Soccorso Rosso Proletario

Soccorso Rosso Proletario

I CPR UCCIDONO! Chiudere i CPR!

TESTIMONIANZE VIDEO E AUDIO DAL CPR DI GRADISCA

da Comitato Lavoratori Delle Campagne

Ieri mattina un’altra persona è morta dentro al CPR di Gradisca. Non sappiamo ancora il suo nome, è morta durante il periodo di quarantena che doveva fare una volta entrata nel CPR.

Nell’audio un prigioniero, che era anche lui in quarantena, racconta i tentativi di tenere nascosto l’accaduto da parte di chi gestisce questo luogo. Si parla di suicidio, e che sia stato così o meno poco importa: sappiamo bene che a uccidere questa persona sono stati il sistema delle frontiere e del controllo sulle vite, la violenza delle prigioni, il razzismo delle leggi sui documenti.

Tutti elementi che fanno parte della stessa macchina assassina, che continua ad ammazzare, ogni giorno, da un estremo all’altro dell’Europa, sotto gli occhi complici di chi non vuole vedere: due settimane fa, Abdel Latif, ventiseienne tunisino, è stato trovato morto legato al letto, all’Ospedale san Camillo di Roma, dopo essere stato prima su una nave quarantena e poi rinchiuso nel CPR di Ponte Galeria (Roma); lunedì una donna curda di 39 anni, Avin Irfan Zahir, è morta al confine tra Polonia e Bielorussia; ieri un uomo nigeriano è stato trovato morto a nord di Olchówka, in Polonia, poco dopo il confine. Solo per ricordare i casi più recenti.

Condividiamo alcuni video girati all’interno delle mura di Gradisca, che mostrano chiaramente quali siano le condizioni di detenzione all’interno di questi luoghi: in pieno inverno, manca l’acqua calda e manca il riscaldamento. I prigionieri accendono il fuoco con quello che hanno, per scaldarsi un po’ prima di dormire in celle in cui le finestre sono rotte. Si vede anche una deportazione verso la Nigeria avvenuta qualche giorno fa: più di cinque guardie portano via di peso una persona, nonostante i suoi tentativi di resistere, per obbligarla a lasciare l’Italia, perché non ha il giusto pezzo di carta.

Facciamo sentire alle persone rinchiuse la nostra solidarietà, continueremo a lottare al loro fianco per distruggere questi luoghi e abbattere questi circuiti di morte!

Non lasciamo sole le persone che resistono all’interno!

Libertà!

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=4944467508952668&id=904745212924938

Cpr di Torino: 5 o 6 tentati suicidi al giorno. Chiudere tutti i lager per migranti!

Cpr, l’accusa dei periti dopo la morte di Moussa Balde: “Non c’era solo l’ospedaletto, gravi carenze in tutta la gestione sanitaria”

Il documento nelle mani dei magistrati che hanno aperto un’inchiesta dopo il suicidio del ragazzo africano

Gli avvocati dei migranti e le associazioni di giuristi che a lungo si sono occupate del Cpr, l’avevano già sostenuto a gran voce. Ma ora anche i consulenti della procura hanno stabilito quanto «inadeguata e carente» sia la gestione sanitaria delle persone trattenute in corso Brunelleschi in attesa di essere rimpatriate. L’anticipazione della loro perizia ricostruisce un quadro di gravi inadempienze e mancanze, che servirà alla pm Rossella Salvati e all’aggiunto Vincenzo Pacileo per tirare le fila dell’inchiesta che vede indagati il medico e il direttore della struttura, oltre ad alcuni poliziotti.
Il lungo elenco dei tentativi autolesionistici e anticonservativi è solo l’ultima parte di un capitolo amaro di questa struttura, finita nell’occhio del ciclone dopo il suicidio, il 23 maggio, di Moussa Balde, il migrante che era stato aggredito per strada a sprangate a Ventimiglia e che era stato portato al Cpr e messo in isolamento all’“ospedaletto”, una struttura fatiscente, con gabbie “pollaio”, senza possibilità di controllo dall’esterno delle condizioni di chi è recluso. Proprio sull’“ospedaletto” (ora chiuso per ristrutturazione) si sono soffermati i consulenti della procura, un pool di medici che deve valutare sia i trattamenti sanitari fisici e psicologici degli ospiti, sia se spazi e procedure fossero corretti.
L’anticipazione arrivata sul tavolo della procura racconta di una mancanza di organizzazione, un sistema mal concepito, ma anche di una «assenza di protocolli». L’ospedaletto non è un luogo adatto «per l’osservazione delle persone» che vengono messe lì per ragioni sanitarie (nel caso di Moussa Balde era per il sospetto di una dermatite) .
Il regolamento del Cpr prevede una stanza di osservazione, ma questa dovrebbe essere uno spazio attiguo a quello dove visitano medici e infermieri, non distante quasi cento metro da loro, dove nemmeno le grida e i lamenti degli ospiti possono venire udite da loro. Il controllo non può essere affidato alla ronda esterna dell’esercito: dovrebbe essere il personale sanitario a verificare la situazione di persona.
Ma manca personale e questa carenza è la prima lacuna lampante. Basti pensare, come aveva spiegato l’Asgi nel “libro nero” del Cpr, che per 180 reclusi, «c’è solo un infermiere per 24 ore e un medico è presente solo cinque ore al giorno».
Anche sul fronte psicologico, gli esperti incaricati dalla procura hanno messo in luce una serie di gravi carenze da protocollo. Nel libro nero si dava atto di un’assistenza di questo tipo garantita solo per 24 ore alla settimana. «Nei primi dieci mesi di pandemia nessun medico psichiatra ha fatto ingresso nel Cpr» denunciava l’Asgi. E alcuni mesi fa era stato trattenuto un uomo, con gravi problemi (un coprofago) che durante un’ispezione era stato trovato tremante e in condizioni drammatiche: non riusciva nemmeno a parlare.
Non stupisce gli inquirenti il fatto che le persone trattenute, che hanno affrontato spesso viaggi della speranza per fuggire dalla povertà e dalle guerre del proprio paese, mettano in atto gesti anticonservativi, sia come escamotage che come atti dimostrativi per evitare di rimanere lì e poi essere rimpatriati.
I tentativi di suicidio all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Torino, in atto dalla fine di settembre, sono un pretesto per uscire, per ottenere rapidamente il rilascio per motivi sanitari.  Negli ultimi due mesi 115 persone avrebbero cercato di togliersi la vita strofinandosi il collo con lenzuola di carta o ingerendo sorsate di bagno schiuma: dopo la visita medica, sono state tutte liberate. 
Ci sono 7 indagati: la direttrice della struttura, il medico e 5 agenti. Sotto accusa le carenze del centro, e l’assistenza sanitaria. «Quella di Moussa è una tragedia su cui non si discute e sarà la magistratura ad accertare i fatti. Al momento nel complesso di corso Brunelleschi ci sono una cinquantina di ospiti, ma i numeri oscillano ogni giorno. Il centro è l’anticamera delle espulsioni. Nel 2019 erano state espulse 430 persone, 50 nel 2020, 133 nel primi mesi del 2021.
Stando ai dati, i tentativi di suicidio sono 5 o 6 al giorno.

Spagna: Pablo Hasél è stato assolto

Pablo Hasél era stato accusato e arrestato per reati di diffamazione con pubblicità, odio e coercizione.

Il Tribunale Penale numero nove di Siviglia ha assolto il rapper Pablo RD, musicalmente noto come Pablo Hasél , dai possibili reati di insulti con pubblicità, odio e coercizione per i quali è stato processato per i commenti che ha pubblicato sul suo account Twitter contro di lui Real Betis Balompié per il suo sostegno al calciatore Roman Zozulya , che l’indagato ha legato all’ideologia nazista, considerando che i commenti fatti in detti tweet devono ritenersi tutelati dal diritto alla libertà di espressione.

Il suddetto rapper è entrato in carcere lo scorso febbraio per scontare una condanna a nove mesi di reclusione per un delitto di glorificazione del terrorismo, insulti e calunnie nei confronti della monarchia e delle forze e degli organi di sicurezza dello Stato, per aver diffuso messaggi minacciosi sui social network.

Nel processo svoltosi a Siviglia contro di lui, la Procura ha chiesto l’assoluzione dell’imputato, mentre la pubblica accusa esercitata dal Real Betis ha chiesto due anni e mezzo di reclusione e il pagamento di una multa di 5.400 euro per un crimine d’odio; 6.000 euro di multa per il reato di insulti con pubblicità e 1.200 euro di multa per il reato di coercizione.

Nella sentenza, emessa dall’Ufficio Comunicazione TSJA, il giudice ritiene provato che, il 20 aprile 2017, il Real Betis ha citato in giudizio l’imputato. Ciò è avvenuto dopo la pubblicazione tramite il suo account sul social Twitter di una serie di commenti relativi al trasferimento al Rayo Vallecano del calciatore Zozulya, appartenente al Betis, dopo che i giocatori della prima squadra di quest’ultimo club sono comparsi insieme al tecnico squadra e ha rilasciato una dichiarazione a sostegno del calciatore e della sua famiglia.

Così, le liste del magistrato hanno detto commenti pubblicati dall’imputato il 2 e 3 febbraio 2017, così come sono «al personale Betis che difende i nazisti, se non fosse per il fatto che morirebbero anche piloti e assistenti di volo, vorrei come se il loro futuro aereo si schianterà “, o “spazzatura dei giocatori del Betis, parlando di linciaggio contro il giocatore nazista, il linciaggio è ciò che fanno i nazisti”.

L’8 febbraio 2017, e dopo che il Betis ha annunciato l’intenzione di sporgere denuncia contro gli indagati, ha pubblicato una serie di tweet in cui ha affermato ” in uno stato veramente democratico, la denuncia sarebbe andata contro il Betis per aver difeso un nazista, essendoci innumerevoli prove che è “,” @Realbetis le vittime dei nazisti ucraini non possono lamentarsi perché sono già morti “,” che continuano a ritrarre se stessi, perseguitando e criminalizzando quelli di noi che non tollerano il nazismo o i suoi difensori, ci aprono gli occhi a molti”, oppure “le bombe degli amici del giudice nazista, che lui finanzia e promuove, fanno questo. Scusa al terrorismo è difenderli“.

In relazione al delitto d’odio, il giudice espone i criteri giurisprudenziali esistenti al riguardo e conclude, d’intesa con la Procura della Repubblica e la difesa, che i fatti perseguiti ” mancano di entità sufficiente per essere incriminati come delitto d’odio ” . , «sebbene sia evidente che le osservazioni contenute nel resoconto fattuale siano riprovevoli, di cattivo gusto e non necessarie, il loro rimprovero penale non è possibile in quanto nel contesto in cui sono state pronunciate non hanno messo in pericolo i valori essenziali di coloro a chi erano diretti, come la sua vita, la sua integrità fisica o la sua libertà».

Il giudice ritiene, in tal senso, che, “sebbene le espressioni e i giudizi di valore espressi dall’imputato nei confronti del Real Betis e dei suoi giocatori possano non essere necessari per riflettere un’opinione o una critica e siano provocatori, dovrebbero essere considerati protetti dalla libertà di espressione in il contesto in cui sono state pronunciate, perché sebbene possano essere offensive, maleducate e anche offensive, non presentano gli elementi necessari per poter integrare la condotta nell’ambito tipico del reato di cui all’articolo 510 del codice penale”, ed è che tali espressioni,” Nonostante il loro contenuto, non erano oggettivamente atte a diffondere incitamento all’odio ai destinatari dei loro messaggi. “

Diritto alla libertà di espressione

“Alla stessa conclusione si deve giungere in relazione al presunto reato di ingiurie denunciate”, afferma il giudice, il quale aggiunge che, “sebbene la normativa penale conceda ampia tutela alla buona reputazione e all’onore del popolo, il riconoscimento costituzionale di la libertà di espressione ha profondamente modificato il modo di affrontare il perseguimento dei delitti contro l’onore nei casi in cui la condotta da ritenersi sia stata posta in essere nell’esercizio di detta libertà”, dunque, anche quando si ritenga che i commenti” dell’imputato “può descrivere un’immagine negativa del club e dei suoi giocatori, sarebbero tutelati nell’esercizio di detta libertà”, applicando le considerazioni fatte in merito a tale diritto in sede di reato di odio, estrapolabili anche a tale figura penale”.

In linea, il giudice rileva che, “a prescindere dal giudizio che si può avere circa la correttezza e la tempestività dei tweet pubblicati dall’imputato e il tono in essi utilizzato, si deve concludere che i requisiti legali e giurisprudenziali non soddisfano . di ritenere commesso nessuno dei reati contestati”.

Il magistrato afferma che il diritto alla libertà di espressione, «che certamente implica possibilità di critica, va esercitato, anche se purtroppo non sempre così, nel rispetto dell’altro e nella tolleranza per le idee altrui, senza dover ricorrere, come nel caso in esame, espressioni disgraziate e provocatorie , ma la verità è che non ogni eccesso verbale, né ogni messaggio che esuli dalla tutela costituzionale, per questo solo fatto, dovrebbero considerarsi costitutivi di reato, offrendo in ogni caso la nostra sistema altre forme di riparazione di tali eccessi che non passano necessariamente per l’incriminazione penale”.

Infine, e in relazione al reato di coercizione, il giudice precisa che in questo caso « la concomitanza degli elementi propri» di detto reato non è individuata nella condotta descritta nella denuncia, poiché « elementi quali l’uso della violenza o intimidazione, fermo restando che la condotta svolta dall’imputato sia stata molesta o addirittura molesta per i denuncianti, non è provato l’elemento di violenza intimidatoria proiettata direttamente su di loro per costringerli ad adottare un determinato comportamento, e non vi è evidenza che , Dopo il comunicato rilasciato con il team tecnico il 2 febbraio 2017, i giocatori hanno visto la loro libertà limitata al riguardo e gli è stato impedito di fare altre dichiarazioni pubbliche a sostegno del loro compagno di squadra”.

«Non si può comprendere che il comportamento dell’imputato raggiunga la gravità che implica la sua qualificazione come reato ai sensi dell’articolo 172 del codice penale, che non può essere apprezzata dal solo turbamento dell’umore», poiché «è richiesta una condotta di sufficiente intensità e una chiara restrizione del diritto alla libertà di azione della vittima, che non concorre, per cui l’inclusione dei fatti dichiarati nel reato di coercizione comporterebbe un eccesso nell’applicazione della norma penale”, conclude il magistrato, che per tutti Quanto precede assolve l’ imputato dai reati di diffamazione con pubblicità, odio e coercizione attribuitigli dall’accusa mossa dal Real Betis.

da publico

APPELLO ALL’ AZIONE AL FIANCO DI CHI RESISTE IN LIBIA.

APPELLO ALL’ AZIONE AL FIANCO DI CHI RESISTE IN LIBIA
Dal 1° ottobre più di 300 donne e diverse migliaia di uomini stanno resistendo in un presidio permanente davanti alla sede dell’UNHCR di Tripoli.
Alcune evase ai lager libici, altre sfuggite alla cattura, hanno deciso di non nascondersi più: la speranza di una salvezza individuale da quell’inferno ha lasciato il posto alla “lotta collettiva fino alla morte”.
la loro richiesta è l’evacuazione immediata della Libia verso paesi sicuri per tutte, senza distinzioni di status migratorio.
Le autorità italiane, l’UE e lo stesso UNHCR, oltre che voltarsi dall’altra parte, lavorano incessantamente per aggravare la loro posizione: se da un lato lo stato italiano e l’UE hanno aumentato ulteriormente i finanziamenti agli aguzzini libici, che in questo presidio hanno assassinato diverse decine di persone, dall’altro l’UNHCR ne ha chiesto per ben due volte lo sgombero immediato.
Cosa abbiamo fatto noi in questi 60 giorni per sostenere questa coraggiosa resistenza?
In che modo abbiamo deciso di sottrarci, o meno, alla complicità con queste istituzioni assassine?
Sentiamo l’urgenza di mettere in campo al più presto azioni concrete e determinate di pressione e solidarietà attiva con questa lotta, che riguarda chiunque aspiri alla libertà.
Nelle prossime settimane… stateve accuort!

EVACUAZIONE IMMEDIATA DELLA LIBIA.
BASTA FINANZIAMENTI AI LAGER!
FREEDOM, HURRIYA, LIBERTA’

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RIFUGIATƏ IN LIBIA: MANIFESTO POLITICO

Siamo persone rifugiate che vivono in Libia.
Veniamo dal Sud Sudan, Sierra Leone, Ciad, Uganda, Congo, Ruanda, Burundi, Somalia, Eritrea, Etiopia e Sudan. Stiamo fuggendo da guerre civili, persecuzioni, cambiamenti climatici e povertà tornando nei nostri paesi di origine. Siamo state tutte spinte da circostanze al di là della sopportazione umana.

Volevamo raggiungere l’Europa cercando una seconda possibilità per le nostre vite e siamo dunque arrivate in Libia. Qui siamo diventate la forza lavoro nascosta dell’economia libica: poniamo mattoni e costruiamo case libiche, ripariamo e laviamo auto libiche, coltiviamo e piantiamo frutta e verdura per i/le contadini/e libici/he e per le mense libiche, montiamo satelliti su tetti alti, schermi etc.
A quanto pare questo non basta alle autorità libiche. La nostra forza lavoro non è sufficiente. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità. Quello che abbiamo trovato al nostro arrivo è stato un incubo fatto di torture, stupri, estorsioni, detenzioni arbitrarie.
Abbiamo subito ogni possibile e inimmaginabile violazione dei diritti umani, non solo una volta.

Siamo state intercettate con la forza in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica – finanziata dalle autorità italiane ed europee – e poi riportate nelle carceri e nei disumani campi di concentramento. Alcune di noi hanno dovuto ripetere questo ciclo di umiliazione due, tre, cinque,
fino a dieci volte. Abbiamo cercato di alzare la voce e diffondere le nostre storie. Le abbiamo
raccontate a istituzioni, politici, giornalisti ma, a parte pochissimə interessatə, le nostre storie sono rimaste inascoltate.

Siamo state deliberatamente messe a tacere e abbiamo deciso di rompere questo silenzio.

Dal 1° ottobre 2021, il giorno in cui la polizia e le forze militari libiche sono venute nelle nostre case nel quartiere di Gargaresh e hanno compiuto repressioni spietate e raid di massa contro di noi, migliaia di persone sono state arbitrariamente arrestate e detenute in disumani campi di concentramento. Il giorno dopo, siamo venute come individualità e ci siamo riunite presso la sede dell’UNHCR. Qui abbiamo capito che non avevamo altra scelta che iniziare ad organizzarci. Abbiamo alzato la nostra voce e quella dellə rifugiatə che sono statə costantemente messə a tacere.
Non possiamo continuare a restare silenti mentre nessuno difende noi e le nostre vite . Ora siamo qui per rivendicare i nostri diritti e cercare protezione in paesi sicuri.

Perciò ora chiediamo con fermezza con le nostre voci:

Evacuazioni verso terre sicure dove i nostri diritti possano essere tutelati e rispettati.
Giustizia e uguaglianza tra rifugiatə e richiedenti asilo registratə presso l’UNHCR in Libia.
L’abolizione dei finanziamenti alle guardie costiere libiche che hanno, costantemente e violentemente, intercettato le persone in fuga dall’inferno libico e le hanno portate in Libia dove sono vittime di ogni tipo di atrocità.
La chiusura di tutti i centri di detenzione in Libia, che sono interamente finanziati dalle autorità italiane ed europee.
Che le autorità consegnino alla giustizia i/le colpevoli che hanno sparato e ucciso i nostri fratelli e le nostre sorelle sia dentro che fuori dai centri di detenzione.
Che le autorità libiche interrompano la detenzione arbitraria di persone presso l’ufficio dell’UNHCR.
Forzare la Libia a firmare e ratificare la costituzione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui/lle rifugiati/e.
FREEDOM, HURRIYA, LIBERTÀ!

Fonte: https://www.passamontagna.info

Arrestato Turi Vaccaro, pacifista no muos

Nel pomeriggio di giovedì 2 dicembre Turi Vaccaro è stato arrestato dalla polizia ferroviaria di Firenze.

Dicono che deve scontare un residuo di pena di 5 mesi più altri due mesi di arresto. Turi è stato trasferito presso il carcere di Sollicciano.

Nei confronti di Turi, pacifista integrale e conseguente, è in atto un vero e proprio accanimento; la persecuzione nei suoi confronti è in atto in ogni parte d’Italia. Oltre tutto Turi è malato ed è reduce da un ricovero ospedaliero in Sicilia da cui è uscito molto provato.

Il Movimento NO MUOS esprime tutta la massima solidarietà al compagno e invita i movimenti e gli attivisti contro la guerra e contro le sopraffazioni del capitale a chiedere e lottare per la sua liberazione immediata.

Contro la repressione la solidarietà è un’arma. Turi libero, Emilio libero, tutti e tutte liberi Movimento NO MUOS

 

da nomuos

Emilio è stato estradato. Lo salutiamo con affetto e con la promessa che noi, come lui, non ci arrendiamo, perché siamo nel giusto. Srp

Emilio Scalzoquesta mattina è stato estradato in Francia dove, già oggi, avrà la prima udienza nella quale verrà stabilito se dovrà rimanere in carcere oppure se potrà accedere alle misure alternative e quindi essere tradotto agli arresti domiciliari.

Salutiamo Emilio con la promessa che continueremo a sostenerlo, anche se a dividerci sono quelle stesse montagne sulle quali si è battuto per i diritti dei migranti, che ogni giorno rischiano la vita per abbracciare un futuro libero da guerre e miserie.

Lo vogliamo salutare con un video importante, che esprime in pieno il senso di chi è Emilio e di dove punti il suo sguardo, sempre verso i più deboli. Emilio che di dignità ne ha da regalare, a differenza di tutte le parole di cui si riempie la bocca l’intero mondo della politica, non solo italiana, ma anche europea.

Di seguito le parole di Luigi, condivise dal suo profilo:

“Nei giorni scorsi è arrivata la notizia che la cassazione ha confermato la richiesta di estradizione in Francia per Emilio, in relazione a un iniziativa sul confine tra Claviere e Monginevro. In questi giorni ho continuato a ripensarci su, accumulando una grande rabbia per quella che è l’ennesimo inaccettabile attacco contro la solidarietà messa in campo per sostenere i migranti in transito sul confine.

Ho continuato a pensarci.

Ho ricordato che Emilio è probabilmente la prima persona che ho incontrato e intervistato il primo giorno che sono arrivato a Bardonecchia.

Erano le 21:55 del 22 Dicembre 2017. Da quel giorno sono cambiate moltissime cose.

Eppure le parole di Emilio, nella loro splendida semplicità, restituiscono al meglio la fantastica persona che è, compagno generoso, sempre presente, che restituisce valore ad una parola troppe volte utilizzata con leggerezza come quella di “umanità”.

Non posso che chiudere queste 4 righe con le stesse parole di Emilio”: “Tanto noi non ci arrendiamo”.

 

Emilio libero! Libertà per i/le no tav! No all’estradizione!

 

da notav.info

1 minuto e 30 secondi di video, realizzato da Luigi D’Alife, che ringraziamo per questo scorcio di profondità immensa su Emilio

Video a https://youtu.be/idKA_A9yYxs

 

 

 

Inizia il 2 dicembre il maxiprocesso contro una 50na di antifascisti genovesi

Giovedì 2 dicembre inizierà il maxi-processo ad una cinquantina di antifascisti genovesi “colpevoli” di avere di fatto impedito il 23 maggio del 2019, il comizio elettorale di chiusura di Casa Pound per le elezioni europee.

Mercoledì 1 dicembre si è svolta una conferenza stampa di Genova Antifascista al Circolo dell’Autorità Portuale che è stata un occasione per fare la presentazione del dossier curato da GA – che alleghiamo qua sotto – ed il punto sulla vicenda giudiziaria.

Il giorno precedente si era concluso uno dei due “tronconi” del processo che ha visto 5 compagni assolti dal reato di travisamento, dopo il ricorso dei legali alla condanna di pagamento di un decreto penale di circa 9mila euro, ed invece è stata comminata una condanna di sei mesi ad un manifestante per il porto di oggetti atti ad offendere.

Si trattava di tubi “Geberit” usati come aste di bandiere che tra l’altro è stato accertato in ambito processuale il 23 maggio non vennero usati come strumenti di offesa.

Due compagne di Genova Antifascista hanno letto il comunicato – una sintesi della prima parte del dossier – e poi Bruno Rossi, storico militante portuale della città ha voluto testimoniare la sua solidarietà agli imputati, insieme a Danilo Oliva, ex dirigente sindacale e presidente del CAP.

Gli avvocati Laura Tartarini, Emmanuele Tambuscio e Alessandro Gorla, legali di alcuni imputati, hanno fatto poi il quadro di questo processo “a rotta di collo” – per citare le parole della Tartarini – che ha tempistiche difficilmente comprensibili: sono state fissate dieci udienze in meno di un mese per arrivare ad un verdetto prima di Natale.

Un fatto insolito, considerato che si tratta di un processo per fatti accaduti meno di tre anni fa ed i cui termini di prescrizione sono piuttosto lontani.

I legali hanno risposto alle numerose sollecitazione provenienti da chi era presente alla conferenza stampa.

Come normalmente avviene, Digos e Procura hanno “decontestualizzato” gli avvenimenti, concentrandosi su frames dei filmati girati che ritraggono gli imputati e fornendo il profilo di ognuno attraverso la ricostruzione arbitraria del “profilo militante” di tutti, oltre che i precedenti penali.

Un approccio che cercherà di essere “decostruito” nelle aule del tribunale, anche grazie all’uso della consulenza di Elia Rosati, studioso della galassia neo-fascista.

Alcuni imputati hanno più volte espresso la volontà di “prendere parola” durante il processo per dare conto delle ragioni che li ha portati a rimanere in piazza nonostante gli incessanti tentativi di sgomberarla già ben prima dell’inizio del comizio dei neo-fascisti.

L’ipotesi di reato che accomuna tutti gli imputati è la “resistenza aggravata”, una fattispecie di reato per la quale è prevista una pena molto elastica – da un minimo di 6 mesi ad un massimo di ben oltre i 10 anni di reclusione – più per alcuni imputati vengono contestati altri reati specifici.

In procedimenti simili nel capoluogo ligure, in casi di condanna, le pene comminate per “resistenza aggravata” andavano dagli 1 ai due anni, ma è chiaro che non è possibile trarre conclusioni sulla base dei precedenti, vista la particolarità che sembra assumere il profilo di questo processo.

A differenza di altri processi simili a Genova non sono stati ipotizzati i reati di minaccia e lesioni, anche perché l’imponente dispiegamento delle forze dell’ordine (circa 300) e l’accerchiamento dei manifestanti, oltre al fatto che – tranne i manifestanti – nessuno degli agenti si è fatto male, avrebbe indebolito ulteriormente l’impalcatura accusatoria.

Si è fatta quindi probabilmente una operazione più “chirurgica” selezionando alcuni imputati, e “scartandone” altri, – tendenzialmente i più noti alla DIGOS – sulla base dei profili e cercando di avere il più possibile una base solida per la “resistenza aggravata”, che a livello giuridico è un atto in cui si estrinseca una forza che contrasta in un qualche modo l’azione delle forze dell’ordine.

Può essere per esempio aver allontanato i gas lacrimogeni – i famigerati CS – lanciati copiosamente nel corso di tutto il pomeriggio, o resistito in qualche modo ad una carica.

Su questa serie di micro-comportamenti individuali, si è costruito l’impianto che ha portato a questo processo, una specie di contro-altare all’altro procedimento giudiziario – per cui s’attende l’appello – che ha portato a condanne lievissime (40 giorni) i quattro agenti del Reparto Mobile della Caserma di Bolzaneto, che hanno massacrato di botte il giornalista della Redazione genovese di “La Repubblica”, Stefano Origone, “scambiato” per un manifestante.

Come è scritto nella conclusione del Dossier e ribadito in Conferenza Stampa: “Le procedure giudiziarie a carico degli antifascisti perciò devono cadere, va aperta una riflessione sulle profonde responsabilità nella folle gestione di quella piazza in termini di ordine pubblico ed un dibattito franco sul processo politico che ha portato allo sdoganamento e alla di fatto “protezione” della libertà d’azione dei neo-fascisti nella nostra città. Legittimazione e ‘protezione’ che solo per un caso fortuito non hanno portato a tragiche conseguenze.”

Fino ad ora la giustizia è stata piuttosto clemente con gli episodi di violenza commessi dai neo-fascisti in città – tra cui una aggressione in due ad una militante comunista, un accoltellamento ad un antifascista, ed un pestaggio ad un cittadino straniero – e con la polizia. Anche sta volta verrà applicata la logica “due pesi, due misure”? Lo vedremo a conclusione del processo.

da contropiano