Bologna: cariche contro il corteo dei Riders

Anche a Bologna ieri sera i riders sono scesi per le vie del centro cittadino contro le misure imposte dal DPCM, che lascia centinaia di lavoratori ultraprecarizzati come i ciclofattorini senza alcun sostegno. Con loro, pezzi del movimento bolognese.

La rivendicazione è sempre quella: “Diritti, reddito, welfare e salute per tutti e per tutte’, c’è bisogno di una redistribuzione della ricchezza!”

Nel corso della manifestazione la rabbia si è accesa, e ci sono stati sanzionamenti alle vetrine del centro tra cui Gucci contro cui sono state uova e vernice.

La reazione delle forze dell ordine si è fatta subito sentire e per ripristinare l ordine e quella pace sociale tanto cara a Bonaccini ci sono state violente cariche contro i manifestanti e due fermi. Storia già sentita insomma, in cui Covid o non Covid, le dinamiche si ripetono tra chi rivendica più diritti e chi difende l’ordine costituito e gli interessi della città vetrina.

ll corteo è poi terminato in pzza 8 agosto, non senza pretendendere che i due compagni venissero rilasciati.
Una manifestazione che è stata condannata dal sindaco di Bologna e dalla Bologna bene, come prevedibile, ma che è stata invece rivendicata da Rider Union “é assurdo vedere vetrine con abiti che costano migliaia di euro e poi dover combattere per paghe più giuste per i ciclofattorini, che devono combattere per quel poco che prendono” dice il portavoce dei Riders bolognesi.

Il fuoco acceso a Napoli qualche settimana fa, è destinato a non spegnersi.

https://www.facebook.com/ridersunionbologna/videos/3411492275630791/

Da Contropiano

Presidio ieri anche davanti al carcere di Regina Coeli

In questa galera i detenuti hanno protestato a marzo e l’hanno fatto fino a questi giorni, siamo al loro fianco.
I contagi dilagano ovunque, l’unica sicurezza è la libertà.

Questa mattina un gruppo di solidali e parenti di detenuti, si è recato davanti al carcere di Regina Coeli per portare un saluto a chi è rinchiuso dentro, per continuare la protesta contro la situazione gravissima in cui versano le carceri ai tempi del covid, per ricordare le morti che hanno insanguinato e continuano a insanguinare le galere in questi mesi.

Una voce dalla piazza, dai microfoni di radio onda rossa

Modena: “Te Lo Ricordi L’8 Marzo… Al Carcere?”

Una boccata d’ossigeno, una bocccata per ricordare, una per divulgare e una per ragionare.

Questo sostanzialmente il senso dell’iniziativa “Dietro le sbarre: testimonianze e riflessioni sul carcere”, organizzato dal Consiglio Popolare in piazza Grande sabato 7 novembre, nel tentativo di spezzare pubblicamente il silenzio anossico calato in città attorno alla strage dell’8 marzo nel carcere di Sant’Anna. Detta in altro modo, interromepere l’indifferenza, quel girarsi sempre dall’altra parte anche di fronte a nove morti e di un’istituzione, quella del carcere, che si vorrebbe totalmente staccata dalla città e non una sua propaggine in tutto e per tutto.

Quello forse anche il senso dello striscione, “Te lo ricordi l’8 marzo… al carcere?”, attaccato davanti al Duomo, principale strumento per catturare l’attenzione dei passanti nel primo weekend di coprifuoco.

Ad aprire la lunga scaletta di interventi e di collegamenti telefonici è proprio il ricordo di quella giornata, di nove mesi fa, col fumo che saliva dal carcere e che tutti in città potevano vedere, con la conta dei morti che saliva di ora in ora, con le notizie fornite col contagocce e un silenzio delle istituzioni, Comune compreso, che durerà per più di 48 ore, col sindaco Muzzarelli, che invece di chiedere chiarezza su quanto stava succedendo, si preoccuperà immediatamente di far cancellare qualche scritta apparsa sui muri della città, cosicché la parola “strage” non turbasse troppo la tranquillità cittadina. Si ricorderà come il carcere fosse stipato, in quel momento così drammatico, con la paura dei contagi e i colloqui familiari sospesi, ben oltre la sua capacità massima così come, quella struttura, si sia ridotta sostanzialmente a una discarica sociale senza più alcuna velleità rieducativa nemmeno malcelata o a come, forse, se ne sarebbe parlato molto di più in città se il fumo delle fiamme, quel giorno, si fosse alzato dalla vera discarica della città, senza bare, senza elicotteri e senza guardie a circondarla.

Il secondo intervento è di William Frediani, autore, ex detenuto che ha raccolto la sua esperienza in un saggio sul carcere. Frediani parla dell’inutilità del carcere, di un’istituzione che fallisce ormai da tempo tutti gli obiettivi che essa stessa si prefigge, come il reinserimento o lo scopo rieducativo della pena, con la recidiva che colpisce più o meno intorno al 70% dei detenuti usciti dal carcere e solo il 15% di chi è posto ai domiciliari. Racconta del processo di infantilizzazione e di decostruzione dell’identità a cui è soggetto ogni detenuto, costretto a chiedere il permesso a una guardia per ogni cosa, dal farsi la barba al farsi la doccia o all’abuso di psicofarmaci somminstrati ai detenuti come il latte per i bambini.

Successivamente viene letta una lettera dal carcere di Torino di Dana Lauriola, attivista NoTav, condannata a due di reclusione solo per aver parlato al megafono durante una manifestazione, dopodiché ci si collega telefonicamente con la giornalista Manuela D’alessandro, di Agi – Agenzia Italia – la prima a pubblicare gli stralci delle lettere di due testimoni oculari di quanto avvenuto dentro al carcere di Modena e che viaggiarono insieme a Salvatore Piscitelli (uno dei 9 morti) durante il loro trasferimento ad Ascoli. Lettere (qua) nelle quali si parla apertamente di pestaggi e abusi da parte della polizia e che dopo la pubblicazione interesseranno anche la Procura di Modena che indaga sulla strage, la quale sentirà come testimoni le stesse giornaliste Manuela D’Alessandro e Lorenza Pleuteri. Purtroppo, come racconteranno alla piazza per via telefonica entrambe le giornaliste, col Covid l’inchiesta su quanto accadde quel tragico 8 marzo è sostanzialmente ferma e sarebbe importante trovare altre testimonianze dirette dei detenuti, cosa ovviamente non facile dato il clima di terrore e le immaginabili ripercussioni che si potrebbero abbattere sui testimoni.

Ma in piazza, grazie all’organizzazione del Consiglio Popolare e delle altre realtà che hanno partecipato a quest’iniziativa informativa, riesce ad arrivare anche la voce di un testimone oculare di quanto avvenne quel giorno. Sempre in collegamento telefonico un ex detenuto del carcere di Modena racconta di come la richiesta principale di quella giornata fosse una richiesta sanitaria: «Modena era per me un concentrato di violenza da parte dello Stato sulla pelle dei detenuti. Soltanto che a marzo è successo qualcosa che andava ben oltre. […]  La sanità era un punto fermo delle loro richieste, era uno dei messaggi della rivolta. Questo è un punto fondamentale da dire e da far comprendere alle persone, la sanità, e può essere che qualche detenuto abbia abusato di farmaci, non dico di no, ma è normale quando educhi le persone per anni a essere tossicodipendenti. Ovvio che cosa cerca una persona che sta male e che ha accesso a quegli stessi farmaci che gli danno ogni giorno, più volte al giorno senza problemi, come fossero biberon? Può essere, non dico no. Così come sappiamo che i carabinieri sono andati sul parapetto del carcere e hanno sparato, questa è la realtà dei fatti, e quando non so chi di preciso della polizia penitenziaria o dei carabinieri sono entrati dentro, il primo che hanno avuto per le mani lo hanno amazzato di botte davanti a tutti e hanno detto “Adesso vi facciamo questo”. C’è gente a cui sono arrivati i proiettili vicino alla testa e solo ed è solo per miracolo che non hanno preso il piombo in testa o in altre parti del corpo.»

In seguito parlano i compagni di Radio Onda Rossa che presentano il progetto, quasi ventennale, di Scarceranda e il gruppo Combattere il carcere che leggerà un’altra lettera di testimonianza giunta a metà ottobre (in foto).

In conclusione verso, le sei e mezza, quando la piazza ormai si va svuotando e il giorno lascia spazio alla sera parlerà, sempre in collegamento telefonico, Nicoletta Dosio, 73enne, professoressa di greco, uscita da poco dal carcere delle Valette di Torino e ancora ai domiciliari solo per aver osato difendere la propria valle dalla speculazione affaristica legata al Tav.

Al termine dell’iniziativa promossa dal Consiglio Popolare un gruppo di persone si recherà sotto il carcere di Modena per ricordare ciò che successe 9 mesi fa e non lasciare sole le persone ancora recluse.

Alleghiamo foto e comunicato del gruppo Combattere il carcere:

Combattere il carcere significa anche essere megafono delle grida che provengono dalle carceri ed è per questo che abbiamo partecipato ad una iniziativa informativa organizzata da “Consiglio popolare” in piazza Grande a Modena per leggere le testimonianze che ci sono arrivate da chi si è vissuto la rivolta ed il massacro che ha portato alla morte di nove prigionieri lo scorso marzo. Testimonianze che parlano chiaramente di carabinieri che sparano dalle mura di cinta per contenere i rivoltosi e di secondini che irrompono nella struttura uccidendo il primo detenuto che trovano davanti esibendone il cadavere a monito per gli altri prigionieri.
Combattere il carcere vuol dire anche non lasciare sole le persone recluse. Abbiamo quindi scelto di spostarci sotto le mura del carcere di Modena per portare un caloroso saluto a chi continua ad essere rinchiuso dalle stesse divise sporche di sangue, a chi è costretto a guardare negli occhi ogni mattina gli stessi aguzzini che hanno ucciso i propri compagni, per far sapere loro che c’è chi non ha mai creduto al fatto che quattordici detenuti possano morire di overdose lo stesso giorno in due carceri in rivolta diversi. Per rivendicare l’importanza di essere uniti in questo momento in cui ci vorrebbero distanti, l’importanza di scambiarci più informazioni possibili per rompere il silenzio che vorrebbero imporre con quelle maledette mura.

La Cassazione rinvia al Riesame il “terrorismo anarchico”

La Cassazione ha annullato con rinvio a un nuovo Riesame l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo contestata a quattro anarchici arrestati a giugno scorso a Roma. All’origine della decisione potrebbe esserci una carenza di motivazione come avevano sottolineato i difensori degli indagati nei loro ricorsi. Bisognerà aspettare almeno una ventina di giorni per conoscere i motivi della scelta operata dalla Suprema Corte. Nel frattempo gli indagati restano in carcere.

Gli avvocati della difesa avevano presentato ricorso contro gli arresti paventando che il costante richiamo alla vicinanza ideologica a una determinata area dell’anarchismo diventasse l’unico criterio alla base degli arresti. I legali ricordavano che proprio la Cassazione aveva nel recente passato fissato dei paletti ben precisi affinché non si perseguisse il fatto ma il “tipo di autore”. Si tratta della tendenza che è storicamente rappresentata nel concetto di “diritto penale del nemico”.

Del resto al centro dell’inchiesta c’erano una serie di manifestazioni sit-in volantinaggi contro il carcere come istituzione e per denunciare le condizioni di detenzione aggravate dall’emergenza Covid. C’era e c’è il rischio di criminalizzare un pubblico attivismo politico impostato su una critica radicale anche dura a istituzioni pubbliche.

Sempre la Cassazione ha chiuso almeno per il momento un’altra partita quella relativa all’inchiesta “sorella” di quella romana avviata dalla procura di Bologna rigettando il ricorso del pm Stefano Dambruoso contro le scarcerazioni di un gruppo di anarchici finiti in carcere a maggio e poi rimessi fuori dal Riesame. Per Dambruoso noto per essere finito sulla copertina della rivista Time come cacciatore di terroristi islamici si tratta di una sconfitta su tutta la linea.

Per quanto riguarda l’indagine romana la Cassazione dovrà esaminare il prossimo 16 dicembre il ricorso di un’altra indagata Francesca Cerrone arrestata in Spagna e poi estradata.

Non è stata ancora fissata invece l’udienza sempre davanti alla Suprema Corte per discutere il ricorso dell’avvocato Ettore Grenci per conto dell’indagato Nico Aurigemma al quale era stato negato il colloquio con i genitori e la sorella. Tra i motivi del no al colloquio spiccava il parere del pm relativo al fatto che Aurigemma si era avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia. Cioè era stato penalizzato e “punito” per aver esercitato un suo diritto

Di frank cimini, da giustiziami

CAS/CPR= il governo, con il min. Bonafede, è il responsabile del suicidio in carcere di Chaka Ouattara nel carcere di Treviso.

Il giovane immigrato era tenuto in isolamento in carcere come rappresaglia di Stato per essersi ribellato!

Suicida in carcere a soli 23 anni: era uno dei rivoltosi dell’ex caserma Serena
Nelle scorse ore il maliano Chaka Ouattara si è tolto la vita all’interno del carcere di Verona dove si trovava in isolamento. Era accusato di sequestro, saccheggio e devastazione

Sequestro, saccheggio e devastazione. Erano queste le accuse che ormai dal tempo pendevano sul 23enne maliano Chaka Ouattara, un immigrato che aveva partecipato alla rivolta (il servile giornalista lo aveva definito “uno dei facinorosi della violenta rivolta”, ndt) avvenuta lo scorso giugno all’interno dell’ex caserma Serena di Dosson. Ouattara, infatti, insieme ad altri migranti ospiti dell’hub aveva improvvisamente aggredito alcuni infermieri dell’Ulss 2 intenti ad effettuare i dovuti tamponi a coloro che si trovavano nella struttura, il tutto a causa del fatto che l’hub stesso si era ben presto trasformato in un importante focolaio Covid. (L’articolo-questurino dimentica di informare che la quarantena aggrava le condizioni di detenzione di 300 immigrati nel lager di Stato italiano).

Una volta arrestato il 23enne era subito stato portato in carcere a Santa Bona ma, come riporta “la Tribuna”, da una decina di giorni il giovane era stato spostato in isolamento all’interno del carcere di Verona.

Il ragazzo, però, ha subito sofferto molto questo allontanamento dalla Marca e dagli altri arrestati di giugno, tanto da chiamare persino il suo avvocato il giorno prima di togliersi la vita nella sua cella. A determinare questo ultimo ed estremo gesto anche, forse, la difficoltà di poter richiedere gli arresti domiciliari non avendo lui un luogo dove poter risiedere e scontare un’eventuale condanna. Così, probabilmente con i lacci della sua tuta, Chaka nelle scorse ore ha deciso di farla finita senza che inizialmente nessuno si sia accorto di nulla. Proprio questo aspetto preoccupa ora il legale del 23enne che chiede al Pm incaricato di andare a fondo nella vicenda, anche solo per capire come sia stato possibile un tale gesto visto che un detenuto isolato dovrebbe essere più controllato di un detenuto ordinario.