Polizia selvaggia a Torino.

È sabato pomeriggio. L’intero isolato che accoglie il vecchio stabilimento della Westinghouse è occupato dalle forze dell’ordine, le camionette sono schierate tra i viali e i controviali di corso Ferrucci e corso Vittorio Emanuele II. Non è inusuale vedere camionette e volanti in questa zona. Di fronte ha sede il tribunale di Torino, costantemente sorvegliato. Il lato opposto del corso, quello oggi blindato, affaccia sul giardino Artiglieri da Montagna. Da qui partono i bus a lunga percorrenza. Spesso vengono effettuati controlli a tappeto dei documenti a chi sosta prima della partenza. Solitamente le persone che incappano negli accertamenti sono straniere.

Qui si trova l’area della ex Westinghouse. Al posto dello stabilimento dismesso e del giardino si prevede ora di costruire un enorme centro congressi gestito da Fiera di Milano e un centro commerciale Esselunga. Un progetto di speculazione sognato da anni, finito in stallo numerose volte per questioni giudiziarie: l’ex sindaca Cinque Stelle Appendino è stata condannata insieme a membri del suo entourage e l’ex sindaco del Pd Fassino è tuttora indagato con altri suoi collaboratori. Il sindaco attuale, Lorusso (Pd), assessore all’urbanistica durante la giunta Fassino, è da sempre un sostenitore del progetto.

All’interno di quest’area si trova anche Comala, uno spazio polivalente gestito dall’associazione da cui prende il nome. Secondo i piani urbanistici, la costruzione del centro commerciale causerà la sparizione di Comala. Da qui è partita una campagna per salvare lo spazio e l’interesse per la questione è diventato trasversale. Istituzioni locali, vari partiti e personalità di spicco hanno speso parole di dialogo e ricerca di compromesso. Comala è un luogo di socialità, studio e iniziative molteplici e nel tempo è stato elogiato e appoggiato dal Comune, dall’Università e dall’Ente regionale per il diritto allo studio (Edisu). Comala, infatti, sopperisce alla mancanza di luoghi adatti allo studio in città e gestisce un’aula studio diffusa, finanziata dal Comune stesso e dall’Edisu. L’associazione è sostenuta da un corpo vario di cittadini e si trova in un quartiere che è una fortezza di voti per la giunta al governo. La nascita di un centro congressi e di un centro commerciale sembra dunque un pasticcio scomodo per gli amministratori al potere. Pare una grande storia d’amore tra terzo settore, amministrazione ed enti istituzionali e, come ogni relazione sentimentale, talvolta affronta delle crisi, o contraddizioni.

Da pochi mesi è nato EsseNon, un comitato eterogeneo e determinato a salvare l’area dalla speculazione edilizia. Il comitato ha organizzato per sabato pomeriggio una passeggiata nel quartiere. L’atmosfera nei giardini dove ci si ritrova è distesa: sono presenti associazioni, comitati di altri quartieri nati per contrastare progetti di cementificazione, attivisti e attiviste, residenti, famiglie e studenti. Ci sono vari capannelli di persone che chiacchierano, bambini che scorrazzano intorno ai gazebo all’esterno, mentre all’interno studenti e studentesse studiano in piena sessione d’esami. L’iniziativa è pensata per segnalare altri luoghi di speculazione tra Cit TurinCenisia e Borgo San Paolo, quartieri che confinano con questa zona. Intanto sulla strada è posizionata un Apecar che dovrebbe aprire il corteo. In disparte viene completato uno striscione a pochi metri dalla murga intenta a truccarsi e sistemare gli strumenti per accompagnare l’iniziativa con la musica.

Le intenzioni pacifiche, chiarissime anche ai più ingenui, non scoraggiano la Digos che fa intendere la volontà insindacabile di non far partire il corteo. Dicono, e lo dichiareranno a mezzo stampa, che il blocco è dovuto ai divieti di manifestazione in zona gialla. I celerini vengono schierati ai due ingressi del controviale dove sta l’Apecar, assicurandosi così di non farla partire mai. Circa trenta agenti blindano a distanza il mezzo, mentre i poliziotti in borghese si posizionano sul marciapiede e filmano ossessivamente ogni centimetro dell’isolato e dei volti di chi manifesta. La passeggiata parte con lo striscione e circa trecento persone che avanzano di sei metri prima di incontrare il cordone di polizia.

Da questo momento in poi la giornata prende una piega inaspettata, surreale e violenta. I caschi blu iniziano a manganellare le persone nelle prime file, mi volto verso l’ingresso dei giardini davanti al Comala e vedo gli sguardi allibiti dei presenti, tra questi bambini e giovanissime pre-adolescenti. I funzionari della Digos continuano a filmare i loro colleghi che aprono teste, tirano calci, insultano e colpiscono i manifestanti. Sono a volto scoperto e usano uno striscione di stoffa per fare loro del male. Questo primo quadro di abuso conta diversi contusi e due persone ferite alla testa.

Il corteo prova a raggiungere l’altra parte dei giardini rientrando nella strada interna per sbucare nel prato, ma viene intercettato dalla polizia che arriva sgommando a chiudere la strada. Ora il corteo viene spezzato in due e inizia una caccia all’uomo. Ripetutamente i celerini manganellano e spintonano via chiunque provi a opporsi. Gli agenti in borghese sembrano essere degli antropologi in osservazione e gli agenti, esaltati, agiscono in libertà, senza aspettare o ricevere ordini. Viene da pensare che oggi i “ragazzi” hanno carta bianca. Carta bianca per massacrare di botte una passeggiata di quartiere. L’umore dei presenti all’iniziativa è radicalmente cambiato: alcuni sono intimoriti, altri incazzati, molti increduli e quasi tutti determinati a non cedere di un millimetro al loro diritto di dissentire. Questa è la seconda immagine di un uso selvaggio del potere.

«L’Esselunga non la vogliamo!», «Via, via la polizia», e si continua. Pochi minuti dopo, mentre il corteo retrocede per ritornare all’ingresso principale e provare ad arrivare su corso Ferrucci, ci ritroviamo bloccati nella strada interna. Secondo una logica oscura di gestione dell’ordine pubblico, la polizia blocca trecento persone in una strada lunga dieci metri e larga cinque con nessuna via d’uscita. Il corteo non può partire per la zona gialla, secondo la questura, però si possono assembrare trecento persone in una strettoia. Sul lato sinistro abbiamo la recinzione del campo sportivo e sulla destra le inferriate che delimitano il giardino dell’associazione. Gli studenti che studiano escono dalle tensostrutture – era anche ora! – e osservano la scena salendo sulle panchine esterne, facendo filmati e urlando disgustati: «Basta!», «Vergogna!».

Chi sta nel corteo percepisce il livello altissimo di pericolo: manca il respiro, lo si ritrova appena aprendo i gomiti e probabilmente facendo male al vicino, perché siamo schiacciati dalla polizia. Gli agenti hanno sguardi fissi e dilatati accompagnati da sogghigni d’adrenalina che intravediamo sotto i caschi di coloro che si sono tolti la mascherina chirurgica. La carica arriva: per una, due, tre volte gli agenti colpiscono le persone sul viso, le spingono contro le recinzioni. Le prime file ammassate fortunatamente restano compatte e non si fanno prendere dalla paura di cadere e restare schiacciate. Questo terzo quadro è il ritratto di una mancata macelleria.

Sul momento non riesco a capire la situazione e le sue dinamiche, sono inquieta e incapace di leggere le prossime mosse della polizia. L’impasse pericolosa viene superata quando si riesce a forzare il cordone e si arriva finalmente su corso Ferrucci. Si percorrono questi venti metri scarsi come in una corsa a ostacoli, schiviamo gli agenti che ci vogliono prendere o menare. Si tenta in ogni modo di riprendere la strada per iniziare finalmente la passeggiata, ma il rancore dei poliziotti non sembra avere fine. Mentre si susseguono sequenze di caos, la mia mente si dissocia da quello che sta accadendo, per analizzarlo. Scorrono nella memoria le immagini delle cariche di piazza Santa Giulia, della critical mass, dello sgombero dell’Asilo di via Alessandria, delle cariche al Balon, dello sgombero di Corso Giulio. Lucide, insensate violenze poliziesche degli ultimi anni, ma nessuna si avvicina, nei modi e nelle strategie, a quello che sto vedendo oggi. Certo, penso, il marchio di fabbrica è lo stesso: cambiano questori, dirigenti e dichiarazioni, ma non lo stile. Eppure, c’è qualcosa di nuovo. Mi è cristallino: la carta bianca deriva dalla gestione eccezionale della pandemia.

Non mi capacito ancora del tutto, però, di questa scelta strategica perché, comunque vada, sarà un pantano da cui anche le forze dell’ordine e le istituzioni dovranno districarsi. Forse. Intanto la polizia ci insegue, prova a colpire chiunque abbia sotto tiro, tenta di spezzare il corteo più volte. Alcuni vengono bloccati agli angoli della strada e menati. Il corteo è un movimento oscillatorio: si avanza per prendersi la strada, si indietreggia per recuperare le persone incappate in agenti che si credono protagonisti di un videogioco. Intanto i residenti iniziano ad affacciarsi dalle finestre increduli anche loro. Ci ritroviamo chiusi nuovamente su via Moretta, all’angolo con via Dante di Nanni, strada nevralgica e vissuta di Borgo San Paolo e Cenisia. I passanti si fermano a guardare, sempre più persone sono affacciate dai balconi e parecchi sono in mezzo alla via perché prontamente chiusa al traffico. Qui la rabbia proterva dei blu tocca il suo apice.

Mentre una parte dei manifestanti sta di fronte al cordone di polizia, i caschi blu iniziano ad assalire le persone del corteo che stanno ai lati della via, all’altezza dei marciapiedi. Pestano forte, vogliono far male. Le persone vengono aggredite tra le vetrine, le macchine parcheggiate e i bidoni della spazzatura buttati giù. Ancora la Digos assiste immobile alla scena. Carta bianca, operazione distruggere. Mi guardo intorno e vedo una decina di persone ferite alla testa e sulle braccia, altre doloranti che si toccano il torace, la schiena o le gambe. C’è molto sangue per terra, sulle mascherine, sulle bustine di ghiaccio autoprodotte in fretta nei primi momenti di sfogo autoritario. In alcuni momenti ho pensato che potesse finire ancora peggio, ma abbiamo ancora voce, gambe e voglia di non stare a guardare. «L’Esselunga non la vogliamo!», «Tout le monde déteste la police». Vari interventi al megafono spiegano alle tante persone sgomente cosa succede in quartiere. È la prima volta, dopo due ore, che non ci caricano a ripetizione e finalmente possiamo fare quello che doveva essere in principio. Non sono riusciti nell’intento di distruggere, anzi.

Sul posto arriva un’ambulanza che medica le persone ferite più seriamente e invita chiunque voglia farsi controllare ad andare in pronto soccorso. Invito che gentilmente viene declinato: fiducia nelle istituzioni non l’ha più nessuno. La giornata si chiude con il ritorno al concentramento iniziale, in linea d’aria ci siamo spostati poco più di cinquecento metri. Il comitato che ha organizzato la passeggiata convoca una conferenza stampa per l’ora successiva. È necessario raccontare subito quello che è successo, non lasciare ad altri la narrazione facile dei “centri sociali” e delle “cariche di alleggerimento”. Bisogna raccontare come l’iniziativa di un comitato eterogeneo e con un buon seguito sia stata ostacolata con le botte.

Ora vorrei che nelle prossime settimane non si racconti solo della violenza della polizia favorita dallo stato di emergenza, ma che si rifletta anche sui timori della nuova giunta. Probabilmente il governo della città ha paura di chi ricorda che questo mostro di cemento e speculazione non è il primo in città e in questi quartieri: a pochi metri dall’area Westinghouse, per esempio, c’è l’area dell’ex Diatto dove sono appena iniziati i lavori per un’ampia residenza universitaria.

Le risposte istituzionali nei due giorni successivi sono state blande e insufficienti, eccetto una mosca bianca: Sara Diena, consigliera comunale, che ha chiesto con forza al questore le ragioni di tanta violenza. Alcuni governanti avanzano l’idea di modificare il piano per salvare il locale e l’aula studio, senza pretendere la completa cancellazione del progetto urbanistico. Altri sminuiscono la violenza cieca della polizia per ricordare che il corteo non era autorizzato e s’affrettano a precisare che il diritto di manifestare va garantito. Due giorni dopo le cariche, lunedì mattina, l’assessore alle politiche sociali – RosatelliSinistra Ecologista – davanti ai giornalisti critica l’eccessiva violenza poliziesca, sebbene i manifestanti abbiano adottato, afferma, «metodi discutibili»; infine esprime la sua fiducia verso il prefetto, il questore e le forze dell’ordine. Una passeggiata in quartiere è un “metodo discutibile”? La sinistra istituzionale, in un equilibrio ipocrita, tenta di sostenere le ragioni dei manifestanti, ma di fatto legittima la gestione violenta delle strade in nome dell’emergenza pandemica.

Il potere cammina in punta di piedi, e con imbarazzo, perché questo è un pasticciaccio. È necessario ora mettere in difficoltà l’attuale giunta che spesso discetta di città universitaria, ecologia e progetti d’opportunità, chiudendo gli occhi di fronte a evidenti speculazioni, abusi di potere, violenza e diseguaglianze. Anzi, il consumo di suolo, la cementificazione e la concessione di aree urbane a centri commerciali e ipermercati sono prassi consolidate per le forze ora al governo: Esselunga non è un’eccezione, ma la regola. Conosciamo l’altro volto della propaganda progressista, il volto reale: si è manifestato sabato pomeriggio. La pandemia dà carta bianca anche a noi: non vogliamo accettare in silenzio tutto questo e opporremo tutte le nostre forze, e i nostri corpi. (ilaria magariello)

Da napolimonitor

Abusi in divisa, parlano gli/le studenti del liceo Vico di Napoli

Il 13 gennaio il Liceo Vico aveva organizzato di fare un sit-in nel cortile di ingresso dell’istituto, decisione presa dalla maggioranza abbondante della scuola. Avevamo ripetuto più volte che si trattava di un’azione simbolica e mediatica, che non avrebbe impedito l’accesso alle lezioni. Appena arrivatx fuori all’edificio scolastico, abbiamo trovato una volante della polizia ad aspettarci all’interno con vari uomini tra poliziotti, vigilanti e digos.

Meno di dieci ragazzx hanno iniziato a sedersi distanziatx e con la mascherina, e uno studente ha iniziato un intervento al megafono. Immediatamente i poliziotti gli hanno strappato il megafono di mano e hanno minacciato di spaccarglielo in testa e di denunciarlo. Lo hanno costretto ad alzarsi e strattonato, afferrandolo dal cappuccio e portandolo verso la volante, continuando a minacciarlo di violenza. Nel frattempo, sono stati chiusi entrambi i cancelli circondandoli e impedendogli l’uscita e la preside è uscita in cortile.

Quando le abbiamo chiesto spiegazioni ci ha risposto che era stata informata di un’azione violenta da parte nostra e che questa era la conseguenza; ci ha redarguito sul rispettare le forze dell’ordine e, quando le abbiamo fatto notare che alle sue spalle uno studente era stato aggredito, ha specificato che non era sua competenza o responsabilità cosa facesse la polizia, che stava facendo il suo lavoro. Ma da quando usare il megafono è un reato? Da quando meritiamo di essere aggreditx per aver parlato?

Siamo statx costrettx a uscire dalla scuola e i cancelli sono stati chiusi con le catene. Alcuni uomini della polizia hanno cercato di parlare con noi, giustificandosi e dichiarando che “nelle rivoluzioni si mette in conto di far scorrere del sangue” e che “il ministero ha dato direttive di zero tolleranza in situazioni del genere”.

Successivamente sono rimasti dei poliziotti a presidiare l’ingresso, aprendo leggermente il cancello per far entrare unx studentx alla volta, come in un carcere, per poi richiuderlo con le catene. Siamo sconvoltx per ciò che è successo, soprattutto dopo che la dirigenza si era espressa favorevole alla protesta, ci sentiamo traditx da chi ci dovrebbe proteggere e invece ha aperto la strada alla violenza.

La protesta del sit-in, infatti, era esplicitamente non contro la scuola ma per le istituzioni, e proprio questo stava dicendo lo studente al megafono prima che intervenissero con la violenza. Nonostante tutto la lotta non finisce qui e non ci faremo fermare con la forza e con la paura: anzi. Dopo questi abusi ci siamo riunitx in assemblea per elaborare tutto quello che era appena successo, per processare la nostra rabbia e per trasformarla in qualcosa di produttivo.

Questa storia ci dimostra ciò che ormai sappiamo da tempo: gli abusi in divisa sono sempre più frequenti e stanno iniziando ad entrare anche nelle scuole. Perché nelle scuole “sicure” i cancelli sono spalancati per la polizia ma chiusi per lx studentx in protesta.

Il collettivo del liceo GB Vico dì Napoli

Da Osservatorio repressione

L’assurda detenzione in Francia del no Tav Emilio Scalzo

Emilio Scalzo è stato raggiunto da un mandato di arresto europeo, utilizzato in genere per reati di estrema gravità, richiesto dalla procura francese. I giudici italiani hanno rigettato i ricorsi del suo avvocato contro il Mae

«Giuro che non ho le ansie o il magone e non sono spaventato, sono pronto anche a una sentenza assurda, lo metto in conto. Ma ciò non toglie che delle volte mi guardo intorno e con il sorriso mi chiedo che ci faccio io qua dentro». È la lettera di Emilio Scalzo – rinchiuso da oltre un mese nel carcere francese di d’Aix Luynes per un mandato europeo – inviata a Chiara Sasso, con la quale ha scritto il libro “A testa alta”, dedicato al percorso di vita di Scalzo stesso. È pescivendolo e atleta, capace di farsi carico dei problemi dei suoi otto fratelli ( alle prese con mille peripezie, tra carcere e droga), ma prima di tutto punto di riferimento del movimento No Tav.

Ma come mai si ritrova recluso nel carcere francese? Al 67enne Emilio Scalzo viene contestato, dal Tribunale francese di Gap, il reato di violenza aggravata nei confronti di un gendarme, avvenuta il 15 maggio 2021 a Monginevro, durante una manifestazione in solidarietà con i migranti, molti dei quali sono morti e continuano a morire nel tentativo disperato di attraversare la frontiera. Sulla base del mandato europeo, il 15 settembre 2021, Emilio è stato arrestato e trasferito nella Casa Circondariale Lo Russo e Cotugno di Torino. Il 16 settembre 2021, in sede di audizione, ha dichiarato di non prestare il proprio consenso alla consegna e di non rinunciare al principio di specialità.

In data 23 settembre 2021, la custodia in carcere è stata sostituita con gli arresti domiciliari. Ma in un mese sono state avviate le procedure. Il primo dicembre gli agenti della Digos sono andati a prelevarlo nella sua abitazione di Bussoleno, in val di Susa. In quell’occasione si è svolto un comizio di solidarietà «per denunciare la vergognosa operazione e per stare a fianco a lui e alla sua famiglia», avevano fatto sapere dal Movimento No Tav. Fra i partecipanti anche Michele Rech, meglio conosciuto come Zerocalcare: «Per lui c’è un mandato d’arresto per una cosa di cui tutti si riempiono la bocca, cioè la solidarietà con i migranti al confine», ha detto il celebre fumettista, aggiungendo: «Emilio questa cosa l’ha praticata, da sempre».

Dal tre dicembre è recluso nel carcere francese. Eppure Scalzo nega di aver posto in essere l’azione che gli viene contestata. Afferma, e ritiene di poter provare, che si è semplicemente difeso dal tentativo dell’agente di colpirlo violentemente con il manganello, alzando un pezzo di legno raccolto a terra per ripararsi. Il gendarme si è fratturato il braccio, probabilmente perché aveva colpito il pezzo di legno. Ribadiamo che l’attivista è stato raggiunto da un mandato di arresto europeo (Mae), un procedimento diverso dall’estradizione. È una pratica squisitamente giudiziaria.

Nel caso di Scalzo, il mandato è stato richiesto dal Procuratore della Repubblica francese del Tribunale di Gap, sulla base di una misura cautelare. Il Mae è stato trasmesso alla Corte d’appello di Torino che, nonostante la motivata opposizione avanzata dal legale Danilo Ghia, ha ritenuto di applicare la custodia cautelare in carcere. In generale il Mae viene utilizzato per reati di estrema gravità. Ma questo non è il caso di Scalzo, al quale contestano il reato di violenza ai danni di un gendarme francese. Eppure, perfino la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal suo avvocato. Prima dell’arresto di dicembre, l’avvocato Ghia ha presentato ricorso prima alla Corte d’Appello di Torino e poi alla Corte di Cassazione per chiedere la corretta applicazione degli articoli 24 e 20 della legge 69/ 2005, che disciplina il Mae. In particolare, l’articolo 24 prevede la possibilità che il Mae venga rifiutato, nel caso in cui l’imputato abbia a suo carico un processo nel Paese di origine. Ma niente da fare, ricorso respinto.

Eppure Emilio Scalzo è sotto processo anche in Italia per l’occupazione della Casa Cantoniera di Oulx, comune dell’alta Val di Susa. Lo spazio era nato nel 2018 sotto il nome di “Chez JesOulx” dopo lo sgombero del sottoscala della chiesa di Claviere, al valico del Monginevro. Uno spazio che ha operato per tre anni, poi sgomberato, risultato fondamentale per l’assistenza dei migranti. In sostanza rispondeva a un bisogno di assistenza che la rete istituzionale composta dalla Croce Rossa e dal rifugio Fraternità Massi non riusciva a soddisfare. Ciò era reso ancora più evidente dal mutamento nella tipologia di persone che tentavano di attraversare il confine. Infatti dal 2020 la Val di Susa diventa un luogo di passaggio della cosiddetta “rotta balcanica”, ossia quel percorso di migrazione che vede l’arrivo in Europa attraverso i Balcani. Emilio Scalzo dovrà pagare anche per questo. Come ha scritto recentemente Luigi Manconi, «le sue colpe sembrano quelle che derivano inevitabilmente dal lottare contro i mulini a vento, che qui, tuttavia, corrispondono a poteri fortissimi e a politiche inique».

Da il Dubbio