“A settembre mio fratello ha iniziato a scrivermi lettere in cui diceva di stare male, fisicamente e moralmente. Lettere così non me ne aveva mai mandate. Di solito quando mi scriveva dal carcere diceva che non vedeva l’ora di uscire, di salutare mio marito e i miei figli… Adesso invece chiedeva aiuto: era entrato in carcere ad aprile che pesava 80 chili, quando è morto ne pesava 49…”. Natascia ha 35 anni e due anni fa, nel dicembre 2019, ha perso suo fratello Antonio Raddi, morto a 28 anni per una sepsi mentre era detenuto al Lorusso e Cutugno.
Oltre alla famiglia, anche la garante dei detenuti Monica Gallo già mesi prima aveva denunciato le condizioni in cui si trovava il giovane. Sulla vicenda la procura di Torino aveva aperto un fascicolo con quattro indagati per i quali poi ha chiesto l’archiviazione, ma ora la famiglia – assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore – ha fatto obiezione e ha chiesto di riaprire le indagini. “Chi sta in carcere ha sbagliato ed è giusto che sconti la sua pena: nessuno dice che deve uscire, ma non deve perdere il diritto di essere curato”, denuncia la donna.
Quando avete capito che suo fratello aveva gravi problemi di salute?
“Ad agosto ha iniziato a non mangiare e a deperire. I miei genitori hanno capito che qualcosa non andava e hanno iniziato ad andare più assiduamente alle visite. Prima magari andavano 2-3 volte al mese, poi hanno iniziato ad andare una volta a settimana o anche due. Lui chiedeva di aiutarlo e mio padre si è esposto, ha parlato con tante persone. Anche nelle lettere a me mio fratello diceva di andare a parlare con i magistrati di sorveglianza. Ma non è servito a nulla”.
Perché non si alimentava più?
“Dal carcere dicevano che il fatto di non mangiare era strumentale, che lo faceva per ottenere dei benefici e che la situazione era sotto controllo. Invece era proprio lui che non riusciva a ingoiare più niente perché stava male. L’ultima volta che i miei lo hanno visto era sulla sedia a rotelle perché non si reggeva più in piedi”.
Non lo stavano curando?
“Non ho mai visto una cartella clinica così scarna. E pensare che lì sopra dovrebbero segnare tutto. E comunque di qualcosa avrebbero dovuto accorgersi. Bastava vederlo per capire che stava male. Persino un agente della penitenziaria un giorno, facendo un rapporto, aveva scritto di lui che non stava bene e che doveva essere monitorato. Ma nessuno lo ha fatto. Quando l’ho visto poi in ospedale, in coma, ho sollevato il lenzuolo e ho visto le costole che spuntavano, la pelle sembrava coperta da ematomi, il volto scavato… Sembrava Stefano Cucchi, anche se le loro storie sono molto diverse”.
Non era mai stato ricoverato prima?
“A inizio dicembre una volta era stato portato al repartino delle Molinette, dopo che era collassato in cella. Era stato lui a chiedere di essere dimesso, questo è vero, però lo aveva chiesto perché lì diceva di stare peggio che in carcere: doveva stare legato al letto, senza neanche un’ora d’aria, senza potersi fumare una sigaretta, in mezzo ai malati psichiatrici. Ma non vuol dire che non volesse essere curato”.
E dopo le dimissioni?
“Continuava a stare male e infatti pochi giorni dopo lo hanno ricoverato d’urgenza al Maria Vittoria. Lì lo hanno sottoposto a molti esami, lo hanno visitato diversi specialisti e alla fine hanno scoperto che aveva una gravissima infezione da klebsiella, partita dai polmoni ma che oramai aveva intaccato tutti gli organi. E alla fine è morto per shock settico dopo 17 giorni di coma. Però i medici hanno detto che una persona non si riduce così da un giorno all’altro. Questo spiega anche perché non riusciva a mangiare: perché era malato. A malapena beveva un po’ d’acqua. Ed essendo così debole il suo sistema immunitario non è riuscito a combattere la malattia. E pensare che era un ragazzo di un metro e 80 di 28 anni…”.
Perché suo fratello era finito in carcere alle Vallette?
“Antonio stava scontando una pena in una comunità perché aveva avuto problemi con le droghe. Gli mancava un mese alla fine, ma lui non riusciva a stare in quel posto ed è andato via. Quando poi lo hanno fermato lo hanno portato alle Vallette e alla sua pena si è aggiunta l’evasione. Per quello era ancora in cella anche se in realtà lui aveva intrapreso un percorso con il Serd e non avrebbe dovuto essere in carcere. Mi dispiace che sia finito tutto così: quando eravamo piccoli, i miei genitori lavoravano e mi sono presa io cura di lui, lo accompagnavo a scuola, andavo a prenderlo”.
Cosa spera da una riapertura dell’inchiesta?
“Vorrei che chi lavora in carcere capisse che chi è detenuto non deve perdere il diritto a essere curato e assistito. Non si possono far morire le persone in carcere. Certe cose di come si sta in carcere io le ho sapute dai compagni di cella di mio fratello, quando sono usciti. Mai sapute prima perché certe cose i carcerati non le dicono… Mio fratello compreso”.
Era entrato in carcere che pesava 80 chili ma ne aveva persi 30 in sei mesi e nel dicembre 2019 improvvisamente era morto, a 28 anni, nonostante un ricovero d’urgenza, che però è risultato tardivo. Il caso di Antonio Raddi era stato segnalato dalla garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, e ora i familiari stanno provando a far riaprire il caso e nei prossimi giorni si discuterà davanti al giudice l’opposizione all’archiviazione.
La procura di Torino, infatti, aveva aperto un fascicolo per omicidio colposo con quattro indagati e aveva dato due consulenze tecniche per chiarire le cause del decesso dell’uomo, detenuto al Lorusso e Cutugno da aprile per rapine, maltrattamenti ed evasione, e anche le modalità con cui era stato curato in carcere.
Era entrato in carcere che pesava 80 chili ma ne aveva persi 30 in sei mesi e nel dicembre 2019 improvvisamente era morto, a 28 anni, nonostante un ricovero d’urgenza, che però è risultato tardivo. Il caso di Antonio Raddi era stato segnalato dalla garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, e ora i familiari stanno provando a far riaprire il caso e nei prossimi giorni si discuterà davanti al giudice l’opposizione all’archiviazione.
Era stato chiarito che la morte era avvenuta per sepsi provocata da una polmonite da klebsiella che era improvvisamente degenerata. Secondo i consulenti lo stato di salute era molto peggiorato nel corso della detenzione e c’erano perplessità anche sul tipo di assistenza medica che aveva ricevuto.
L’uomo, con un passato di tossicodipendenza alle spalle, aveva iniziato a soffrire di anoressia, ma secondo i familiari gli agenti della polizia penitenziaria non avevano mai creduto al suo malessere, ritenendolo che fosse strumentale ad avere qualche beneficio. Ma non erano solo i parenti a chiedere un intervento.
Anche la garante, che da mesi seguiva il caso aveva denunciato: “C’è un drammatico peggioramento dello stato fisico e psichico. Ha bisogno di supporto psicologico, sostiene di avere visto solo una volta la psichiatra”. E aggiunge: “Ha le sembianze di Stefano Cucchi”. A fine novembre su un rapporto si legge che il detenuto “non riesce più a ingerire né solidi né liquidi”, poi inizia a muoversi con la sedia a rotelle, infine il compagno di cella riferisce che vomitava sangue.
Tuttavia secondo la procura anche l’atteggiamento poco collaborativo del detenuto aveva avuto un ruolo nella gestione della sua salute dal momento che, pur desiderando le cure, non aveva accettato il ricovero nel repartino delle Molinette. E solo all’ultimo dal carcere era stato mandato in ospedale, dove però è arrivato in condizioni disperate.
Per questo alla fine il pm Vincenzo Pacileo aveva chiesto l’archiviazione del caso sostenendo che il quadro clinico si era aggravato in modo irreparabile solo nelle ultime ore di vita. Ma la famiglia del giovane si è opposta e vuole far riaprire le indagini.