!
A Torino sta per partire la costruzione della Città dell’Aerospazio, un centro di eccellenza per l’industria bellica aerospaziale promosso dal colosso armiero Leonardo e dal Politecnico subalpino. La città dell’aerospazio, che sorgerà tra corso Francia e corso Marche, è stata candidata come sede di un acceleratore d’innovazione nel campo della Difesa e l’ufficio regionale per l’Europa del Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic (D.I.A.N.A), una struttura della NATO.
Torino punta tutto sull’industria bellica per il rilancio dell’economia. Un’economia di morte.
Bloccare la nascita di un nuovo polo di ricerca, progettazione e costruzione di ordigni bellici, impedire che la NATO abbia una sua base a Torino è un impegno concreto contro la guerra.
Opporsi allo Stato di emergenza bellico, all’aumento della spesa militare, all’invio di armi al governo Ucraino, lottare per il ritiro di tutte le missioni militari all’estero, per la chiusura e riconversione dell’industria bellica, per aprire le frontiere a tutti i profughi e ai migranti è un concreto ed urgente fronte di lotta.
Per fermare le guerre non basta un no. Bisogna mettersi di mezzo. A partire dalla nostra città.
Sciopero generale, boicottaggio e blocco delle basi militari e delle fabbriche di morte!
Sabato 26 marzo ore 10,30 a Porta Palazzo – zona mercato delle scarpe, Presidio antimilitarista contro la guerra e chi la arma
Assemblea Antimilitarista

Torniamo ad occupare le strade coi sogni, prima che il nemico occupi completamente la nostra testa

Il delirio bellicista procede a larghi passi, non solo a casa nostra, ma anche negli USA. Due notizie negli ultimi due giorni non possono che suscitare un moto di vergogna per gli stolti e i disonesti che di questo passo arriveranno davvero a riscrivere la storia. Per dirla con le parole di Gino Strada, “Se l’uomo non butterà fuori dalla storia la guerra, sarà la guerra che butterà fuori dalla storia l’uomo.”

La prima, viene dall’Università della Florida, dove è stato rimosso il nome di Karl Marx. L’iniziativa avviene su segnalazione di un sito ultra-conservatore e trumpiano, CampusReform, che si autodefinisce si autodefinisce il “cane da guardia” conservatore di tutto ciò che accade di illiberale nei college statunitensi.”

Dati gli eventi attuali in Ucraina e in altre parti del mondo, abbiamo deciso che fosse appropriato rimuovere il nome di Karl Marx che era stato collocato in una stanza di studio di gruppo presso l’Università della Florida nel 2014″, ha spiegato Hessy Fernandez, direttore delle comunicazioni strategiche dell’ateneo. Solo che basta fare due più due, con le oramai ridotte nozioni storiche rimaste dagli insegnamenti scolastici in tempi di “pace”, per ricordare come Marx fosse tedesco, vissuto a Bonn, Berlino, Parigi, infine a Londra, dove morì e fu sepolto nel 1883.

Ma la scienza di Marx, definito sprezzantemente “filosofo, economista radicale e critico rivoluzionario”, continua ad essere da ostacolo per la barbarie imperialista, che coinvolge nell’ondata russofoba anche Yuri Gagarin, “colpevole” di essere nato nella Russia Sovietica.

A Colorado Springs, dove si tiene ogni anno lo Space Symposium, una delle principali manifestazioni aerospaziali al mondo, si celebra da sempre la “Yuri’s night”, ma dall’inizio del conflitto gli organizzatori hanno preferito chiamare la serata “Celebration of Space: Discover What’s Next» ritenendo fosse più opportuno celebrare le conquiste americane nello spazio anziché quelle dell’astronauta sovietico.

Dopo la censura di Dostoevskij all’Università di Milano, la proiezione di Solaris di Tarkovskij proibita in Spagna, un documentario sul poeta futurista Chlebnikov vietato in Lituania, dovrebbe essere chiaro a tutti ormai che il livello di miseria e di barbarie raggiunto dall’imperialismo stia precipitando l’intera umanità in un pozzo nero senza fondo, in cui non si fa in tempo neanche a seppellire le vittime che ci si accorge di non avere più né la testa per pensare, né il cuore per amare e per odiare.
Per amare i nostri fratelli e le nostre sorelle sotto le bombe, per odiare i loro carnefici, che non sono né russi né ucraini ma sono i potenti della terra, e sono anche i nostri governanti, al servizio del capitalismo nostrano e mondiale.

Sarà una goccia nel mare, ma alla cancel culture, a questa martellante campagna mediatica interventista, ogni voce o canzone fuori dal coro della propaganda di guerra va valorizzata e ricordata.

Perciò pubblichiamo l’efficace racconto di Francesca Fornario, una coraggiosa giornalista che in questo sfogo mette in evidenza elementi utili a comprendere la realtà sociale e politica nell’Ucraina:

Due cose che so:
1) Putin non è il popolo russo.
Il popolo russo è un popolo pacifico e ospitale legato all’Ucraina: molti russi hanno genitori, mogli, parenti, amici ucraini che parlano la loro stessa lingua. Putin è un oligarca violento e antidemocratico amante del lusso sfrenato, con un patrimonio valutato decine di miliardi (impossibili stime ufficiali), un omofobo guerrafondaio, un ex agente del kgb che perseguita e uccide gli oppositori politici e i giornalisti e ha tessuto rapporti con tutta l’estrema destra europea. È l’idolo di Le Pen e di Salvini: Salvini che non festeggia il 25 Aprile e che ha candidato, eletto e portato al potere con la Lega decine di esponenti del Movimento Sociale Italiano. Che l’obiettivo dell’idolo delle destre sia quello di «denazificare» l’Ucraina è ridicolo.
Migliaia di russi senza patrimoni miliardari scendono in piazza contro Putin per fermare la guerra rischiando l’arresto, come ha fatto ieri la giornalista Marina Ovsyannikova irrompendo in diretta sul primo canale della tv russa con un cartello che denuncia le menzogne della propaganda e venendo immediatamente arrestata.
Pensare di boiocottare Putin boicottando Dostoevskij e l’insalata russa (che comunque non è russa) e la vodka (che comunque non è prodotta in Russia ma in Svezia, seguita da Francia, Polonia, Paesi Bassi, Stati Uniti, Lettonia e – toh! – Italia) è ripugnante e idiota. Boicottare il caviale – IL CAVIALE – è una roba che può venire in mente solo a chi trova normale riunirsi nella reggia di Versailles mentre i popoli patiscono la guerra e la fame, un po’ come scendere in piazza il 25 Aprile con le foto di “Coco Chanel, patriota europea” (a forza di governare con Berlusconi e Salvini agli antifascisti si confondono le idee).
2) Zelensky non è il popolo ucraino.
Il popolo ucraino è un popolo pacifico e ospitale legato alla Russia: molti ucraini hanno parenti e amici russi che parlano la loro stessa lingua. Molti sono fuggiti in Russia prima e dopo lo scoppio della guerra. Tra le braccia dei loro amici e parenti, non tra le braccia di Putin.
La vice premier ucraina Iryna Vereshchuk ha detto ieri sera a Otto e Mezzo che il 90 per cento degli ucraini sono con Zelensky: non è vero.
Zelensky ha vinto le elezioni nel 2019 con la promessa di sconfiggere la corruzione sistemica degli oligarchi, portare il benessere economico, porre fine alla guerra in Donbass. Ha disatteso tutte e tre le promesse. Ha perseguitato come il suo predecessore gli ucraini russofoni, ai quali viene impedito di studiare nella propria lingua. Stipendia i neonazisti degli ex corpi paramilitari come il battaglione Azov, legato a Casapound (vedi foto), diventati esercito regolare ucraino – dunque pagati con le tasse versate dagli ucraini – e accusati dall’Ocse e dall’Onu di atroci crimini contro l’umanità. Crimini commessi per lo più in Donbass, durante una guerra che si combatte da 8 anni e ha fatto – stando solo ai morti certificati dall’Ocse – 14 mila vittime. Una guerra che Zelensky prometteva di fermare e che invece continua a combattere sparando razzi contro quello che dice di essere il suo popolo.
Nemmeno prima di deludere le aspettative del “suo” popolo Zelensky rappresentava il 90 per cento degli ucraini.
Celebre comico televisivo, protagonista della serie “Servitore del popolo”, dove vestiva i panni di un professore di storia che si candidava alle lezioni con l’ambizione di sconfiggere la corruzione e il sistema degli oligarchi, porre fine alla guerra e portare l’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato, cambia carriera fondando un partito che si chiama “Servitore del popolo” e si candida alle elezioni del 2019 con l’ambizione di sconfiggere la corruzione e il sistema degli oligarchi, porre fine alla guerra, portare l’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato.
Zelensky deve però la sua popolarità al più ricco degli oligarchi che dice di voler combattere.
Si tratta dello stesso oligarca che ha finanziato il famigerato battaglione Azov (nel caso qualcuno vi avesse già spiegato che quelli di Azov non sono nazisti ma nazionalisti, lascio la parola al portavoce di Azov, Andriy Diachenko, che nel 2015 ha spiegato che “solo” il 20 per cento dei componenti del battaglione si dichiara apertamente fan di Hitler, benché tutti loro adottino le svastiche, la simbologia e i saluti nazisti perché pervasi “dall’ideale di difendere l’Ucraina come Hitler difese la Germania”). L’oligarca in questione è il proprietario della tv 1+1, che produce e trasmette lo show-partito politico di Zelensky: il magnate e politico Ihor Kolomoisky, uno degli uomini più ricchi al mondo secondo Forbes, governatore della regione di Dnipropetrovsk fino al 2015, fondatore della più grande banca d’affari ucraina, la Privatbank, fallita dopo aver riempito le tasche di Kolomoisky e rifinanziata a spese del popolo ucraino, come prassi anche da noi.
Nel 2019, Zelensky ottiene il 30 per cento dei voti al primo turno di elezioni non democratiche. Non democratiche perché i partiti comunisti, che avevano il 15 per cento dei voti, sono stati banditi nel 2015 e mai riabilitati e i loro militanti perseguitati come qualunque partito, rivista, sindacato, giornale manifesti idee comuniste (non solo riferite all’Unione Sovietica ma anche critiche nei confronti di Stalin e legate al pensiero di Karl Marx e Rosa Luxemburg, ai quali in Ucraina erano dedicate vie e piazze che oggi hanno cambiato nome).
Ancora qualche giorno fa, a Kiev, Mikhail Kononovich, leader dell’ala giovanile del fuorilegge Partito Comunista ucraino (CPU), e suo fratello, Aleksandr Kononovich, sono stati arrestati dalle autorità ucraine e ora rischiano l’esecuzione.
Alle elezioni non prende parte la popolazione delle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk, che ha già votato per oltre il 90 per cento a favore dell’indipendenza da Kiev ma che ieri sera la vice premier ucraina ancora annoverava, insieme alla popolazione della Crimea, nel 90 per cento di ucraini con Zelensky, considerando la Crimea e i territori delle autoproclamate repubbliche popolari “territori occupati” (come del resto ha fatto tutto l’occidente, che riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli solo quando conviene alla Nato). In aggiunta, nella parte delle regioni di Lugansk e Donetsk ancora sotto il controllo di Kiev, e dove quindi nel 2019 si svolgono le elezioni, Zelensky viene sconfitto sia al primo che al secondo turno. Il primo partito è quello di Yuri Boiko, fautore della ripresa delle relazioni con la russia, votato perché garante del diritto degli ucraini russofoni di tornare a parlare, insegnare, pubblicare giornali nella propria lingua.
Al secondo turno, il servitore del popolo Zelensky sfida il presidente uscente Poroshenko, oligarca proprietario di catene commerciali (sua la cioccolata “Roschen”), altro miliardario censito da Forbes e responsabile del conflitto in Donbass, persecutore degli ucraini russofoni e legato anche lui al magnate Kolomoisky, l’editore di Zelensky, con il quale Poroshenko arriva alla rottura nel 2015, quando preme per le sue dimissioni da governatore.
Con la promessa di porre fine al conflitto, Zelensky ottiene al ballottaggio il 73 per cento dei voti. Una volta eletto, invece di attuare come promesso gli accordi di Minsk sull’autonomia del Donbass firmati dal suo predecessore, chiede di rinegoziarli. Spinge l’acceleratore sulla guerra mai cessata. Nel paese del servitore del popolo la corruzione è ancora sistemica: come mi ha detto una volta un’avvocata: «In Ucraina serve pagare per ottenere qualunque cosa e qualunque cosa si ottiene pagando». Quest’estate, a Marrakech, ero colpita dai molti annunci delle università ucraine di medicina: «Vieni a laurearti in Ucraina!». In Ucraina? Perché? «Perché basta pagare e diventi medico. Poi vengono a operare qui, ma se stanno male vanno a curarsi in Francia». «Ah». Gli stipendi pubblici sono miserrimi: gli impiegati faticano ad arrivare alla fine del mese. Le famiglie sono tornate a vivere tutte sotto uno stesso tetto, tre e anche quattro generazioni. Nonostante le difficoltà, non ho mai incontrato persone così ospitali e generose come in Ucraina.
Ci sentiamo ogni giorno. Sperano che la guerra finisca presto.
Non conosco nessuno che la stia combattendo. “Combattono i professionisti”, mi dicono. Quelli pagati, quelli obbligati. Gli altri sono scappati in tempo per non dover combattere o si nascondono. Chi ha i soldi si è rifugiato negli alberghi o nelle case al confine, chi non ha i soldi per scappare o non vuole lasciare la propria casa, il lavoro, i genitori anziani, i figli piccoli, si nasconde in cantina, aiutando come può, costruendo una rete di solidarietà, di soccorso, di aiuto, portando l’acqua e le medicine alla popolazione.
Non vogliono armi per combattere, vogliono tornare presto a vivere in pace. Per questo Zelensky è stato costretto a arruolare legionari stranieri, a distribuire armi a chiunque le accetti e a varare una legge aberrante che consente a chiunque di sparare, facendo saltare la distinzione tra civili e militari e autorizzando l’aggressore a colpire i civili di un popolo che sta ripudiando la guerra meglio di noi, che dovremmo farlo per Costituzione.
Il popolo ucraino non è Zelensky, con la sua villa da 4 milioni a Forte dei Marmi, è Alina con la sua mamma badante a Roma, che ieri ho accompagnato in lacrime dall’altra parte della città con sua figlia di sei anni, rifugiate in attesa di poter tornare a casa, presto: “Appena finisce la guerra”.
Abbiamo raccolto vestiti per loro. C’era un cappotto. Alina non lo ha voluto perché qui fa caldo e quando tornerà in Ucraina troverà i suoi cappotti che la aspettano a casa insieme a suo marito, che aveva aperto una falegnameria e l’aveva inaugurata il giorno prima dello scoppio della guerra.
Il popolo ucraino non è Zelensky in mimetica che, al sicuro da qualche località segreta, augura la morte a chi scappa (“Смерть бігунам!!”, “morte a chi scappa”, ha dichiarato in video riferendosi agli uomini tra i 18 e i 60 anni che non possono lasciare il paese), il popolo ucraino sono le decine di ragazzi maschi con i quali siamo in contatto e che sono scappati in tempo per non combattere perché non hanno nessuna intenzione di morire per Putin né per Zelensky o che si sono nascosti in cantina aiutando la popolazione come possono.
Mi è chiaro che delle ragioni che spingono questi nostri fratelli e sorelle a non imbracciare le armi non freghi niente a Zelensky, a Biden, a Draghi, a Putin, ai molti giornalisti, politici e analisti ospiti dei talk show che preferiscono eccitarsi per la bambina ucraina che imbraccia un fucile e farne un simbolo della resistenza, un’immagine che fino a qualche mese fa avremmo utilizzato per denunciare la violazione dei diritti dell’infanzia in remoti paesi africani non democratici.
Frega però parecchio a me, per questo ci tengo a dare loro voce. A dare voce a chi, in Ucraina, chiede la pace. Sogno in collegamento a Otto e Mezzo una madre, un ragazzo che spera di non morire e che la guerra finisca presto, cioè l’opposto della terza guerra mondiale evocata da Zelensky e dalla sua vice premier che insiste a chiedere la No Fly Zone da parte della Nato anche quando le viene spiegato che questo comporterebbe lo scoppio di un conflitto globale tra potenze nucleari, cioè l’inasprimento della guerra e la fine di quasi tutto per quasi tutti.
Io non so e non voglio sapere se Putin, Zelensky e gli altri oligarchi hanno pronta l’isola, il bunker, l’astronave per Marte o se sono semplicemente meno empatici, meno svegli, meno liberi o più malati di come ce li raccontiamo.
So che la guerra i popoli non la vincono mai, nemmeno quando la vincono i loro governi. I soldati muoiono o tornano a casa feriti nel corpo e nell’anima, spesso inadatti alla vita che avevano. Gli ospedali, i ponti, le fabbriche le stazioni, le scuole vengono distrutte, le famiglie terrorizzate e divise, le terre bruciate e chi vive di questo – andando a scuola, coltivando la terra, guidando un treno, lavorando in fabbrica o in un ospedale – si ritrova senza la vita che aveva da vivere, con tutto da rifare.
In molti stiamo ricostruendo gli obiettivi economici e strategici di Putin e di Zelensky, le cause del conflitto, le possibili conseguenze in termini di confini, equilibri commerciali, forniture di materie prime, alleanze militari. È giusto farlo. È giusto comprendere i ruoli e le responsabilità storiche di tutti gli attori coinvolti compresa la Nato, Stalin, Lenin e Pietro il Grande (magari ecco, ricordando chi è ancora sulla scena e chi no, chi oggi potrebbe fare la differenza e chi no).
Vorrei però che con lo stesso sforzo con cui ponderiamo le richieste dei contendenti, dell’aggressore che però se ne sta al caldo senza combattere e dell’aggredito che pure non sta al fronte, ponderassimo quelle attuali del popolo ucraino.
Le motivazioni che spingono Putin a insistere e Zelensky a resistere non sono infatti quelle dei loro popoli. Non sono quelle di donne, uomini, bambine, bambini, vecchi, soldati, profughi.
Cosa pensate direbbero se potessero essere loro – Marina, Yura, Olga, tutti nomi di fantasia che uso per non scrivere i nomi di chi mi scrive – a sedersi al tavolo delle trattative? Chiederebbero le nostre armi? L’intervento della Nato? La terza guerra mondiale? L’integrità territoriale del paese? Ci avete pensato? Li conoscete?
Cosa stabilirebbero se potessero sedersi loro al tavolo delle trattative, un russo e un ucraino, come i genitori di Marina Ovsyannikova, la giornalista arrestata per aver fatto irruzione sulla tv russa?
Cosa desidera in cuor suo oggi il 90 per cento del popolo ucraino? Di porre fine alla guerra a qualunque condizione. Questo mi dicono i miei amici in Ucraina: “Speriamo che finisca presto”. Non discutono i confini orientali, l’ingresso nella Nato o l’annessione della Crimea alla Russia, le responsabilità storiche.
“È facile chiedere la pace!”, mi viene detto da chi evidentemente considera Marina, Yura, Olga, mio figlio e me ingenui o vigliacchi o entrambi.
No. È più facile fare la guerra, perché chi la dichiara non deve combatterla.
Chi dichiara guerra non resta senza cibo e riscaldamento, ha messo per tempo al sicuro i propri cari in qualche confortevole residenza di una qualche località segreta, non rischia di perdere la casa perché ne possiede parecchie e parecchie altre può comprarne.
La pace, invece, si fa una fatica porca a farla e a chiederla, ma è l’unica soluzione praticabile per chi di casa ne ha una e di stipendio pure e ha i figli sotto le armi e rischia ogni giorno in più di guerra di perdere tutto quello che ha.
La guerra è praticabile solo per chi produce e vende armi e non le imbraccia, solo per chi le guerre le sta a guardare in tv come si guardano le partite di calcio, facendo il tifo per una squadra e per l’altra senza capire quali sono realmente le squadre in campo: gli oligarchi contro i poveri cristi, in ogni guerra.
La pace, per i poveri cristi, non è un’utopia: è un’utopia la guerra, la pace e il disarmo sono l’unica via.
Poi magari quello che scrivo non serve a niente, serve solo a voi sorelle e fratelli che mi leggete con il traduttore di google per sapere che non siete soli. Siamo in tante, in tanti, anche qui, anche in Russia, a chiedere la pace. Siamo in tanti qui in Italia a gridare, e non da oggi, che i popoli non si proteggono aumentando la spesa militare di 37 miliardi e diminuendo quella sanitaria di 25 miliardi, come abbiamo fatto qui in Italia. Si proteggono con la giustizia sociale, la cooperazione, l’internazionalismo. Siamo in tanti a chiedere di non armare la guerra. Quella in Ucraina e le altre 33 guerre in corso nel resto del mondo, delle quali non amiamo pubblicare le foto dei civili morti perché le bombe, quasi sempre, le abbiamo prodotte, vendute e sganciate noi o qualche dittatore utile nostro amico.
Vi penso ogni istante. Teniamoci stretti.

Nella “democratica” repubblica nazista ucraina i comunisti rischiano la pena di morte. Appello per la liberazione dei fratelli Mikhail e Aleksander Kononovich

I fratelli ucraini Mikhail e Aleksander Kononovich sono stati arrestati la notte del 6 marzo dalla polizia governativa di Zelensky. Sono accusati di essere spie russe e bielorusse per la loro appartenenza ad un’organizzazione dichiarata illegale e terroristica, l’Unione della Gioventù Comunista Leninista dell’Ucraina.

Mikhail ne è il primo segretario.

Detenuti attualmente in un carcere di massima sicurezza, i ragazzi rischiano l’esecuzione.

Mentre tutto l’Occidente presenta Zelensky come il campione della democrazia, diverso è il punto di vista di chi si è opposto all’ascesa del governo di Kiev sostenuto dai neonazisti, che invoca l’intervento armato della NATO e la guerra atomica, e dal 2014 ha dichiarato illegali i comunisti in Ucraina.

I due ragazzi incriminati, infatti, sin dal 2014 sono stati alla testa delle mobilitazioni giovanili e studentesche che tentarono di aprire gli occhi al popolo ucraino sulla vera natura di Euromaidan.

Quelle battaglie vennero perseguitate e poi represse nel sangue da Pravi Sektor, Azov e altre organizzazioni di estrema destra mentre l’Occidente si tappava occhi e orecchie.

Per la loro adesione alla Gioventù Comunista Leninista di Ucraina, Mikhail e Aleksander sono stati aggrediti e picchiati per le strade di Kiev e arrestati più volte. I loro parenti e amici hanno subito minacce e intimidazioni.

Questo è ciò che migliaia di militanti politici e sindacali subiscono in Ucraina dal governo Zelensky nel più totale oscuramento mediatico del nostro sistema informativo.

La Federazione Mondiale della Gioventù Democratica (WFDY/FMJD) ha chiamato alla mobilitazione internazionale in solidarietà di Mikhail e Aleksander Kononovich.

Questo è il testo dell’appello:

Cari compagni,
Come abbiamo condiviso nella nostra ultima email, le vite dei nostri compagni Michael e Alexander sono in pericolo.
Riteniamo il governo ucraino responsabile di qualsiasi danno che possa essere causato ai nostri compagni.
Per questo motivo, l’Unione Mondiale della Gioventù Democratica ha lanciato un appello urgente alla solidarietà chiedendo il rilascio immediato dei compagni della nostra organizzazione membro, l’Unione della Gioventù Comunista Lenin in Ucraina.
NO AL FASCISMO! No all’esecuzione dei nostri compagni in Ucraina!
Al fine di aggiornare le ultime informazioni che abbiamo inviato e inviare nuove istruzioni per il lavoro di solidarietà con i compagni ucraini Mikhail e Alexander, la Federazione Mondiale della Gioventù per i Democratici invita tutte le sue organizzazioni a intensificare la loro o prontezza organizzativa ed esercitare pressione. Ecco le idee chiave che pensiamo possano aiutarli:
1) Invito a manifestazioni per l’immediato rilascio dei compagni. Nei paesi con ambasciate ucraine, è più raccomandato farlo davanti a loro. Questo dovrebbe indicare la responsabilità del governo ucraino sulla salute dei compagni.
2) Inviando lettere alle ambasciate ucraine per fare pressione e chiedere il loro rilascio immediato.
3) Domande rivolte alle istituzioni del nostro paese e ad altri enti che possono assistere nella richiesta di liberazione dei compagni.
4) Lanciare campagne di solidarietà con i compagni e liberarli immediatamente.
Le proposte congiunte dovrebbero essere sviluppate con urgenza tramite questa email nelle prossime ore. Soprattutto durante la prossima settimana dobbiamo rinforzare la lotta. Le vite dei compagni sono in serio pericolo in questo momento, quindi dobbiamo agire in fretta.
Condivideremo molti materiali per aiutarvi in questi compiti nelle prossime ore in questo volume. Chiediamo un intervento immediato da parte delle organizzazioni. I NOSTRI COMPAGNI SARANNO LIBERI
Inviate tutto il materiale alla mail WFDY.
Sede dell’Unione Mondiale della Gioventù Democratica
https://wfdy-my.sharepoint.com/…/EhUzNcdKvhlDu…

Un appello per la loro immediata liberazione, che invitiamo a sottoscrivere, è visibile anche qui

Quello che segue è tratto dal racconto di un incontro di Owain Olanda con Mikhail Kononovich:

Nel 2017 ho incontrato Mikhail Kononovich del Komsomol dell’Ucraina. Durante il nostro incontro mi raccontò della repressione che aveva affrontato personalmente come comunista.

Dal 2014 gli è stato proibito di lasciare l’Ucraina. Iniziando la nostra conversazione, Kononovich mi ha raccontato di come tre settimane dopo il colpo di stato stesse lavorando nell’ufficio del Partito a Kiev quando l’edificio è stato preso d’assalto da una folla fascista. Armati di mitragliatrici e vestiti di passamontagna, saccheggiarono l’edificio e assalirono i compagni all’interno. Lo stesso Kononovich fu accoltellato, picchiato e successivamente rapito dai teppisti fascisti. Gli sono stati strappati i denti con il calcio di una pistola ed è stato trascinato fuori dall’edificio privo di sensi sotto lo sguardo della polizia. Dopo essere stato portato via e picchiato per essersi rifiutato di denunciare il comunismo, è stato poi lasciato per morto nel bosco dopo un ulteriore pestaggio.

Fortunatamente il nostro compagno è sopravvissuto a questo particolare calvario, ma ci ha raccontato come la violenza di destra abbia reso impossibile vivere la sua vita quotidiana come prima. Ha subito molte percosse e ha fatto irruzione nella sua casa. In passato ha dovuto abbandonare la sua casa con la sua famiglia per questo motivo. Ci ha raccontato come la sua più grande preoccupazione non fosse per la sua sicurezza personale ma per quella di sua figlia di 5 anni.

Ci ha anche raccontato di aver rifiutato quando il governo ucraino gli ha offerto denaro per diffondere bugie sul Partito Comunista Ucraino e sul suo Komsomol.

Incontrando Kononovich, mi sono sentito ispirato dal fatto che lui e il Komsomol avessero ancora la forza di lottare in alcune delle condizioni più impossibili per i comunisti nel mondo di oggi

Ho stretto la mano a Kononovich quando mi ha detto quanto sia importante combattere contro l’UE, come l’UE promuove il razzismo e l’imperialismo e come funziona con la NATO, soprattutto per quanto riguarda l’Ucraina. Ci siamo scambiati il ​​materiale del Partito: ho presentato al Komsomol ucraino le bandiere del Partito e loro hanno regalato magliette e cappelli con il logo della CPU sopra. Gli ho parlato dei precedenti sforzi di solidarietà che abbiamo fatto e promesso di continuare le nostre proteste contro il governo ucraino e la sua messa al bando del Partito Comunista.

Il primo passo verso la rivoluzione ovunque deve essere il lavoro del Partito e dobbiamo resistere ovunque alla messa al bando del Partito. Dobbiamo lasciare che l’attività clandestina del Partito comunista ucraino sia per noi un’ispirazione e una fonte di forza mentre lottiamo per costruire il Partito contro le relative difficoltà che dobbiamo affrontare.

Dobbiamo resistere al fascismo, ai blocchi imperialisti e alla classe dirigente che lo sostengono.

Yvan Colonna è morto, Statu francese assassinu

Yvan Colonna, il militante indipendentista corso condannato all’ergastolo per l’assassinio del prefetto Claude Erignac nel 1998, è morto ieri sera a Marsiglia, nel sud della Francia, 3 settimane dopo essere stato aggredito in carcere ad Arles da un altro detenuto, un jihadista. Il dramma ha scatenato una serie di manifestazioni e violenze nell’isola. Colonna, ridotto in fin di vita, è deceduto dopo 3 settimane di coma.

«Yvan Colonna, patriota corso, vive per l’eternità» Noi saremo sempre al tuo fianco», ha twittato in lingua corsa il partito Femu a Corsica di Gilles Simeoni, il presidente autonomista del Consiglio esecutivo dell’isola. Poco prima la famiglia aveva confermato il decesso, chiedendo la massima riservatezza. «Yvan Colonna, morto per la Corsica», ha postato, sempre in corso su Twitter, Core in Fronte, il principale partito indipendentista, accompagnando il messaggio con una foto in bianco e nero del militante nazionalista. L’annuncio della morte di Colonna, alcune decine di persone si sono riunite a Bastia davanti al Palazzo di Giustizia, appendendo striscioni con lo slogan «Statu francese assassinu».

Ad Ajaccio, davanti alla cattedrale, in silenzio, si sono radunati gruppi di persone. Messaggio minaccioso dall’associazione per la difesa dei prigionieri politici corsi Sulidarita, che ha twittato «Abbasso questo stato francese assassino».

Yvan Colonna, 61 anni, al quale la giustizia aveva accordato una sospensione di pena alcuni giorni fa «per motivi medici», era stato ferito a morte da un detenuto radicalizzato camerunense di 36 anni, che lo aveva aggredito durante l’ora di sport. Franck Elong Abé, questo il nome dell’aggressore, scontava una pena a 9 anni di carcere per associazione per delinquere di stampo terroristico. Ha giustificato il suo atto con il fatto che Colonna avrebbe bestemmiato e «parlato male del Profeta».

Le tensioni che sono seguite all’aggressione sono culminate il 13 marzo a Bastia con una manifestazione durante la quale 102 persone sono rimaste ferite, 77 tra le forze dell’ordine. Una protesta motivata in gran parte dalla lunghezza dell’aggressione a Colonna, circa 8 minuti, sotto l’obiettivo di una telecamera di sorveglianza, senza che nessun sorvegliante intervenisse. Ad avvertire i secondini era stato addirittura l’aggressore.

Ascolta il collegamento di Radio Onda Rossa con un compagno che si trova nell’isola:

No al pacifismo italico armato da Leonardo

Da Radio cane, un’intervista ad Antonio Mazzeo

Chi esporta guerra non cerca pace

Mentre il parlamento italiano votava per il progressivo raddoppio delle spese militari, e nell’aeroporto di Pisa venivano trovate armi nascoste in un carico umanitario, abbiamo chiesto ad Antonio Mazzeo – antimilitarista siciliano – cosa ne pensa della decisione europea di inviare armi in Ucraina. Ne abbiamo approfittato anche per farci raccontare dell’esposizione mondiale di tecnologie belliche appena ospitata in Arabia Saudita e per fare il punto sui minacciosi movimenti nei cieli italiani, dove cacciabombardieri e droni s’involano verso l’est Europa cercando la guerra e chiamandola pace.

Da Il Manifesto

L’italiana Leonardo guida il riarmo dell’Unione europea

Dai sistemi satellitari di difesa ai droni, 28,7 milioni all’azienda pubblica. Due ong denunciano: finanziamenti poco trasparenti

di Angelo Mastrandrea

È un’impresa italiana a fare la parte del leone nei nuovi programmi di difesa dell’Unione europea. Dei 600 milioni di euro stanziati per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore delle armi, la società Leonardo – di proprietà del ministero dell’Economia – ne riceverà 28,7, superando di gran lunga la spagnola Indra (22,78) e la francese Airbus (10,17). La società italiana, che è già la più grande compagnia in Europa nel settore delle armi, coordinerà tre dei dieci maggiori progetti: il sistema di navigazione satellitare Galileo, finanziato per 35,5 milioni di euro, Essor, un progetto per la «tecnologia sicura» che ha ricevuto poco meno di 34 milioni, e gli anti-droni Jey Cuas, che riceveranno13 milioni. Inoltre, Leonardo partecipa ad altri consorzi, come quello per la realizzazione di un drone europeo.

Nella distribuzione dei finanziamenti, l’Italia è al secondo posto dopo la Francia, dove il presidente Emmanuel Macron, presentando il programma per le prossime elezioni presidenziali, tre giorni fa ha annunciato che «dobbiamo intensificare i nostri investimenti» in armamenti «per poter affrontare una guerra ad alta intensità che può tornare sul nostro continente». Il nostro paese riceverà 40,36 milioni di euro, contro i 74,24 dei cugini d’oltralpe, superando Spagna e Germania che sfiorano i 40 milioni. A questi quattro paesi andrà quasi il 70 per cento del finanziamento.

Le cifre si leggono in un rapporto diffuso dalla Rete europea contro il commercio di armi e dal Transnational Institute, intitolato «Accendere le fiamme. Come l’Unione europea sta alimentando una nuova corsa agli armamenti». Secondo gli autori, i finanziamenti sono assegnati senza controlli e in maniera non trasparente. «Il processo decisionale è stato indirizzato da aziende altamente lucrative che sfruttano gli spazi politici per il proprio guadagno», ha detto Niamh Ní Bhriain del Transnational Institute. Nove dei 16 rappresentanti dell’organo consultivo dell’Unione europea che ha portato alla creazione del bilancio militare erano infatti affiliati alle aziende di armi Airbus, Bae systems, Indra, Leonardo, Mbda e Saab, agli istituti di ricerca sulle armi Fraunhofer e Tno, e all’organizzazione di lobby dell’industria delle armi AeroSpace and Defence Industries Association of Europe. Il risultato è stato che le grandi compagnie hanno ottenuto in totale 86 milioni di euro di finanziamenti, nonostante alcune di esse abbiano esportato armi verso paesi in guerra o dove sono in vigore regimi autoritari.

Il prossimo business non riguarda però le esportazioni di armi, ma il riarmo europeo. Secondo gli autori del rapporto, l’Ue punta da tempo a diventare una «potenza militare globale» e per questo ha deciso di finanziare la ricerca e lo sviluppo di nuovi armamenti. Come presidente di turno, Macron si è impegnato a dare un forte impulso alla creazione di un esercito europeo. La Commissione Ue ha destinato quasi 8 miliardi di euro alla ricerca e sviluppo delle nuove armi per il periodo 2021-2027. In particolare, gli studi puntano su nuovi sistemi basati su tecnologie «intelligenti», come quelli automatici senza equipaggio o l’intelligenza artificiale.

La guerra in Ucraina non ha fatto altro che accelerare la corsa agli armamenti nel vecchio continente. Al vertice informale di Versailles, il 10 e 11 marzo, i leader europei hanno stabilito una crescita del le spese per la difesa. «È chiaro che dobbiamo investire molto di più nella sicurezza del nostro Paese», ha detto davanti al Bundestag, il parlamento tedesco, il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, annunciando lo stanziamento di 100 miliardi di euro per il riarmo. In Italia, la Camera dei deputati ha approvato a larga maggioranza un ordine del giorno proposto dalla Lega al «decreto Ucraina» per aumentare, entro il 2024, le spese militari fino al 2 per cento del Pil. Secondo i dati dell’Osservatorio Milex, vorrebbe dire passare da 25 a 38 miliardi all’anno.

«Questi fondi contribuiranno ad aumentare le esportazioni di armi europee e alimenteranno la corsa globale agli armamenti, che a sua volta porterà a più guerre, maggiore distruzione, una significativa perdita di vite umane e un aumento delle migrazioni forzati», scrivono i ricercatori, «alimentando, piuttosto che arginare, la probabilità di una guerra».

Caccia alle streghe in Ucraina contro giornalisti, attivisti e politici di sinistra

Da Pressenza, di

In questi giorni in Ucraina molti autori preferiscono rimanere anonimi. Alcuni di loro ci hanno fatto arrivare le seguenti storie:

Yuriy Tkachev

Yuriy Tkachev, giornalista di Odessa arrestato dal Servizio di Sicurezza (Foto di Facebook)

Il 19 marzo uno dei giornalisti più noti e popolari in Ucraina è stato arrestato dagli agenti del Servizio di Sicurezza. Purtroppo, la situazione drammatica del paese viene usata per “ripulirlo” dagli oppositori, in aperta violazione di tutte le procedure legali e giuridiche.

Yuriy Tkachev è un giornalista di Odessa, caporedattore della rivista online https://timer-odessa.net/.

È sempre stato molto critico nei confronti del precedente e anche dell’attuale governo ucraino per le sue politiche dopo le proteste della Maidan, dopo il “massacro di Odessa del 2 maggio 2014” a opera di estremisti di destra e i “cecchini della Maidan”; le indagini al riguardo sono state bloccate, rinviate per molti anni e non sono ancora concluse.

Tkachev era nel suo appartamento a Odessa quando verso le 7 del mattino è stato arrestato dagli agenti del Servizio di Sicurezza (SBU in ucraino), che durante la perquisizione, secondo quanto riferito dalla moglie, hanno trovato nel bagno “un esplosivo e una bomba a mano”.

L’ultimo messaggio di Yuriy Tkachev, poco prima di aprire la porta agli agenti dell’SBU, alle 6:34 sul suo gruppo Telegram personale, recita: “Sono venuti a prendermi, è stato un piacere parlare”.

I fatti sono stati pubblicati per la prima volta dall’attivista per i diritti umani Oksana Chelyasheva: https://www.facebook.com/profile.php?id=100008135108849.

Il post su Facebook recita: “Importante! Tutte le affermazioni secondo cui Yuriy Tkachev ha aperto un nuovo canale su Telegram dopo il suo presunto rilascio dall’SBU sono false. Sono riuscita a contattare la moglie di Yuriy, Oksana. Ha raccontato che l’SBU lo sta interrogando e lei non ha avuto la possibilità di entrare negli account del marito, perché tutti i computer e i telefoni cellulari erano nelle mani degli agenti. L’avvocato non ha il permesso di vedere Yuriy. Oksana ha detto che hanno davvero bisogno di sostegno per far conoscere l’accaduto”.

Secondo il suo racconto, Yuriy ha aperto la porta dell’appartamento e non ha opposto alcuna resistenza. Nonostante questo, la SBU lo ha trascinato fuori in corridoio, stendendolo a faccia in giù. Oksana ha dovuto lasciare l’appartamento senza subire violenza.

Oksana sostiene che attraverso la porta d’ingresso rimasta aperta ha visto uno degli ufficiali dell’SBU entrare nel bagno, dove è rimasto per diversi minuti, per poi sostenere di avervi “scoperto” una “granata e una bomba al tritolo”.

Dopo che quest’uomo è uscito dal bagno, gli agenti dell’SBU hanno riportato Yuriy e Oksana nell’appartamento, dove è iniziata la perquisizione. Allo stesso tempo, hanno costretto Yuriy a togliersi i vestiti, permettendogli di rivestirsi solo prima di portarlo via.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, i rappresentanti della destra e del nazionalismo, tra cui diversi noti intellettuali, hanno iniziato a invocare la violenza e persino l’omicidio di coloro che sostenevano pubblicamente gli accordi di Minsk, coloro che protestavano contro la “de-comunistizzazione” (la politica ufficiale dello Stato ucraino per cancellare ogni traccia di ideologia comunista nel paese) e la soluzione politica del conflitto nel Donbass. I primi obiettivi degli attacchi sono stati i gruppi di sinistra.

Sono apparse delle liste nere e alcuni “attivisti di sinistra” hanno iniziato a collaborare alla compilazione di liste di esponenti della “sinistra sbagliata”.

Il 3 marzo, nella città di Dnepr (ex Dnepropetrovsk, da cui la parte “Petrovsk” è stata rimossa anni fa come “russa”, in quanto si riferisce storicamente allo zar Pietro il Grande), i membri dell’SBU con la partecipazione dei neonazisti del gruppo paramilitare Azov hanno arrestato l’attivista dell’organizzazione di sinistra Livytsia Aleksandr Matiushenko. È stato accusato ai sensi dell’articolo 437 del codice penale di “partecipazione alla guerra aggressiva”. Poiché i tribunali al momento non funzionano, il procuratore ha deciso di trattenerlo per 30 giorni senza processo. I dettagli del caso legale non sono noti, perché la SBU li comunica solo all’avvocato. La maggior parte degli avvocati si rifiuta di difenderlo, per non venire accusata di essere un “agente del nemico” o chiede un onorario di 3.000 dollari, una somma molto alta per l’Ucraina di oggi.

Lo stesso giorno a Dnepr altre 12 persone sono state arrestate con accuse simili. Il 4 marzo sono state arrestate 14 persone e il 5 marzo 11.

A Kiev, gli arresti sono iniziati ancora prima. Il 27 febbraio sono stati arrestati i fratelli Mikhail e Aleksandr Kononovich, leader della Gioventù Comunista Ucraina, etnicamente bielorussi. Non si sa dove siano e di cosa siano accusati. Tutte le comunicazioni con loro sono state interrotte.

Il 4 marzo è scomparso Vladimir Ivanov, un attivista di sinistra della città di Zaporozhie. Non si sa dove si trovi e il suo account Telegram contiene post che chiaramente non sono suoi.

Vengono arrestati oppositori politici, rappresentanti della Chiesa che hanno lottato per la pace in tutti questi anni e chiunque abbia opinioni critiche.

Il 4 marzo nella città di Lutsk l’SBU ha arrestato Oleg Smetanin, violinista della filarmonica regionale Volyñ, accusandolo di aver passato alla Russia informazioni sull’aeroporto di Lutsk.

Il 7 marzo a Kiev sono stati arrestati il noto giornalista Dmitry Dzhanguirov, membro del partito “Novyi Sotcialism” (“Nuovo socialismo”), Vasily Volga, ex leader dell’Unione delle forze di sinistra, il giornalista Yury Dudkiny e lo scrittore Aleksandr Karevin, che ha scritto sulla sua pagina FB: “L’SBU è arrivato”. Sulla pagina Facebook di Dzhanguirov è comparso un video, in cui probabilmente sotto tortura dice cose che non affermerebbe mai. Non si sa dove si trovino e di cosa siano accusati. Non si sa nemmeno dove siano i difensori dei diritti umani del mondo.

Il 9 marzo, vicino alla città di Khmelnitsk, Oleg Pankartiev, assistente di un deputato del partito di opposizione “OPZZH (Piattaforma di opposizione per la vita)”, è stato arrestato e brutalmente picchiato ed è ancora detenuto dall’SBU.

Il 10 marzo a Kiev, Dmitry Skvortsov, un attivista per la pace della Chiesa ortodossa ucraina, è stato arrestato ed è riuscito solo a scrivere su internet che l’SBU era venuto a prenderlo. Lo stesso giorno, a Kiev, è stato arrestato il poeta settantenne Yan Taksiur, che nel suo programma sul canale youtube “Pervuy Kazatskuy”, denunciava la persecuzione politica della Chiesa ortodossa ucraina da parte del governo. Non si sa dove si trovino e di cosa siano accusati.

L’11 marzo è scomparso a Kharkov l’attivista di sinistra Spartak Golovachiov. L’ultima cosa che è riuscito a scrivere sui social media è stata: “Uomini armati in uniforme ucraina stanno sfondando la mia porta. Addio.” I combattimenti continuano, ma la maggior parte della città rimane sotto il controllo ucraino.

Sempre l’11 marzo a Odessa, l’SBU ha arrestato Elena Viacheslavova, la figlia di Mikhail Viacheslavov, bruciato vivo dai nazisti il 2 maggio 2014 nella Casa dei sindacati di Odessa.

Si sono perse le tracce anche di diversi membri dei partiti di sinistra “Novyi Sotcialism” (“Nuovo Socialismo”) e “Derzhava” (“Potere”). Hanno smesso di rispondere alle chiamate e sono scomparsi dalle reti. È possibile che si nascondano o che siano già detenuti.

Il 12 marzo l’SBU ha arrestato Elena Lysenko, la moglie del volontario di Donetsk Andrey Lysenko. Il 13 marzo è stata rilasciata, ma dopo essere stata costretta a registrare un video in cui calunniava il marito.

Il 13 marzo in un villaggio vicino a Odessa i nazionalisti hanno bruciato la casa di Dmitry Lazarev, un attivista di sinistra.

Il 15 marzo l’SBU ha arrestato e picchiato Artiom Khazan, un rappresentante del partito Shariy nella città di Alessandria della regione di Kirovograd. Il giorno dopo sui social network è apparso un video in cui Khazan calunniava il presidente del partito Anatoli Shariy. Non si sa dove si trovi attualmente Artiom Khazan.

Il 16 marzo nel villaggio di Tomashevka, nella regione di Kiev, un commando armato ha rapito Guennady Batenko, un prete della Chiesa ortodossa ucraina, che il giorno dopo è stato rilasciato dall’SBU.

Il 19 marzo nella città di Krivoi Rog i militari ucraini hanno arrestato a casa sua Yury Bobchenko, presidente del sindacato degli operai e minatori ucraini dell’azienda Arcelor Mittal Krivoi Rog, che appartiene a una multinazionale.

Queste notizie sono ancora incomplete. Nel mezzo della guerra e con il potere assoluto di molti gruppi armati nel paese, è assai difficile raccogliere informazioni e documentazioni su tutti questi orrori. Non sappiamo se ci sono decine o addirittura centinaia di detenuti, ma è chiaro che con ogni nuovo giorno di guerra la repressione contro dissidenti, pacifisti e attivisti di sinistra continuerà a crescere. I media mostrano la loro solita, complice indifferenza. È necessaria una campagna urgente di solidarietà globale.

Violando la Costituzione, il 20 marzo il presidente Volodymyr Zelensky ha bandito tutti i partiti politici di sinistra e di opposizione:

– “Oppozitsion naya platform azazhizñ (Piattaforma dell’opposizione per la vita)”.

– Partiya Sharia (Partito Shariy)”.

– Nashi (I nostri)”.

– Oppozitsionny iblok (Blocco dell’opposizione)”.

– Levaya oppozitsia (Opposizione di sinistra)”.

– Soyuzlevykh sil (Unione delle forze della sinistra)”.

– Derzhava (Potere)”.

– Progressivanaya sotsialisticheskaya partiya Ukrainy (Partito socialista progressista dell’Ucraina)”.

– Sotsialisticheskaya partiya Ukrainy (Partito socialista dell’Ucraina)”.

– Partiya Sotsialisty (Partito dei socialisti)”.

– Blok Vladimira Saldo (Blocco Vladimir Saldo)”.

Il motivo ufficiale di questa proibizione riguarda i “contatti con la Federazione Russa”. Come se ci fosse qualcuno in Ucraina senza contatti in Russia!

Come parte della politica di guerra, il 20 marzo le medicine bielorusse sono state ufficialmente vietate. Il governo ucraino sta conducendo da anni una guerra contro i malati e i pensionati e ora sembra che stia finalmente per vincere…

Agli abitanti della regione di Kiev è stato vietato di andare nei boschi senza permessi speciali. Non è chiaro se il motivo sia impedirgli di combattere da soli contro i russi, di formare nuovi gruppi di guerriglia con un orientamento politico imprevedibile, di scappare dalle loro case per i bombardamenti e/o per evitare la coscrizione obbligatoria per andare a combattere per gli interessi della NATO.

Nel frattempo, sui social media ucraini stanno apparendo centinaia di video che mostrano in diverse parti del paese persone affamate e stressate intente a sfogare la loro rabbia e frustrazione su ladri, presunti tali o aspiranti tali di entrambi i sessi, legandoli a pali e alberi con i pantaloni abbassati. Al loro fianco si vedono bastoni come strumenti pronti per volenterosi carnefici. L’Ucraina, che solo poche settimane fa sembrava una Colombia d’Europa, ora con la guerra si sta trasformando rapidamente in un’Europa medievale.

da pressenza

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

USA: Poliziotto col ginocchio sul collo di una 12enne

Da osservatorio repressione

Una ragazzina, in jeans e felpa colorata, schiacciata a terra. Un agente la sovrasta, premendole schiena e collo per oltre 20 secondi, mentre la ammanetta.

E’ l’ennesimo episodio di brutale violenza da parte della polizia americana che rischiava di finire in tragedia come nel caso di George Floyd e tanti altri prima e dopo di lui. Questa volta la vittima, per fortuna sopravvissuta, è una ragazza afroamericana di 12 anni che si trovava nella mensa della sua scuola media, a Kenosha, in Wisconsin. Dal video ripreso dalle telecamere di sicurezza, si vede la studentessa che spintona un compagno, non si capisce se sia maschio o femmina perché indossa una felpa con un cappuccio e le immagini sono sfocate.

Una lite tra ragazzini ricreazione, come tante. Non per l’agente 37enne Shawn Guetschow, che decide di intervenire prima scaraventando lontano l’altro studente poi buttando a terra la ragazza. La immobilizza e inizia a premerle il ginocchio sul collo per “oltre 20 secondi”, come ha denunciato il suo avvocato. Quindi la solleva da terra con violenza, ammanettata, e la trascina via. L’agente non era in servizio per la polizia in quel momento ma stava lavorando part-time come guardia giurata della scuola media Lincoln, ruolo dal quale si è dimesso. Non ha invece ricevuto nessuna sospensione, per il momento, dalla polizia locale. L’episodio è l’ennesima dimostrazione che tra la polizia americana c’è un uso diffuso e spropositato della violenza, come mostra chiaramente il filmato.

Il poliziotto si lancia con una furia esagerata per sedare una lite tra ragazzini che sono la metà di lui. Il padre della ragazza, Jarel Perez, ha detto alla stampa che “sua figlia è molto traumatizzata e non vuole andare più a scuola”. L’avvocato della famiglia ha denunciato “la violenza crudele e spietata nei confronti di una ragazzina” e ha chiesto alla polizia di licenziare immediatamente l’agente. Il tema di una profonda riforma delle forze di polizia negli Stati Uniti era riemerso anche qualche giorno fa quando era venuto alla luce un altro caso inquietante.

Quello di Edward Bronstein, 38enne bianco fermato per un controllo dalla polizia in California a marzo del 2020 e morto soffocato dagli agenti che gli hanno premuto senza pietà le ginocchia sulla schiena mentre ripeteva ‘I can’t breath’. La stessa frase che due mesi dopo, a maggio dello stesso anno, pronunciò per l’ultima volta George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis e diventato il simbolo delle proteste del movimento ‘Black Lives Matter’ contro la brutalità degli agenti.

da Ansa