Da Napolimonitor, un articolo dell’Avv. Luigi Romano
Le dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, sulla presunta trattativa tra stato e mafia durante la rivolta al carcere di Salerno lo scorso 7 marzo, rappresentano un clamoroso tentativo – condiviso in queste settimane con alcune “correnti” vicine al mondo dell’antimafia – di riscrittura dei fatti che hanno riguardato le prigioni del paese durante i primi mesi dell’emergenza Coronavirus. La campagna mediatica ha coinvolto i principali quotidiani e periodici italiani, ma gli eventi andarono diversamente da come si prova ora a raccontarli. Appena ricevuta notizia della sollevazione, infatti, entrammo personalmente nel carcere di Fuorni insieme al Garante dei detenuti campano, per monitorare lo stato delle garanzie in quel frangente estremamente delicato. A differenza di quanto si è detto nei talkshow televisivi (sede attuale del dibattito sulla “questione penitenziaria”…) ci venne riferito che soltanto i detenuti comuni avevano preso parte alla sommossa, spaventati per la corsa inarrestabile dei contagi e per l’improvvisa interruzione dei colloqui con i familiari (notizia ricevuta dai telegiornali). Il famoso “papello” che secondo Di Matteo sarebbe prova della trattativa, conteneva la semplice richiesta di evitare trasferimenti punitivi. Quella notte invece, dopo l’intervento dei corpi antisommossa, furono trasferiti in tanti.
L’istituzione carceraria ha come caratteristica un tempo di assimilazione particolare rispetto alle trasformazioni del mondo esterno, dettata soprattutto da esigenze contenitive (come, quando, chi recludere). Mentre le nostre città si orientano verso la normalizzazione delle interazioni economiche e sociali seguendo prassi contraddittorie di “convivenza con il virus”, il carcere è ancora fermo alla Fase 2. L’ultima disciplina risale al decreto legge n. 29 del 10 maggio, e dispone il ripristino dei colloqui in presenza con i familiari a partire dal 18 maggio, attraverso ingressi in “forma contingentata” (due colloqui al mese) la cui gestione è affidata alle direzioni degli istituti, di concerto con le autorità sanitarie. Il processo di ristrutturazione dell’istituzione penitenziaria che in questi giorni ha portato alla nuova nomina di Petralia (altro pubblico ministero) alla guida del Dap, ha sicuramente influito sulla lentezza dei processi decisionali. All’inizio dell’estate i colloqui in presenza sono ancora pochissimi e la ripresa delle attività trattamentali è ancora lontana. Di fatto in carcere entra quasi esclusivamente il personale in divisa.
Nel frattempo, la chiusura delle indagini per la mattanza di Santa Maria Capua Vetere, con cinquantasette indagati tra gli agenti in servizio, ha provocato la scontata reazione dei sindacati autonomi di polizia penitenziaria: “Non siamo né picchiatori né torturatori, ma garantiamo la sicurezza nelle carceri italiane, e lo facciamo nell’esclusivo interesse dei cittadini”, è stata la flebile linea di difesa di sei sigle riunitesi compatte, assecondata dai partiti e dai gruppi parlamentari di destra. Continua a leggere