Carcere assassino! Già 22 detenuti suicidi nel 2020, l’ultimo a Rebibbia, in isolamento per Covid19

La rivolta nelle carceri è stata giusta e necessaria.

A causa dell’epidemia di Covid-19 sono morti ufficialmente quattro detenuti nelle carceri italiane. Il primo decesso, che ha riguardato l’uomo di 77 anni, Vincenzo Sucato, è avvenuto il primo aprile scorso all’interno del carcere di Bologna. Un altro decesso a causa della Covid-19, quello di Antonio Ribecco, invece, si è verificato il 10 aprile nel carcere di Voghera, mentre David Antonio Rivera Costa è morto dopo tre settimane di ricovero all’Ospedale San Paolo di Milano, trasferito lì dopo il contagio all’interno del carcere di San Vittore, dove era recluso per una serie di furti.
L’ avvocato dell’uomo, Massimiliano Migliara, all’indomani del decesso ha commentato sulla stampa così: «Spero che vicende come questa facciano riflettere chi in questi giorni ha scompostamente gridato all’indirizzo di magistrati seri che scarceravano detenuti comuni per gravi motivo di salute».
E ancora, il 7 maggio, Giovanni Marzoli, un detenuto di 67 anni si spegne a causa del virus all’interno del reparto Covid dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove era stato trasferito dal carcere bolognese della Dozza. Eppure, nonostante sessanta morti avvenuti nei penitenziari dall’inizio dell’anno, di cui un terzo classificati come suicidi dal Centro Studi Ristretti Orizzonti che in venti anni di attività ha calcolato (con i dati aggiornati allo scorso 14 maggio) 3.087 morti, di cui oltre 1100 suicidi; sebbene in solo giorno, lo scorso 7 marzo, ci siano stati 13 morti nel corso di eventi di protesta legati all’emergenza Covid-19 frettolosamente classificati come “rivolte”.

Suicidi- Nello stesso periodo erano stati 18 due anni fa e 16 l’anno scorso. Secondo l’ultimo bollettino del Garante nazionale delle persone private della libertà, sono 52.622 le persone recluse. Le detenzioni domiciliari concesse dal 18 marzo sono 3.555, di cui 1.005 con braccialetto elettronico.

Ma a questi numeri il Garante purtroppo ha dovuto affiancare quello dei 21 suicidi registrati dall’inizio dell’anno fino a oggi. In realtà, purtroppo, nel frattempo se n’è aggiunto un altro ed è relativo al suicidio avvenuto al carcere di Rebibbia sabato scorso.

Sempre secondo il Garante, il numero dei suicidi, per quanto può contare una valutazione parziale, è superiore a quello degli ultimi due anni (alla stessa data erano 16 nel 2019 e 18 nel 2018). Quello che colpisce dal bollettino è che in ben tre casi di suicidio si è trattato di persone che avevano appena fatto ingresso in Istituto e, conseguentemente, erano state collocate in isolamento sanitario precauzionale.

Proprio l’ultimo suicidio a Rebibbia riguarda un detenuto di 42 anni, le sue iniziali sono P.B. ed è stato ritrovato impiccato. Anche lui era in isolamento precauzionale. Non a caso il Garante nazionale, nei precedenti bollettini, considerando la situazione di particolare vulnerabilità delle persone che, facendo ingresso in carcere, vengono collocate in isolamento sanitario precauzionale, ha proposto l’ipotesi di dotare, almeno temporaneamente, gli Istituti di un’équipe di supporto psicologico, in maniera analoga a quanto si è già realizzato con l’inserimento di 1000 operatori socio-sanitari, reclutati con apposito urgente bando.

La problematica dei suicidi in carcere è stata ben evidenziata anche dall’ultimo rapporto di Antigone prendendo in esame l’anno 2019. Dei 53 suicidi, poco più di un terzo si è concentrato in otto istituti, 4 al nord (3 nella Casa Circondariale di Genova Marassi, 2 nella Casa di Reclusione di Vigevano, 2 nella Casa Circondariale di Torino e 2 nella Casa Circondariale di Milano San Vittore); un istituto al centro ovvero la Casa Circondariale di Perugia dove i suicidi sono stati 2; l’istituto di Cagliari in Sardegna con 2 suicidi e al due istituti al sud, la Casa Circondariale di Napoli Poggioreale dove i suicidi sono stati 3 e la pugliese Casa circondariale di Taranto.

Di questi otto istituti bene tre comparivano tra i primi dieci per suicidi anche nell’anno precedente: Napoli Poggioreale al primo posto con 4 suicidi, Cagliari e Taranto con 2. L’istituto campano è senza dubbio tra i più problematici d’Italia sotto numerosi aspetti, primo fra tutti la sua dimensione. Con una capienza regolamentare di 1635 detenuti, in realtà ne ha ospitati nel 2019 ben 2.267 di cui il 32% con condanna definitiva.

Interessante vedere in quali istituti c’è stata più incidenza di suicidi negli ultimi 10 anni. Ancora mantiene il numero assoluto più elevato l’istituto napoletano di Poggioreale con 22 suicidi; ma problematici appaiono i dati dei più piccoli istituti soprattutto di Cagliari con 16 suicidi con una media di presenti di più di 4 volte inferiore a quella di Poggioreale e Como, un istituto molto più piccolo con una capienza regolamentare media di circa 250 detenuti e un tasso di sovraffollamento medio del 184%. L’affollamento non solo riduce lo spazio fisico a disposizione di ciascun ristretto, ma riduce anche tante altre possibilità all’interno di un carcere.

Riduce l’accesso al lavoro, la possibilità di essere seguiti dagli educatori nel percorso di trattamento e, quello che senza dubbio qui più rileva, riduce anche l’accesso ai servizi per la salute mentale come le ore di servizio di psicologi e psichiatri ogni 100 detenuti. La media nei 98 istituti visitati da Antigone nel 2019 è di 7,4 ore a settimana ogni 100 detenuti per gli psichiatri e 11,8 ore a settimana per gli psicologi.

Giustizia per ADNAN

Oggi, alle ore 19,00 a Caltanissetta, in Corso Umberto I, si terrà un presidio per chiedere giustizia e verità sull’omicidio di Adnan Siddique, il giovane pakistano cittadino, nisseno, ucciso lo scorso 3 giugno perché si opponeva alla pratica mafiosa e schiavista del caporalato nelle campagne.

la manifestazione è indetta dalle  Comunità Pakistana e Afgana di Caltanissetta, assieme  ai mediatori culturali Gul Noor Senzai e Adnan Hanif, la Casa delle Culture e del Volontariato, le Associazioni Iside, MigrantiSolidali, “San Filippo Apostolo” e MO.V.I. (Movimento Volontariato Italiano).

Bologna – Nuova, gravissima intimidazione a lavoratrici e lavoratori attivisti delle maschere bianche

+++ ATTENZIONE: NUOVA GRAVISSIMA INTIMIDAZIONE! +++
Chi ha paura delle maschere bianche?
All’alba di questa mattina la polizia postale è piombata in casa di alcuni lavoratori che in questi mesi hanno sostenuto attivamente la battaglia contro i padroni di merda. Scopo dell’iniziativa è stato il blocco dei dispositivi tecnologici attraverso i quali abbiamo condiviso in rete le malefatte, lo sfruttamento e gli abusi dei PDM di Bologna. Ai lavoratori, dopo aver perquisito le loro abitazioni, la polizia ha sequestrato computer, cellulari e tablet affinché non possano comunicare! Oltre al chiaro tentativo intimidatorio, cioè di mettere il bavaglio alle verità che raccontano, i lavoratori sono stati così privati di strumenti che servono spesso anche per il loro lavoro, spesso precario e malpagato (uno di loro ad esempio fa il rider e senza cellulare non può lavorare).
Il motivo? La denuncia da parte di alcune lavoratrici delle molestie subite da parte del datore di lavoro.
Non è troppo difficile capire quale sia l’obiettivo di questa operazione, ovvero CENSURARE, TENTARE DI METTERE A TACERE E DI RIDURRE AL SILENZIO, la voce delle lavoratrici e dei lavoratori che con coraggio hanno deciso di vendicarsi delle molestie subite. Obiettivo vano, perché le testimonianze contro i Padroni di merda continuano ad arrivare e non cesseranno finché non cesseranno lo sfruttamento, l’arroganza e le molestie dei PDM.

Marcio è il meleto non le mele, a Minneapolis come in Italia

George Floyd è morto davanti a pochi testimoni terrorizzati che hanno filmato i suoi ultimi istanti e a tre agenti di polizia complici della violenza del collega Derek Chauvin, immortalato con gli occhi iniettati d’odio e dell’ebbrezza di esercitare il proprio potere su un altro essere umano. In poche ore il video ha fatto il giro del mondo ed è stato visto e condiviso da milioni di persone. Floyd è stato ucciso mentre implorava di respirare, con la testa schiacciata a terra fino a soffocare. Sapeva che stava morendo dopo un’agonia durata in tutto otto minuti e 46 secondi. “I can’t breatheè diventato lo slogan del disgusto e dell’indignazione mondiali.

Le modalità dell’uccisione di Floyd e l’asfissia prodotta dallo schiacciamento del torace riportano immediatamente alla memoria alcuni casi italiani di morti avvenute durante uno stato di fermo: Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini sono morti mentre si trovavano sotto la responsabilità di chi li aveva in custodia. Tutti e tre hanno subìto quella tecnica di compressione toracica potenzialmente letale e talmente pericolosa che nel 2014 l’Arma dei Carabinieri ha ritenuto necessario rendere noti i possibili rischi attraverso una circolare rivolta alle caserme.

Nella sentenza di primo grado per la morte di Aldrovandi si legge che la vittima ha subito “Un trauma a torace chiuso provocato da manovre pressorie, esercitate sul soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena”. Per Rasman, il processo ha messo in luce che sul suo tronco era stata esercitata “un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie”. Molti sono i testimoni nel processo Magherini che hanno testimoniato i calci e le compressioni ricevute da Magherini la sera del suo decesso, tanto che per due gradi di processo questa è stata attribuita a un’asfissia.

Proprio per la pericolosità di questa tecnica, nei casi di contenimento da parte delle forze dell’ordine la posizione prona viene ammessa, ma deve essere limitata al tempo strettamente necessario all’applicazione delle manette, per mettere la persona in sicurezza e in posizione seduta il prima possibile, proprio per evitare il rischio che questa muoia asfissiata. Eppure, la salvaguardia della vita troppe volte non viene perseguita: le storie di quanti hanno vissuto quella stessa morte atroce lo dimostrano.

Riccardo Magherini è morto a Firenze il 3 marzo del 2014. Anche nel suo caso è stato girato un video che testimonia i suoi ultimi istanti, schiacciato a terra mentre urlava“sto morendo” e chiedeva disperatamente aiuto, oltre a implorare“ho un figlio”. I carabinieri responsabili sono stati prima condannati in due gradi di giudizio e poi assolti perché per la Cassazione il fatto non costituisce reato. Magherini era disarmato, incensurato, non stava commettendo atti violenti o rapine, ma si trovava di fronte a una difficoltà di carattere sanitario. Infatti si trovava sotto l’effetto di stupefacenti e in preda a un attacco di panico tale che lui stesso aveva tentato di chiamare la polizia per chiedere aiuto. All’arrivo dei carabinieri ha provato ad abbracciarli per la contentezza, ma è morto durante l’arresto, immobilizzato a terra.

Riccardo Rasman, disabile psichico, è morto il 27 ottobre del 2006, ammanettato a immobilizzato a terra nel suo appartamento, con la testa insanguinata, le caviglie legate e gli agenti sopra di lui che gli impedivano di respirare. I responsabili sono stati condannati a sei mesi per omicidio colposo: secondo l’accusa, non erano in grado di prevedere che le loro azioni avrebbero provocato conseguenze mortali. Il 25 settembre del 2005 Federico Aldrovandi moriva a 18 anni, durante un controllo, mentre stava tornando a casa dopo un concerto. Quattro agenti di polizia lo hanno picchiato ferocemente, infliggendogli un trauma toracico che ne ha causato la morte per asfissia. Ci sono voluti quasi quattro anni, tra depistaggi, omertà, perizie medico legali sbagliate, per arrivare alla sentenza di condanna dei quattro agenti, per arrivare il 6 luglio del 2009 alla sentenza di condanna dei quattro agenti, divenuta definitiva il 21 giugno del 2012.

Questa tecnica di compressione non è quindi un caso isolato, ma rivela un problema diffuso, che in parte si potrebbe ricondurre alla mancata formazione da parte dei corpi delle forze dell’ordine. È la questione sollevata da Luigi Manconi, giornalista, ex senatore del Pd e presidente della commissione del Senato per i diritti umani. Manconi individua un tratto comune a tutte le forze di polizia a livello internazionale (a prescindere dalla natura dei loro governi), nella loro cronica impreparazione tecnica, che appare tanto più allarmante quanto più si tratta di istituzioni che fanno riferimento a governi democratici. C’è da preoccuparsi quando a dimostrarsi incapaci di assolvere al loro stesso compito sono proprio le forze preposte al mantenimento dell’ordine.Il fatto che un’azione volta a garantire la sicurezza dei cittadini si possa trasformare in una minaccia alla loro stessa vita è un tratto inquietante che preoccupa per la frequenza con cui si ripete. Manconi lo riconduce alla miscela di tendenza all’abuso, corporativismo e disprezzo per le garanzie dovute ai cittadini, che ne fanno una delle zone d’ombra delle nostre democrazia.

Se da un lato servono maggiori investimenti sulla formazione di chi deve intervenire in situazioni di particolare disagio psicologico, resta il fatto che quelle persone andavano tutelate e protette dallo Stato, non uccise. Uno Stato democratico dovrebbe vigilare sulla vita di coloro che gli sono affidati e non autorizzare i suoi rappresentanti a esercitare una forza eccessiva e spropositata. A prevalere è troppo spesso la logica della contenzione e dell’autorità. Tutti possiamo vedere le immagini di Magherini schiacciato a terra nonostante implori pietà per sé e il suo bambino. Chiunque si accorgerebbe che sta mettendo in grave pericolo la vita di quell’uomo, che sta rischiando verosimilmente di ucciderlo. Più che di impreparazione tecnica, allora, sembra trattarsi di violenza e abuso di potere, con le forze dell’ordine che superano i limiti dei poteri loro assegnati nei confronti di chi hanno in custodia. L’impreparazione non basta a giustificare le morti lente e atroci, le situazioni ricorrenti della cui gravità si accorgerebbe chiunque, senza bisogno di alcuna formazione.

Gli agenti non possono non sapere che una persona contenuta a terra deve essere messa in sicurezza subito dopo essere stata ammanettata. L’avvocato Fabio Anselmo, rappresentante di molte famiglie di vittime di Stato, afferma che nel manuale di comportamento della Polizia sull’esecuzione del fermo e in diverse circolari queste manovre sono riconosciute come estremamente pericolose: “Una volta che ha le manette con le mani dietro la schiena, l’uso della forza non ci deve essere più, anzi bisogna immediatamente rigirare la persona mettendola seduta e in sicurezza”. Tuttavia, queste manovre continuano a essere attuate e spesso anche la Giustizia ignora la gravità dell’accaduto, come nel caso della sentenza della Cassazione su Magherini, che ha assolto i carabinieri con la motivazione che non potevano prevedere la sua morte.

Un aspetto che accomuna i casi di abuso da parte delle forze dell’ordine, pur diversi tra loro, è il ripetersi di un copione identico, che va dalla selezione dei testimoni da convocare durante i processi ai depistaggi per insabbiare il caso (di Aldrovandi le forze dell’ordine avevano detto che era morto per un malore, Rasman per un arresto respiratorio, Stefano Cucchi di fame e di sete, Riccardo Magherini per l’assunzione di cocaina); si arriva anche a screditare sistematicamente la vittima con un vero e proprio processo al morto. Questo modus operandi provoca gravi problemi di impostazione delle indagini, che ovviamente si ripercuotono anche nei processi e impongono alle famiglie delle vittime ulteriore sofferenza dopo quella della perdita dei loro cari.

Per capire il ripetersi delle violenze, bisogna poi considerare due aspetti determinanti e strettamente legati tra loro: il senso diffuso di impunità e di omertà tra le forze dell’ordine. Sono ottimi esempi il caso Cucchi e i dieci anni necessari per trovare giustizia e verità per i suoi parenti; o i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto durante il G8 del 2001 a Genova, a cui si aggiunge l’altra questione centrale dell’identificativo degli agenti di polizia. Quando si ha a che fare con reati commessi dalle forze dell’ordine, in Italia lo Stato fatica a processare se stesso, perché vorrebbe dire ammettere il fallimento del suo compito di proteggere i cittadini. Questo cortocircuito aumenta il senso di impunità e di omertà tra i vertici delle forze dell’ordine, che faticano a condannare gli abusi e a prendere le distanze dalle violenze.

La modalità e la sistematicità di queste morti non permettono più di parlare di casi isolati o di “mele marce”. Sono tutti casi in cui si muore durante un fermo o un arresto, dove l’esercizio della forza appare più importante della vita di chi si è chiamati a proteggere. È una visione distorta per cui sulla vita umana prevale una presunta esigenza di sicurezza. Purtroppo questa idea è sempre più diffusa non solo in politica, ma è spesso legittimata dall’applicazione della giustizia e avallata dall’opinione pubblica, che per giustificare la violenza ha bisogno di considerare la vittima come inferiore e diversa da sé, concetto ben riassunto da una frase come “se l’è andata a cercare”.

La cultura che giustifica l’abuso cancella in modo sistematico ogni basilare diritto umano: il diritto alla libertà e all’integrità, alla salute e alla vita della persona, considerati sacrificabili davanti all’esercizio del potere da parte dello Stato. Solo se si considera che l’oggetto dell’azione delle forze dell’ordine è in primo luogo la protezione della persona sottoposta alla loro custodia, la tutela della sua vita e salute, i diritti umani e la Costituzione vengono rispettati. Il diritto alla vita deve essere più forte del diritto a usare la forza, ammessa solo quando necessaria a tutelare la vita dei cittadini. Se invece la vita di una persona passa in secondo piano rispetto alla violenza che si deve usare dobbiamo guardare in faccia alla realtà e riconoscere di non vivere più in un Paese che tutela lo stato di diritto.

Giulia Elia

da The Vision