Per la liberazione di Georges Abdallah manifestazione a Parigi il 19 giugno

Soccorso rosso proletario comunica la firma dell’appello e l’adesione alla manifestazione

Il suo impegno è portare in forma visibile in Italia in quella giornata questa battaglia in ogni ambito proletario e rivoluzionario

info e materiali srpitalia@gmail.com

LIBÉRER GEORGES ABDALLAH, NOTRE LUTTE, NOTRE COMBAT !

Manifestons, le 19 juin 2021, pour exiger sa libération !

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat ! Sa libération est notre détermination !

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat car du côté de l’opprimé et non de l’oppresseur ! De l’émancipation et de la liberté ! De l’insoumission et de l’insurrection ! De la révolte, de ce droit juste et légitime ! De la colère et de la dignité!

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat pour démasquer les systèmes d’exploitation, de domination -capitaliste, impérialiste, colonialiste- et leur barbarie.

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat pour un soutien indéfectible à la cause palestinienne et à la résistance sous toutes ses formes. Pour l’autodétermination du peuple palestinien ! Pour les Intifadas passées, actuelle et à venir ! Pour la libération des héros résistants captifs des geôles sionistes ! Pour le droit au retour de tous les « réfugiés » ! Contre la Normalisation et toutes les formes de liquidation, de tergiversations, de compromissions et de négociations ! Pour l’affirmation de la loi, dont la validité universelle est encore démontrée aujourd’hui par l’actualité, que seule la résistance peut contrer l’occupant, ses plans et unifier le peuple palestinien sur son projet historique de lutte de libération nationale.

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat, toujours deboutaux côtés des masses et des quartiers populaires pour leurs droits et nos acquis.

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat contreles injustices, les violences policières ! La répression et les régimes d’exception !

Georges Abdallah, notre lutte, notre combat résolument internationaliste et radicalement antifasciste car siamo tutti antifascisti !

Georges Abdallah,notre ligne indéfectible de ce qui est progressiste et révolutionnaire et de ce qui ne l’est pas !

Georges Abdallah, notre camarade ! Tes combats sont les nôtres ! Ta libération est notre détermination et notre engagement pour que cette 37ème année de détention que tu affrontes, fort de ta conscience, sans reniement et toujours résistance, soit enfin la dernière de « cette petite éternité qu’est la prison à vie ».

Que mille initiatives solidaires fleurissent partout pour exiger ta libération et pour que soit rappelée au plus haut sommet de l’Etat français cette impérieuse nécessité adressée au ministre de l’intérieur du « il faut qu’il signe ». Et en ce sens, nous lançons un appel à amplifier, coordonner et faire converger, en particulier, notre mobilisation :

– du 12 au 19 juin 2021, en France et partout dans le monde, pour une semaine d’actions nationales et internationales pour la libération de Georges Abdallah

– le samedi 19 juin 2021, pour la 5ème manifestation nationale et internationale organisée à Paris, à 14h30, afin de faire entendre massivement de la Place des Fêtes à la place de la République notre revendication impérieuse de voir enfin Georges Abdallah, notre camarade, libéré.

Lecheminement vers la libération et la liberté est long, plein d’embûches et de contradictions mais là encore s’il est une affirmation de notre camarade Georges Abdallah que nous faisons nôtre, c’est bien celle de l’impérieuse nécessité de la lutte et de la résistance, dans la diversité de nos expressions et la convergence de nos engagements pour que soit enfin traduite en acte, par le rapport de force établi, sa libération et parce que « c’est ensemble et seulement ensemble que nous vaincrons » pour « la victoire ou la victoire ! ».

ABDALLAH, ABDALLAH, TES CAMARADES SONT LÀ !

GEORGES ABDALLAH EST DE NOS LUTTES, NOUS SOMMES DE SON COMBAT !

LIBERTE POUR GEORGES ABDALLAH l

Paris, le 31 mai 2021

Campagne unitaire pour la libération de Georges Abdallah

Campagne.unitaire.gabdallah@gmail.com

Milano processo ai solidali con la resistenza palestinese contro sionismo israeliano e imperialismo

 presidio davanti al Tribunale lunedì 7 giugno 2021 alla ore 9.00

Lunedì 7 giugno alle ore 9.30 si terrà una nuova udienza del processo contro 4 compagni accusati di aver contestato la presenza delle bandiere sioniste alla manifestazione del 25 aprile 2018 a Milano. Contestazione messa in atto in appoggio alla Marcia per il Ritorno con cui in quel periodo i palestinesi rivendicavano il diritto a ritornare nelle loro terre e che grazie ai cecchini sionisti fu pagata con più di 180 uccisi, tra cui 44 bambini e 4 donne, e oltre 20 mila feriti.

Questa nuova udienza cade in un periodo in cui altre pagine di sangue sono scritte nella storia della Palestina. Ancora una volta l’eroico popolo palestinese sta mostrando la volontà di non soccombere e di reagire contro il razzismo sionista. Quella di questi giorni di maggio è una rivolta di tutto il popolo da Gerusalemme est, alla Cisgiordania, alla striscia di Gaza, ai palestinesi dei territori del ’48, formalmente cittadini israeliani, che per la prima volta sono scesi massicciamente in campo, prima con la rivolta di piazza e poi con lo sciopero generale totale. Si tratta di una rivolta che ha reagito all’accelerazione della pulizia etnica messa in atto dal regime colonialista con la caccia all’arabo, la deportazione delle famiglie palestinesi e l’assalto alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme est nel pieno di una funzione religiosa che vedeva la presenza di decine di migliaia di fedeli.

La reazione sionista alla rivolta palestinese ha mostrato ancora una volta il vero volto di questo colonialismo genocida con bombardamenti massicci, stragi di donne e bambini e distruzione delle condizioni di sopravvivenza della popolazione di Gaza. Oggi questo odioso colonialismo con il progetto della Grande Israele (dal Sinai a Golfo Persico) è perfettamente funzionale ai piani imperialisti degli Usa, e degli stati europei, di dominio e sfruttamento dei popoli dell’area mediorientale. Per questo le classi dirigenti occidentali, Usa e Germania in testa, sono tutte schierate in maniera compatta nel tentativo di rovesciare la storia riecheggiando la propaganda sionista tesa a far passare gli oppressori come vittime.
E non è da meno la classe dirigente del nostro paese che dal PD a Fratelli d’Italia, passando per la Lega e l’M5S, ha sposato in blocco questa aberrante mistificazione.

Dall’altra parte, dalla parte di chi si oppone e lotta, di fronte a questo massacro del popolo palestinese, un’onda di mobilitazione si è levata in tutto il mondo e anche in Italia. Manifestazioni che si sono svolte con grande partecipazione sia nelle città dei cosiddetti paesi avanzati che in quelle dei cosiddetti paesi in via di sviluppo.
Manifestazioni che esprimono chiaramente la solidarietà alla giusta causa del popolo palestinese e che hanno visto in prima fila la presenza significativa di ebrei (anche religiosi praticanti) antisionisti a chiara testimonianza che non si tratta di una “guerra di religione” ma di una guerra tra un popolo oppresso e i suoi oppressori colonialisti, fascisti e razzisti.

È una mobilitazione che mostra che c’è tanta gente che vede le cose per come sono e non si fa disarmare dalla propaganda pro sionista che impera nel sistema dei media occidentale. In tutte le piazze, e anche nella nostra città, abbiamo visto di migliaia di giovani immigrati di seconda e terza generazione, principalmente dal Medioriente, ma non solo, scendere in campo assieme ai solidali italiani per esprimere una forte presa di posizione contro i massacratori sionisti.

Questa mobilitazione ci riempie il cuore e ci rinfranca nella nella determinazione di rovesciare il processo intentato nei nostri confronti in processo al sionismo come forma particolare di colonialismo di insediamento, simile a quelle messe storicamente in atto contro gli indiani d’America, gli aborigeni australiani e i neri in Sud Africa.

Da questa mobilitazione traiamo nuova forza e determinazione per portare avanti questa linea processuale con l’idea che possa costituire un contributo allo sviluppo di un fronte antisionista, antimperialista e antirazzista nei nostri territori.

Invitiamo tutti, solidali e immigrati, a partecipare al presidio davanti al Tribunale di Milano lunedì 7 giugno 2021 alla ore 9.00

Contro il sionismo e l’imperialismo USA e UE!

Contro il ruolo dell’Italia in quanto complice dello Stato di Israele!

Solidarietà alla lotta del popolo palestinese e alla resistenza dei prigionieri palestinesi!

Sosteniamo i compagni sotto processo!

Abbattere il capitalismo!

Diffondiamo e rilanciamo l’appello, qui di seguito, dei 4 compagni imputati.

MORTE ALL’IMPERIALISMO
LIBERTÀ AI POPOLI!

PALESTINA LIBERA!

Tutti gli imputati

Canada – l’orrore dell’assimilazione forzata consentito dalla legge

«Uccidi l’indiano, salva l’uomo». I resti di 215 bambini trovati a Kamloops raccontano uno sterminio di Stato e di Chiesa. Tra 1863 e 1998, nelle Scuole residenziali cattoliche, l’orrore dell’assimilazione forzata e spesso letale consentito dalla legge

Da il Manifesto

«Uccidi l’indiano, salva l’uomo» è il motto razzista adottato dalle scuole canadesi in cui i bambini indigeni subivano un’assimilazione violenta e spesso letale. Qualche giorno fa, in una delle tante fosse comuni sparse per il Canada, presso la scuola di Kamloops, sono stati rinvenuti i resti di 215 bambini nativi e sembra che il vaso di Pandora di un genocidio troppo a lungo taciuto sia stato scoperchiato.

UNO STERMINIO METODICO, consumatosi tra il 1863 e il 1998 nelle Scuole residenziali cattoliche del Canada, dove vennero internati 150mila bambini nativi, strappati alle loro famiglie per mezzo di una serie di leggi razziali imposte dal governo canadese. Una vicenda nota dal 2008, tanto che l’11 giugno di quell’anno il primo ministro Stephen Harper chiese pubblicamente scusa per gli abusi inflitti alle popolazioni indigene.

Dei crimini avvenuti nelle scuole religiose, di cui oggi finalmente tutti danno notizia, il 4 aprile del 2010 il manifesto pubblicò un ampio reportage intitolato «Genocidio canadese», seguito dopo qualche mese da un’intervista a James Fox, allora ambasciatore canadese a Roma. Ma nonostante le evidenze quasi l’intero mondo mediatico snobbò persino una conferenza stampa organizzata in quegli anni, dove alcuni sopravvissuti nativi delle Residential School vennero a portare le loro dirette testimonianze.

Davanti alla residential school di Kamloops (Ap)

Ai tentativi di divulgare le notizie di quelle atrocità, oltre che un colpevole silenzio generale, seguirono per lo più reazioni che mettevano in dubbio o persino ridicolizzavano le denunce, derubricandole a esagerazioni giornalistiche o a invenzioni prive di fondamento.
Vale la pena ricordare che su 118 residential schools 79 erano cattoliche romane e dipendevano direttamente dalla Santa Sede, ma la tragedia delle violenze, delle sterilizzazioni, degli stupri e degli omicidi di bambini indigeni ha proporzioni terrificanti: persero la vita più del 40% degli internati, come riportava, nel 1907, la testata quotidiana Montreal Star. Insomma, un vero e proprio genocidio: con un numero stimato di almeno 50mila bambini deceduti in quei lager.

QUEL CHE POTREBBE RISULTARE strano è come sia stato possibile, per chi ha gestito quegli istituti religiosi, compiere misfatti di tali proporzioni senza che nessuno si sognasse di fermarli. Basta però approfondire molti aspetti del vecchio sistema legislativo canadese per avere le idee più chiare. Ad esempio, la Federal Indian Act del 1874, tutt’ora in vigore, ribadisce l’inferiorità legale e morale degli indigeni. E la Gradual Civilization Act, legge del 1857, obbligava le famiglie indigene a firmare un documento che trasferiva alle scuole residenziali i diritti di tutela dei loro figli. Se ci si rifiutava c’era l’arresto immediato oltre a sanzioni economiche. Ma il trasferimento legale dei diritti di tutela dei minori si trasformava anche in trasferimento dei beni dei bambini deceduti, così le scuole residenziali hanno lucrato su quelle morti, appropriandosi di terre che poi rivendevano soprattutto alle multinazionali del legname.

Infine, nella British Columbia, la Sterilization Law, approvata nel 1933 e tuttora in vigore, ha consentito sterilizzazioni di massa su interi gruppi di bambini indigeni; ancora oggi, molte donne indigene che si recano in ospedale per partorire restano vittime di strategie subdole e tornano a casa sterilizzate contro la loro volontà, come già denunciato da Amnesty International.

SE I GOVERNANTI CANADESI si sono messi la coscienza in pace con scuse pubbliche e una parvenza di risarcimenti stanziati per le famiglie delle vittime, i vertici Vaticani invece non hanno mai ammesse responsabilità, solo dispiacere per «qualche bimbo indigeno che ha sofferto».

Per non parlare delle responsabilità degli apparati militari, il cui coinvolgimento emergerebbe dai fascicoli riservati del tribunale dell’Ihraam (Associazione internazionale per i diritti umani delle minoranze americane), contenenti dichiarazioni di fonti confidenziali: «Una sorta di accordo sulla parola fu in vigore per molti anni: le chiese ci fornivano i bambini dalle scuole residenziali e noi incaricavamo la polizia di consegnarli a chiunque avesse bisogno di un’infornata di soggetti da esperimento: in genere medici, a volte elementi del Dipartimento della Difesa. I cattolici lo fecero ad alto livello nel Quebec, quando trasferirono in larga scala ragazzi dagli orfanotrofi ai manicomi. Lo scopo era il medesimo: sperimentazione. A quei tempi i settori militari e dell’Intelligence davano molte sovvenzioni: tutto quello che si doveva fare era fornire i soggetti. I funzionari ecclesiastici erano più che contenti di soddisfare quelle richieste. Non erano solo i presidi delle scuole residenziali a prendere tangenti da questo traffico: tutti ne approfittavano, e questo è il motivo per cui la cosa è andata avanti così a lungo; essa coinvolge proprio un sacco di alti papaveri».

SE DEGLI ORRENDI CRIMINI sono stati dunque commessi e persino ammessi, con tanto di pubbliche scuse, si presume che debbano esistere anche i criminali che li hanno compiuti. Risulta strano che costoro non vengano né identificati né perseguiti a norma di legge.

Libertà per i prigionieri e le prigioniere politiche palestinesi, stop all’occupazione nazi-sionista! SRP

Ruba, Shatha, Layan sono 3 studentesse universitarie di Bir Zeit, condannate dal “tribunale” israelo-sionista militare rispettivamente 21, 14 e 16 mesi di carcere per il loro attivismo studentesco, per silenziarle e ostacolarle nella lotta per i diritti del popolo palestinese.

Un anno fa più di 90 studentesse e studenti attiviste/i sono stat* arrestat* dal campus solo per aver protestato contro il sistema di apartheid dell’occupazione “israeliana”.

“Ai nostri colleghi, agli studenti palestinesi e a quelli di tutto il mondo, dal cuore delle prigioni sioniste. In occasione dell’8 marzo, aneliamo alla libertà, alla giustizia e all’uguaglianza per tutte le donne del mondo, comprese le studentesse, dentro e fuori le celle del carcere. La nostra battaglia è unita, poiché stiamo tutte combattendo l’oppressione sulla base del genere, combattendo lo sfruttamento di classe e il colonialismo fascista e, soprattutto, l’occupazione della nostra terra. Alle nostre colleghe universitarie, che sono in prima linea nella battaglia per il cambiamento, la nostra fiducia è nella vostra lotta e resistenza che illumina il cielo della nostra Patria e illumina la strada per la libertà. Per tutte le donne palestinesi, crediamo che la nostra lotta sociale sia una parte intrinseca della lotta del nostro popolo, e per la liberazione della terra e del popolo, sacrifichiamo, lottiamo e diamo vita a combattenti”. – Le prigioniere studentesche della Bir Zeit University, Layan Kayed, Elia Abu Hijleh, Ruba Assi, Shatha Tawil, prigione di Damon, Mount Carmel, 8 marzo 2021

In questo 8 marzo, l’umanità è stata esposta alla devastazione della pandemia da Coronavirus da un lato e al regime di tirannia, razzismo e colonialismo dall’altro. Mille saluti ad ogni voce che resiste all’ingiustizia e all’oppressione. Possano le donne rimanere in prima linea in questa resistenza e l’8 marzo diventare un simbolo di liberazione!” – Khalida Jarrar, leader palestinese incarcerata, femminista e sostenitrice dei diritti, prigione di Damon, Mount Carmel 7 marzo 2021

Attualmente ci sono circa 35 donne palestinesi nelle carceri israeliane, che rappresentano tutti gli aspetti della società palestinese: studentesse, attiviste, organizzatrici, parlamentari, giornaliste, operatrici sanitarie, madri, sorelle, figlie, zie, combattenti per la libertà.

Le donne palestinesi sono sempre state al centro del movimento di liberazione attraverso tutti gli aspetti della lotta e hanno guidato il movimento dei prigionieri, organizzando scioperi della fame e stando in prima linea nella lotta anche dietro le sbarre.

Le prigioniere palestinesi includono 11 madri, sei donne ferite e tre incarcerate senza accusa né processo in detenzione amministrativa.

Includono Khalida Jarrar, parlamentare palestinese, femminista, di sinistra e sostenitrice dei prigionieri politici palestinesi, condannata a due anni di prigione israeliana per le sue attività politiche pubbliche pochi giorni prima della Giornata internazionale della donna; Khitam Saafin, presidente dell’Unione dei comitati femminili palestinesi, incarcerata senza accuse né processo, la sua detenzione amministrativa è stata rinnovata per altri quattro mesi; Bushra al-Tawil, giornalista e attivista palestinese la cui detenzione senza accusa né processo è stata rinnovata per altri quattro mesi il 7 marzo 2021.

Includono studentesse palestinesi, come Layan Kayed, Elia Abu Hijleh, Ruba Assi e Shata Tawil della Bir Zeit University.

Le prigioniere palestinesi sono tra i 5.000 prigionieri politici totali, ma anche le donne palestinesi sono ampiamente colpite dall’incarcerazione di massa di uomini palestinesi. Le donne palestinesi sono le madri, le mogli, le figlie, le sorelle, le amanti e le amiche dei prigionieri uomini palestinesi.

Le donne palestinesi guidano il movimento fuori dal carcere per la solidarietà proletaria con tutti i prigionieri palestinesi che lottano per la liberazione. Tuttavia, troppo spesso, le storie, i nomi e le esperienze delle donne palestinesi imprigionate rimangono non menzionate e non evidenziate.

Dal 1948 e prima, dai primi giorni del movimento di liberazione nazionale palestinese, le donne palestinesi sono state espulse dalle loro case e prese di mira dalla repressione su più livelli, la loro stessa capacità di riprodursi e crescere i loro figli è definita una minaccia inaccettabile per il colono sionista e razzista. Solo dal 1967, circa 10.000 donne palestinesi sono state incarcerate dall’occupazione israeliana per la loro attività politica e il loro coinvolgimento nella resistenza palestinese, comprese le donne palestinesi a Gerusalemme, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e le donne palestinesi con cittadinanza israeliana nella Palestina occupata dal ’48. Alle donne palestinesi in esilio e in diaspora è stato negato il diritto di tornare in Palestina per oltre 72 anni, eppure continuano a lottare, affrontando repressione politica, criminalizzazione, deportazione e prigionia.

Le prigioniere palestinesi sono regolarmente sottoposte a tortura e maltrattamenti da parte delle forze di occupazione israeliane, dal momento in cui vengono detenute – spesso in violenti raid notturni – e durante tutto il processo di interrogatorio, inclusi pestaggi, insulti, minacce, perquisizioni corporee aggressive e molestie sessualmente esplicite. All’interno delle carceri israeliane, la politica ufficiale di “peggioramento delle condizioni” dei prigionieri palestinesi ha preso di mira in particolare le donne, negato visite con i familiari o persino telefonate, sottoposte a un’intensa sorveglianza che viola la loro privacy. Alle prigioniere palestinesi è negata l’istruzione e sono tenute in condizioni pericolose e malsane. Vengono trasportate nella “bosta”, un veicolo metallico dove le donne sono incatenate in un lungo e tortuoso viaggio che richiede ore in più rispetto a un percorso diretto e spesso viene loro negato l’accesso ai servizi igienici.

La prigione di Damon, una volta stalla per animali, si trova nella Palestina occupata del ’48, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e rende ancora più difficile la visita dei familiari delle donne palestinesi. Tutte le visite sono soggette a un regime di permessi arbitrario, spesso ostacolato dal regime di occupazione israeliano.

Nonostante la negazione dell’istruzione formale da parte del regime coloniale israeliano, le prigioniere palestinesi hanno sviluppato un’educazione rivoluzionaria per tutti i prigionieri, ampliando le loro conoscenze e il loro impegno nella lotta. Le prigioniere palestinesi non sono sole; lottano al fianco di altre prigioniere politiche nelle Filippine, in Turchia, in India, in Egitto e in tutto il mondo. E anche la loro prigionia è internazionale: è finanziata, sostenuta e sostenuta dal sostegno diplomatico, militare, economico e politico dato a Israele dalle potenze imperialiste, inclusi Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Unione Europea. Le donne palestinesi affrontano anche il ruolo del regime di “cooperazione per la sicurezza” dell’Autorità palestinese sotto Oslo e la politica di normalizzazione, gli attacchi repressivi dei regimi arabi reazionari. Nonostante tutti i tentativi del regime sionista di isolarle dal movimento globale per la liberazione delle donne e dell’umanità attraverso la prigionia e la repressione, le donne palestinesi continuano ad organizzarsi e a lottare da dietro le sbarre, nelle strade e nei campi della Palestina occupata, e ovunque in esilio in diaspora, alla ricerca del ritorno e della liberazione.

Oggi le donne e gli uomini palestinesi di Israele e dei Territori palestinesi occupati si sono sollevati di nuovo insieme, mentre le strade e le piazze di tutto il mondo si sono riempite di giovani manifestanti.

E’ giunta l’ora di mobilitarsi per la solidarietà con tutte le prigioniere e i prigionieri palestinesi, per la fine dell’occupazione e colonizzazione della Palestina, per l’autodeterminazione del popolo palestinese

Invitiamo tutte e tutti a partecipare e sostenere l’appello della comunità palestinese in Italia per una manifestazione a Roma sabato 5 giugno

 

sulla repressione antiproletaria importante assemblea nazionale del patto d’azione domenica 6 luglio

è in discussione la proposta di una manifestazione nazionale a roma per il 19 giugno

vedremo la decisione finale presa dall’assemblea

come sapete soccorso rosso proletario stà promuovendo un assemblea per quella stessa giornata per il pomeriggio del 19 a milano giornata internazionale di lotta per i prgionieri politici nel mondo

ci auguriamo una non contemporaneità di giornata in due città diverse

il 7 giugno esamineremo la questione e indicheremo quindi i due appuntamenti

soccorso rosso proletario

2 giugno 2021

 

Strage di Modena, un appello di mobilitazione contro l’archiviazione

C’è il rischio di un colpo di spugna sulla strage nel carcere di S. Anna di Modena

Lunedì 7 giugno, a poco più di un anno dalla rivolta e dalla strage, il tribunale di Modena sarà chiamato a decidere sulla interruzione delle indagini inerenti le cause di morte di ben otto sulle nove vittime di quella terribile giornata.
L’archiviazione è stata richiesta alla procura, proprio nel marzo appena trascorso, nonostante numerose incongruenze tra gli elementi di interrogazione.

Tre mesi fa il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, assieme alle PM Lucia De Santis e Francesca Graziano, ha chiesto di passare un bel colpo di spugna sulla peggiore strage carceraria della storia della Repubblica, e in particolare sulla fine di Chouchane Hafedh, Methani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur, Rouan Abdellha.
La procura di Modena ha motivato la richiesta di archiviazione addebitando i decessi “alle complicazioni respiratorie causate dall’assunzione massiccia di metadone, in qualche caso accelerato e aggravato dall’assunzione di altri farmaci o da specifiche condizioni personali”, ed escludendo per tutti  “l’incidenza concausale di altri fattori di carattere violento“.
La procura sostiene inoltre che “nell’immediatezza della rivolta risulta essere stata tempestivamente assicurata assistenza sanitaria a tutti i detenuti da parte del personale sanitario intervenuto…  Risultano essere stati fatti quindi, nel contesto emergenziale, pure gravati dall’emergenza legata al COVID-19, tutti i necessari controlli, con interventi terapeutici di contrasto in loco, ove possibile, o con invio ai presidi sanitari cittadini nei casi più gravi“.

Ma il  bilancio di nove morti non depone a favore di questa narrazione edulcorata, smentita ormai da numerose testimonianze.
Fra queste, i racconti delle donne che l’otto marzo 2020 sono accorse davanti ai cancelli del Sant’Anna, avvertite della rivolta dal fumo nero che si innalzava dal  tetto del carcere, visibile da gran parte della città.
Rimasero per ore nell’angoscia che i loro cari morissero bruciati, cogliendo dal piazzale frammenti di ciò che succedeva all’interno: le truppe antisommossa con i caschi insanguinati, le divise insanguinate, i manganelli insanguinati, e non si trattava di sangue loro.
Si vedevano soltanto ragazzi che uscivano con le magliette, con i pantaloncini, in mutande, pieni pieni di sangueÉ uscito un poliziotto con casco blu, non mi scordo mai …quando l’ho guardato quello lì era pienissimo di sangue.”
Presto vennero posizionati dei pullman che ostruirono la visuale dall’esterno, ma non potevano attutire le urla.
Un cellulare ha registrato le grida d’aiuto .
Sei ore di urla abbiamo sentito dalle 2 fino alle 8 di sera. Noi ci chiedevamo: come mai queste ambulanze non prendono i detenuti e li portano in ospedale ? All’improvviso, in tarda sera, abbiamo iniziato a vedere la prima macchina funebre“.

Oltre i cancelli, una macelleria messicana.

Io non c’entravo niente. Ho avuto paura… Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”.4

Io ero scappato sul tetto del carcere, così non mi sparassero, dopo ci hanno presi tutti e ci hanno messi in una camera e ci hanno tolto tutti i vestiti e hanno iniziato a picchiarci dandoci schiaffi e calci. Dopo ci hanno ridato i vestiti e ci hanno messo in fila e ci hanno picchiato ancora con il manganello, e in quel momento ho capito che ci stavano portando in un altro carcere. Da quante botte abbiamo preso che mi hanno mandato in una altro carcere senza le scarpe“.

Era lui [l’ispettore] che ha ci ha detto, voi che non c’entrate con la rivolta, a respirare, però uscite solo in campo. E ci hanno picchiato da morire, abbiamo preso così tante manganellate che anche i poliziotti diventavano col sangue. Eravamo 30, 40“.

Mi sono morte due persone davanti e non ho potuto fare niente, perché comunque la mia sezione è andata a fuoco, abbiamo rischiato di morire anche noi…. Vai a capire se è stato veramente per il metadone o sono state delle botte. Io ho visto della gente per terra con la testa schiacciata e con gli anfibi sulla testa, e loro che continuavano a picchiare“.

“Io l’ho preso in braccio [uno dei detenuti poi deceduto] perché stava in gravi condizioni. L’ho portato per aiutare a portare in ambulanza a quelli. A portare in ospedale. Ma appena l’ho portato giù io, l’ho visto con i miei occhi come lo picchiavano. Non volevano sapere che lui c’entrava o non c’entrava con la rivolta”.6

Dello stesso tenore il contenuto dell’esposto presentato in dicembre da cinque detenuti trasferiti, dopo la rivolta, dalla casa circondariale di Modena a quella di Marino del Tronto (AP), assieme a Salvatore Piscitelli, che vi ha trovato la morte.

Gli scriventi dichiarano di aver assistito ai metodi coercitivi e ad intervento messo in atto da parte degli agenti della polizia penitenziaria di Modena e successivamente di Bologna e Reggio Emilia intervenuti come supporto. Ossia l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo.
L’aver caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone.
Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e private delle scarpe, senza e sottolineiamo senza,  aver posto resistenza alcuna. Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate, un vero pestaggio di massa
“.

Si tratta della seconda denuncia formalizzata, fra tante altre rimaste anonime per paura,  che però verrà valutata solo nel procedimento  per la morte di Salvatore Piscitelli – causata da ulteriori violenze e mancato soccorso dopo il trasferimento a Marino del Tronto – e non in quello per gli altri otto.
Una scelta che la dice lunga sulla reale volontà di perseguire, se non proprio la giustizia, almeno la chiarezza sui fatti di Modena.
Eppure, l’esposto contiene  a tal fine elementi di sicuro interesse:

dopo esserci consegnati, esserci fatti ammanettare, essere stati privati delle scarpe ed essere stati picchiati, fummo fatti salire, contrariamente a quanto scritto in seguito dagli agenti, senza aver posto resistenza sui mezzi della polizia penitenziaria usando i manganelli. Picchiati durante il viaggio fummo condotti c/o  alla C.C di Ascoli Piceno“.

È un tema ricorrente nei racconti di altri trasferiti, quello delle violenze e della mancanza di visite mediche obbligatorie prima dei trasferimenti in base all’ordinamento penitenziario. Visite mediche che tra l’altro non risultano da nessuna certificazione scritta.
È un particolare, questo, non secondario, visto che quattro fra i morti di Modena (Ghazi Hadidi, Ouarrad Abdellah, Artur Iuzu , oltre a Salvatore Cuono Piscitelli) hanno reso l’anima durante il tragitto o dopo l’arrivo ad altro carcere.
Fra l’altro, non solo non c’è nessuna documentazione su questo “dettaglio”, ma nemmeno su quale fosse, durante la rivolta, la catena di comando. Non si sa per esempio chi ha deciso i trasferimenti, escludendo la direttrice del Sant’Anna che l’otto marzo era sparita di scena.
Sul mancato soccorso ci sarebbe qualcosa da dire anche sui detenuti morti all’interno delle mura del Sant’Anna, come per esempio su Hafedh Chouchane, del cui ritrovamento  esanime vi sono tre versioni ufficiali differenti, e che, stando agli atti, è stato visitato da un medico che ne ha constatato il decesso dopo ben 50 minuti dal momento in cui altri detenuti lo avevano consegnato alla penitenziaria.
Forse, 50 minuti prima, era ancora vivo.

Ultimo mistero, è quello della cassaforte che conteneva il metadone. Fonti carcerarie e sindacali avevano raccontato inizialmente che era stata forzata dai detenuti con una fresa prelevata nel magazzino degli attrezzi.
In realtà è perfettamente integra. È stata aperta con la chiave secondo una dinamica ignota e nemmeno particolarmente indagata.

Insomma, motivi per non insabbiare l’inchiesta ve ne sarebbero in abbondanza, se sulla bilancia della “giustizia” non si soppesassero da un lato le vite di detenuti, proletari e migranti, dall’altro l’impunità dello Stato e dei suoi apparati.

Con la coscienza che la verità storica non la scrivono i tribunali, schierarsi contro lo sfregio dell’archiviazione è un atto di rispetto dovuto a quei morti, torturati, umiliati.

LUNEDì 7 GIUGNO ALLE H. 11, PRESIDIO CONTRO L’ARCHIVIAZIONE
in Corso Canalgrande presso il Tribunale di Modena

Comitato di Verità e Giustizia per i Morti del Sant’Anna

Fonte: Carmilla