Archivio mensile:Dicembre 2021
Senza docce e celle troppo vecchie: i guai delle quattro carceri della provincia di Cuneo
Pavia, troppi disagi a Torre del Gallo. I detenuti allo sciopero del cibo
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TORTURATA, VIOLENTATA E INFINE “SUICIDATA”: IL CALVARIO DI UN’ALTRA PRIGIONIERA POLITICA CURDA
di Gianni Sartori —- Di Garibe Gezer mi ero occupato circa due mesi fa denunciando le ignobili sevizie a cui veniva sottoposta dai suoi carcerieri.
Torturatori e aguzzini che ora hanno completato l’opera di annientamento nei confronti di questa prigioniera politica rinchiusa nel carcere di massima sicurezza (di tipo F) di Kandira a Kocaeli.
Secondo la versione fornita dall’amministrazione carceraria, la giovane curda – arrestata a Mardin ancora nel 2016 – si sarebbe“suicidata”.
Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (TUHAY DER) e dell’HDP, si sono riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il corpo della giovane vittima. Hanno poi portato a spalla la bara scandendo slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo.
Nella tarda serata del 10 dicembre è stata sepolta a Kerbora, la città dove era nata 28 anni fa.
Ma la versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non ha convinto Eren Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo (IHD) si è chiesta come la detenuta abbia potuto suicidarsi visto che si trovava in isolamento (per una sanzione disciplinare), sotto lo sguardo perenne delle telecamere.
Nell’ottobre scorso, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento – il 15 marzo – dalla prigione di Kayseri in quella di Kandira dove in queste ore ha perso la vita. Il 24 maggio, agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella sua cella per picchiarla. Si leggeva nel rapporto che “mentre le guardiane le tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena.
I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti maschi”.
Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore su 24”.
E qui subiva “violenze sessuali da parte dei carcerieri”.
A causa delle violenze subite, secondo il rapporto di HDP, la prigioniera avrebbe cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata.
Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state censurate, altre mai spedite.
Nonostante le sue proteste e denunce degli abusi subiti in carcere fossero note da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata.
Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere all’autopsia.
Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre.
La sua famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione.
Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8 ottobre2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis. L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate (quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti.
Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati.
NESSUNA REPRESSIONE FERMERA’ LA NOSTRA LOTTA, LE IDEE NON SI SGOMBERANO! Oggi corteo a Giulianova
Il carcere, le accuse, le torture: tutto quello che Patrick Zaki non può raccontare
Lo studente egiziano è “libero”, ma deve ancora fronteggiare due accuse e rischia 17 anni di carcere. Per questo oggi non può parlare di quello che gli è accaduto in prigione. Ma c’è chi lo fa per lui
«La speranza fa rimanere in vita». Patrick Zaki è libero dopo 668 giorni di prigionia e si trova nel salotto della sua casa di infanzia a Massoura. Dopo l’annuncio della sua scarcerazione lo studente egiziano ha passato la sua prima giornata in libertà con la sorella Marise, la fidanzata Reny e i genitori George e Hala. E ha parlato con i giornalisti italiani raccontando le sue ultime 48 ore: «Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato e hanno cominciato a prendermi le impronte – dice al Corriere della Sera -. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi volessero scarcerare. Ma poi ho capito che c’era una speranza. E la speranza è la cosa che ti fa rimanere in vita quando ti tolgono la libertà».
Cosa succede se Zaki parla
Repubblica spiega oggi che il primo febbraio dovrà tornare in aula per rispondere all’accusa di diffusione di notizie false e dannose per lo Stato. Rischia una pena di cinque anni. In più c’è una seconda accusa sospesa, quella di associazione terroristica. In questo caso si rischiano fino a 12 anni. La speranza è che la seconda accusa cada e che per la prima venga comminata una pena pari o inferiore ai 22 mesi scontati nel carcere di Tora a sud del Cairo. In questo modo l’Egitto potrebbe salvare la faccia e Zaki potrebbe tornare in Italia. Ma affinché questo accada è necessario che l’accusato tenga un profilo basso e che le diplomazie lavorino sottotraccia come è accaduto finora. Per questo nelle interviste rilasciate oggi lo studente egiziano parla pochissimo delle accuse nei suoi confronti e di quello che gli è accaduto in carcere.
«Grazie. Grazie ai tutti gli italiani, ai partiti politici che hanno preso a cuore il mio caso. E prima di tutto, Bologna: grazie. Bologna è la mia città, la mia università, la mia alma mater. Tornerò il prima possibile, perché lì c’è la mia gente. Grazie a Amnesty International, a Riccardo Noury a tutto il suo gruppo», dice solo oggi. E aggiunge che con l’italiano se la cava ancora «non troppo bene. Dico solo qualche parola. Allora… Insomma… Parlo italiano così così. Prometto che dalla prossima settimana mi rimetterò a studiare perché quando torno voglio parlare bene». Però racconta che in carcere ha letto Dostoevskij, Saramago ed Elena Ferrante: «È bellissima – dice – la migliore letteratura italiana che ho mai letto. Non vedo l’ora di andare a Napoli, io adoro Napoli». Anche perché la sua bisnonna Adel veniva da quella città.
Le mani da stringere in Italia
Zaki sa che l’Italia si è adoperata per tirarlo fuori dal carcere: «Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di persone a cui dovrò stringere la mano». Anche Liliana Segre, che ha votato per dargli la cittadinanza italiana al Senato: «Mi ha riempito d’orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che ciò avvenga quanto prima». Patrick Zaki è stato arrestato il 7 febbraio del 2020, appena sceso dall’aereo che lo riportava in Egitto dall’Italia. L’accusa punta il dito su un articolo pubblicato nel 2019 in cui parla delle persecuzioni patite della minoranza dei cristiani copti nel suo Paese. Non si sa ancora se può lasciare l’Egitto.
La sua legale, Hoda Nasrallah, ha spiegato ieri all’Ansa: «Non possiamo conoscere se c’è un’interdizione a partire se prima non decide di viaggiare. Lo sapremo in aeroporto». Lui intanto ringrazia anche la professoressa Rita Monticelli, la sua mentore al master Gemma di Bologna: «Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto». Khaled Douad, giornalista e oppositore del regime di Al Sisi, è finito anche lui in carcere e lì ha incontrato Zaki. «Non stava bene ovviamente, chi starebbe bene lì dentro. Immaginate il vostro corpo perquisito regolarmente in ogni angolo e la rabbia di non poter esprimere la rabbia», dice oggi a La Stampa.
La prigione di Patrick
E ancora: «Lo immagino adesso coricarsi nel suo letto e lo ripenso in carcere: era meno fortunato di me, che, dividendo la cella con un paio di settantenni, avevo una branda di ferro su cui dormire. Lui e i suoi due compagni stendevano le coperte sul pavimento di 4 metri quadrati, un buco dentro cui c’era pure un piccolo bagno. Aveva però 2 ore d’aria e poteva leggere i giornali che a me erano preclusi. Diceva che lo aiutavano i libri, quelli che hanno salvato anche me. I testi politici sono proibiti nelle carceri egiziane ma i manuali di storia e i romanzi no, capita cosi di leggere Camus, Kafka, Arthur Miller. Basta che te li portino i famigliari, perché chi è in attesa di giudizio non può accedere alla biblioteca».
Carcere assassino, un altro detenuto suicidato dallo stato
Tragedia nel carcere di Ascoli, si toglie la vita un detenuto di origini calabresi
Un uomo di 45 anni, Roberto Franzè, residente nel Bresciano ma originario della Calabria si è ucciso oggi nel carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove era detenuto nella sezione “alta sicurezza”. Ha approfittato dell’assenza dei compagni di cella, usciti per l’ora d’aria, e si è impiccato alle sbarre, usando le lenzuola. Quando gli altri detenuti sono rientrati hanno dato l’allarme, ma gli agenti di polizia penitenziaria subito intervenuti non hanno potuto far nulla per salvargli la vita.
L’uomo stava scontando una condanna definitiva per reati legati alla criminalità organizzata, con fine pena prevista nel 2023. In passato aveva minacciato il suicidio.
L’uomo si è tolto la vita in carcere dopo aver più volte comunicato alla Procura di Brescia le proprie condizioni psicofisiche. «Non possiamo proprio dire che Franzè non abbia urlato quotidianamente di non farcela più. Aveva un’invalidità accertata. Il magistrato di sorveglianza competente è stato particolarmente sensibile nel cercare una soluzione. Per il resto è stato solo deserto e solitudine» commenta l’avvocato Gianbattista Scalvi che, con Anna Marinelli, difendeva Roberto Franzè.