Ad Aversa, in carcere, si continua a morire…

Da Contropiano

Nel carcere di Aversa si muore, di Covid verrebbe da chiedere. No, in attesa della vera crisi, quella dura che farà allungare le code alla mensa della Caritas, nella cittadina di origine normanna si continua a morire di carcere.
Un uomo, cinquantenne napoletano, che avrebbe finito di scontare la pena il prossimo anno, è morto durante la notte dell’11 maggio scorso.  Inutili i tentativi dei medici del 118.
La trafila burocratica sarà la stessa di sempre e, dello stesso, resterà un nome e un numero di matricola cancellati dai registri.
La denuncia è di un sindacato autonomo di lavoratori penitenziari  che tiene a precisare “facciamo il nostro dovere e amiamo il nostro lavoro” in aggiunta una serie di dati agghiaccianti ufficiali sullo stato delle carceri italiane e sulle patologie incidenti.
Le indagini sulla morte del recluso passeranno alla Procura che ha sede nel Tribunale Napoli Nord, da qualche anno proprio ad Aversa, e lì,  probabilmente chiuse nei fascicoli d’archivio.
A noi, non esperti e competenti, ma militanti politici e sociali, resta la responsabilità di avanzare il dubbio che qualcosa non funzioni fra quelle mura di pena.
Nell’ex carcere borbonico, ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario, oggi imbiancato e riattato a carcere di Mandamento per pene brevi, l’aria che tira deve essere poco ossigenata.
Da quella struttura fuggì anche don Raffaele Cutolo detto ‘o professore, camorrista di livello e di buone frequentazioni politiche che l’hanno salvato, fino ad ora, dalla famosa tazzulella di cafè che poco gradirono Carmine Pisciotta sodale/traditore di Salvatore Giuliano e Michele Sindona, grande faccendiere e massone. Fatale a quest’ultimo il supercarcere di Voghera.
Torniamo però a noi, al carcere di Aversa e ai diversi decessi consumatisi negli ultimi anni.
E’ una struttura capace di affrontare la sua funzione punitiva/educativa? E’ una struttura realmente agibile? Quelle celle strette per tre/quattro persone sono a misura di una giusta e umana detenzione?
Quegli spazi ristretti stanno facendo  tremare detenuti e guardie carcerarie dagli inizi della epidemia Covid e gli alleggerimenti sembrano lenti e scatenanti le remore di chi vede grossi nomi della malavita in possibile libertà in altri carceri.
Oltre al garante regionale Samuele Ciambriello e l’associazione Antigone nessuna voce sembra alzarsi per sollecitare le verifiche ad istituti di pena sovraffollati e dove diritti e trasparenza si fermano alla guardiola d’ingresso assieme ai documenti e telefonini.
Da anni associazioni e movimenti si battono contro le organizzazioni malavitose perfettamente interne al tessuto sociale del territorio, ribadendo la necessità di Legalità, ma dimenticando spesso di reclamare la Giustizia Sociale che porta in galera centinaia di proletari espropriati di futuro.
I balli e le feste agli arresti dei pochi camorristi che agiscono sul territorio mentre i pescecani grossi investono, grazie alla globalizzazione, in Montenegro, all’Est o in Borsa a Milano sembrano sviare l’occhio ad altro, dimenticando i luoghi terminali che si scoprono come dei luoghi solo di pena e non recupero per centinaia di disgraziati espulsi dal ciclo produttivo, dalle tutele sociali, in buona parte immigrati ai margini della regolarizzazione o strumenti di un meccanismo di accumulazione (non per loro) di capitali infetti attraverso lo spaccio di droga.
La legalità è un tema di battaglia importantissimo, ma  staccata dalla rivendicazione di equa ripartizione delle ricchezze sociali, dalla necessità di reddito e/o lavoro, può assumere le caratteristiche di una icona imbalsamata ad uso della Politica e dei Media.
Ma, tornando nuovamente a quel blocco di tufo, sbarre e cementi che sta al centro della città di Aversa e dove il mondo sembra fermarsi, vogliamo sollecitare chi dovrebbe essere il responsabile  delle strutture sociali e sanitarie che agiscono sul territorio, il Sindaco della Città che sappiamo sensibile alle sofferenze e al suo assessore di cui conosciamo la  competenza ventennale riguardo le istituzioni totali.
Non è che munendovi di adeguate mascherine potere andare a vedere cosa succede in quel luogo della nostra città???

Gli arresti a Bologna: vendetta di Stato e operazione “preventiva” per la solidarietà alle rivolte carcerarie anti-coronavirus e alle lotte dei migranti. Soccorso Rosso Proletario esprime massima solidarietà alle compagne e compagni arrestat*

Questa notte sette “compagni/e sono stati/e arrestati/e in esecuzione di un ordinanza del gip di Bologna per 270bis”, l’articolo del codice penale che prevede fino a dieci anni di reclusione per le associazioni con finalità di terrorismo o di eversione, e condotte/i nelle carceri di Piacenza, Alessandria, Ferrara e Vigevano. Ne dà notizia sul proprio profilo Facebook l’Associazione Bianca Guidetti Serra.
Si legge inoltre: “Sono state perquisite le abitazioni e il Tribolo”, lo Spazio di documentazione anarchico di via Donato Creti. Altri cinque “hanno ricevuto la misura dell’obbligo di dimora e firma a Bologna. Anche le loro abitazioni sono state perquisite”.

Sarebbero contestati a vario titolo, inoltre, i reati di istigazione a delinquere, danneggiamento, deturpamento e incendio.
Intanto, la Rete bolognese di iniziativa anticarceraria segnala: “Compagn* riferiscono che domenica scorsa c’é stata una presenza rapida con megafono e fuochi d’artificio sotto al carcere bolognese della Dozza. Presenza alla quale i detenuti hanno risposto facendosi sentire molto. Vale la pena ricordare che alla Dozza è morto un secondo detenuto di Covid-19″. Si chiamava Giovanni Marzoli, ha scritto la Rete in un precedente intervento: “Il 31 marzo era stato ricoverato una prima volta e poi dimesso con rientro in carcere dopo circa 10 giorni, nella ‘sezione Covid’, poiché risultato positivo al tampone. Il 18 aprile era stato nuovamente ricoverato al Sant’Orsola. Soffriva delle cosiddette ‘patologie pregresse’, aveva 67 anni. Entrato in carcere a febbraio ne esce morto”.
I/le compagn* arrestat* sono 7: Elena, Leo, Zipeppe, Stefi, Nicole, Guido e Duccio.
Sotto i loro nomi e indirizzi di destinazione delle carceri in cui li stanno portando.
A 5 compagne/i (Martino, Otta, Angelo, Emma e Tommi) è stato dato l’obbligo di dimora a Bologna con obbligo di firma quotidiana.
L’accusa di 270bis è per chi ha la misura cautelare in carcere. Gli altri reati contestati sono poi 414cp, 639, 635 e a una sola persona incendio (423cp), aggravati dalla finalità eversiva.
LIBERTÀ SUBITO PER LE COMPAGNE/I
Indirizzi a cui scrivere lettere e telegrammi:
Elena Riva e Nicole Savoia:
Str. Delle Novate, 65, 29122, Piacenza.
Duccio Cenni e Guido Paoletti:
Via Arginone, 327, 44122, Ferrara.
Giuseppe Caprioli e Leonardo Neri:
Strada Statale per Casale, 50/A, 15121, Alessandria.
Stefania Carolei:
Via Gravellona, 240, 27029, Vigevano, PV

 
L’operazione, ha fatto sapere la Procura, ha “una strategica valenza preventiva” per “evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale causati dall’attuale situazione emergenziale” possano verificarsi “altri momenti di più generale ‘campagna di lotta antistato’”, considerato che le e gli indagate/i avrebbero partecipato “all’organizzazione di incontri riservati per offrire il proprio diretto sostegno alla campagna ‘anti-carceraria’”, ed è stata accertata “la loro partecipazione ai momenti di protesta” alla Dozza.

Sempre la Procura spiega che al centro dell’inchiesta, battezzata “Ritrovo”, c’è un attentato che avrebbe avuto luogo “nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 2018, ai danni di alcuni ponti ripetitori delle reti televisive nazionali e locali, di apparati di fonia dei ponti radio delle forze di Polizia e antenne di ditte che forniscono servizi di intercettazioni e di sorveglianza audio-video, tutti ubicati a Bologna in via Santa Liberata, località Monte Donato”, dove sarebbe stata trovata “la scritta, vergata su una parete della struttura, ‘Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati’”. Questo elemento avrebbe “fin da subito indirizzato le investigazioni nei confronti di vari esponenti dell’area anarchica attivi a Bologna ed orbitanti nell’alveo dello spazio di documentazione ‘Il Tribolo’”. Secondo i pm ci sarebbe “un’articolata trama di rapporti tra gli indagati e diversi gruppi affini, operanti in varie zone del territorio nazionale, incentrati sulla sistematica attività di istigazione a delinquere” svolta “anche avvalendosi di pubblicazioni su blog e siti d’area”, con l’obiettivo di “contrastare, anche ricorrendo alla violenza, le politiche in materia di immigrazione e, in generale, le istituzioni pubbliche ed economiche, con indicazione di obiettivi da colpire e le modalità di azione”. Gli/le indagate/i avrebbero inoltre participato “a momenti di protesta sfociati in atti di danneggiamento, deturpazione e imbrattamento di luoghi pubblici e privati nonché, in alcune circostanze, in scontri violenti con le Forze dell’ordine”.
Tra gli episodi contestati anche “l’organizzazione di manifestazioni pubbliche e cortei non autorizzati, con l’obiettivo di contrastare e impedire l’apertura dei Centri permanenti di rimpatrio”, poi “danneggiamenti di condomini ed edifici pubblici con scritte di carattere minatorio e offensivo nei confronti delle istituzioni e di sportelli bancomat di istituti di credito, ma anche “la realizzazione e diffusione, anche con l’uso di strumenti informatici, di opuscoli, articoli e volantini dal contenuto istigatorio, tesi ad aggregare nuovi proseliti impegnati nelle loro ‘campagne di lotta’”. 

SCARCERAZIONI MAFIOSE – DENUNCIARE L’OPERAZIONE BASTARDA DI COLLEGARLE ALLA GIUSTA RIVOLTA DEI DETENUTI

Giorni fa su Repubblica, il cui cambio di direttore si sta vedendo subito, diventando in maniera sfacciata megafono del governo, veniva scritto:
“…sul trasferimento agli arresti domiciliari, causa pandemia, di diversi condannati per mafia. Ma come si è arrivati a questa decisione? La sequenza temporale degli eventi è l’unica certezza da cui partire. Si tratta di una catena di episodi che conferma tutti gli interrogativi. Inizia nella prima settimana di marzo. Quando l’emergenza Coronavirus si trasforma in allarme sociale e istituzionale. In quel momento, in diverse case circondariali del Paese scattano delle vere e proprie rivolte. Da Salerno a Napoli, da Roma a Milano.
Il primo incidente risale al 7 marzo. La tensione resta altissima per quattro giorni. I morti sono 12…” 

Quindi si dice che la responsabilità delle scarcerazioni facili di mafiosi, di boss sarebbe stata della rivolta di marzo. Una bastardata per infangare la legittima lotta dei detenuti.
Quelle rivolte furono fatte da tantissimi detenuti e detenute che vengono trattati in diverse carceri peggio delle bestie, che subiscono normalmente vessazioni, repressione, mancanza di cure, fino a torture e che erano e sono stati lasciati senza alcuna protezione per il coronavirus.
Proprio questi detenuti che si sono ribellati ad essere lasciati ad ammalarsi e anche a morire non hanno avuto certo scarcerazioni, ma solo trasferimenti, a volte massacri nelle celle, e nuove vessazioni, riduzione dei diritti, e nessun dei minimi benefici indicati nei Dpcm per l’emergenza coronavirus
Sono decine e decine le testimonianze dei detenuti, dei loro familiari che raccontano questa
verità -e che in questo blog sono state puntualmente riportate.

La scarcerazione dei mafiosi e dei loro boss dipende solo e soltanto dalla politica mafiosa di direttori delle carceri, di alcuni magistrati, e della grave responsabilità del Min. Bonafede, di M5S e del governo, che hanno utilizzato l’emergenza coronavirus per trovare finalmente il pretesto per liberare quella gente.
Siamo al legame mafia/Stato e Stato mafia che non è di oggi.
Siamo al “rispetto” e detenzioni d’oro per i boss mafiosi e al carcere-tortura per i detenuti comuni.

Dopo il clamore dei primi giorni, ciò che resterà sono i mafiosi fuori e i detenuti del popolo realmente malati, realmente a rischio dentro.

Dire: un decreto che riporti in carcere i boss mafiosi è cosa ridicola, questi non stanno certo aspettando pacificamente di avere nuove manette.
E non sono certo i fascisti Salvini, Meloni, ancora più amici della feccia mafiosa che possono ora denunciare le scarcerazioni, unicamente per rafforzare la loro guerra per andare loro al governo.

Noi, insieme ai detenuti e ai loro familiari, alle associazioni solidali, dobbiamo continuare la battaglia per la libertà dei detenuti, perchè lo Stato risponda alle richieste di amnistia/indulto. 

Ma chiaramente fare questo osceno e inquinante legame tra scarcerazione dei mafiosi e rivolte dei detenuti vuole porre un pesante blocco a questa battaglia di libertà, di giustizia, di difesa della salute e della vita.
Per questo la manovra in corso va fortemente smascherata e respinta.

Fissato il processo a ottobre per i compagni che contestarono il G7 di Taormina

Viene notificato in questi giorni il rinvio a giudizio con processo al Tribunale di Messina per compagni accusati di aver contestato il G7 di Taormina del 26/27 maggio 2017 – il processo è fissato per il 14 ottobre 2020.
Questo processo tocca tra gli altri numerosi compagni di proletari comunisti, Slai cobas per il sindacato di classe, Mfpr che in quella occasione diedero il loro contributo di prima linea a questa contestazione.
Il processo deve essere l’occasione non solo per la necessaria difesa legale dei compagni, che sono peraltro gravati da altre condanne e da altri processi, vedi ad esempio i compagni di Taranto, ma per rilanciare con forza l’atto di accusa contro l’imperialismo che produce guerre e pandemia, contro la militarizzazione della Sicilia e del Sud – con l’importanza che ha il NOMUOS, contro le basi USA/NATO/ITALIA, in primis Sigonella, contro l’intervento e il ruolo dell’imperialismo italiano nella situazione nel Mediterraneo e in Libia.
Quindi chiediamo a tutte le forze proletarie e antimperialiste oltre la necessaria solidarietà per i compagni colpiti dalla repressione, di costruire le condizioni per una presenza nazionale al processo
che potrebbe essere accompagnata da un convegno a Messina e da una contemporanea serie di iniziative in altre città italiane.

proletari comunisti
slai cobas per il sindacato di classe
12 maggio 2020

 Al G7 di Taormina maggio 2017

La polizia turca attacca il funerale e “arresta” la salma di Ibrahim Gokçek

Nella giornata  era prevista la cerimonia funebre, alla quale però non ha potuto partecipare Sultan Gökçek, moglie di Ibrahim, anch’ella membro del Grup Yorum e detenuta in carcere da 4 anni. Sin dalla mattina, la polizia turca ha assediato il quartiere di Gazi, impedendo l’accesso alla strada dove si trova il Cemevi.

L’intera zona circostante è stata isolata da centinaia di poliziotti, assediata da camionette e auto blindate della polizia. Uno scenario simile a quello a cui si è assistito durante il funerale di Helin Bölek, cantante del Grup Yorum.

Di fronte al clima di repressione generale, il Grup Yorum ha chiamato a partecipare politici del partito HDP, artisti e attivisti per denunciare quanto stesse accadendo e dar prova della solidarietà popolare nei confronti dei membri del gruppo, accusati di terrorismo dal regime fascista guidato dall’AKP di Erdogan.

Migliaia di poliziotti hanno circondato il quartiere dove si sarebbe dovuta svolgere la funzione funebre. Nessuno è riuscito ad entrare, neppure i giornalisti.

La polizia ha attaccato, con lanci ripetuti di lacrimogeni e proiettili di gomme, la folla accorsa per partecipare alla cerimonia per onorare il sacrificio portato avanti da Ibrahim e dagli altri membri del Grup Yorum, che si battono per la libertà d’espressione e contro le persecuzioni giudiziarie e poliziesche. Una trentina di persone, tra cui il padre di Ibrahim Gokçek, sono state arrestate dalla polizia.

«La polizia è a caccia di persone che assistono al corteo funebre nel quartiere. Stanno usando munizioni di plastica e minacciano di sparare, se le persone non lasciano il luogo dove sono radunate per celebrare il Grup Yorum» ha detto in un video-messaggio l’avvocato Aysegül Cagatay.

«Ai poliziotti assassini, che continuano ad attaccarci, diciamo che non smetteremo di resistere! Non andremo da nessuna parte finché non adempiremo alla volontà di Ibrahim!», gridano dalla folla.

Dopo aver disperso numerosi manifestanti accorsi per la cerimonia funebre, la polizia turca ha fatto irruzione nell’edificio del Cemevi, portando via il corpo del bassista Ibrahim Gokçek e procedendo all’arresto dell’avvocato Didem Baydar Ünsal e di altri membri del Grup Yorum.

In seguito a questo gesto spregevole gesto, Bahar Kurt del Grup Yorum ha annunciato in un video che si stava recando alla caserma militare Mehmetcik Vakfi con la famiglia di Ibrahim. Un enorme contingente di polizia era in attesa della famiglia. Il carro funebre con la salma è partito poi scortato da diversi veicoli della polizia, in viaggio verso Kayseri, città natale di Ibrahim.

Ancora una volta, l’AKP non poteva sopportare che migliaia di persone si prendessero cura del corpo di un musicista rivoluzionario e tenessero il loro servizio funebre secondo le proprie radizioni e i propri desideri. Anche in questo caso, come per Helin Bölek, la dell’”avversario politico” è stata sequestrata con la forza e l’illegalità per impedire ad amici e parenti di piangere insieme ed esprimere la loro protesta contro l’ingiustizia. L’AKP non riuscirà mai a usare questa illegalità per impedire alle persone di sostenere Grup Yorum e tutti coloro che rischiano la vita per la libertà e la giustizia”, scrive in un comunicato il Comitato Solidale Grup Yorum, denunciando il ricorso al braccio armato e violento della polizia da parte del governo di Erdogan.

Nulla e nessuno può fermare a Istanbul il funerale rosso per Ibrahim Gökçek

 

Il musicista Ibrahim Gökçek della band Grup Yorum all’età di 39 anni è morto in un ospedale di Istanbul per le conseguenze di uno sciopero della fame. Il bassista aveva rifiutato l’assunzione di cibo per 323 giorni per protestare contro la repressione statale nei confronti del suo gruppo. Gökçek chiedeva la liberazione dei componenti della sua band in carcere con l’accusa di appartenenza al Partito/Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo DHKP – tra cui anche sua moglie Sultan Gökçek da quattro anni in carcerazione preventiva – nonché la rimozione del divieto di esibizione del suo gruppo in vigore da cinque anni, la fine dei processi arbitrari e l’annullamento delle liste di ricercati sulle quali si trovano altri componenti della band. Martedì Gökçek aveva dichiarato concluso il suo sciopero della fame dopo che Grup Yorum aveva dichiarato che l’obiettivo dell’azione era stato raggiunto e deputati e artisti avevano promesso di essere granate per le sue richieste. Già all’inizio di aprile la sua collega della band Helin Bölek era morta in sciopero della fame.
 

 
Giovedì sera in un baleno si è diffusa la notizia della morte di Ibrahim Gökçek. Molte nelle prime ore della sera si sono recate nella casa di riunione e preghiera alevita (Cemevi) nel quartiere Gazi dopo aver appreso la notizia che salma sarebbe stata trasportata lì. Tra i presenti, oltre alla famiglia di Gökçek, anche i parenti di Helin Bölek Mustafa Koçak, un prigioniero politico che con uno sciopero della fame aveva chiesto un processo giusto e che è morto alla fine di aprile in un carcere nei pressi di Izmir. Anche artist* come la cantante Pinar Aydinlar e il deputato HDP Musa Piroğlu sono arrivati per prendere commiato da Gökçek.

 

 
Dopo un minuto di silenzio, la folla ha intonato la popolare canzone del Grup Yorum „Uğurlama” – turco per „commiato”. Il testo del pezzo, come altre canzoni della band, è stato scritto dal poeta Ibrahim Karaca e parla della situazione degli attivisti di sinistra in Turchia, per i quali la persecuzione e la prigionia fanno parte della quotidianità politica. Uğurlama quindi racconta in modo molto poetico la storia di una coppia di amanti che è costretta a separarsi perché uno dei due deve sparire per motivi politici. Il ritornello recita: „Quando la solitudine irrompe in questa città, un uccello muore durante il suo sonno, tu che parti e te ne vuoi andare, le strade scure sono cieche, sorde e mute. Ehi tu, che ti metti in cammino avvolto nell’amore, sappi, che queste strade passano per le montagne. Se cadi prima di raggiungere il tuo amore, al tuo amore resta l’eco della tua voce.”

Liberare GN Saibaba – campagna sostenuta da ICSPWI



GN Saibana è uno dei
più importanti prigionieri politici in India e tra le figure principali della per l’unità dei movimenti rivoluzionari e antimperialisti in India

 
Dichiarazione del “Comitato per la Difesae la Liberazione del Dr. GN Saibaba”

 
Liberare il Dr. G. N. Saibaba dalla Prigione Centrale di Nagpur, la sua vità è minacciata più che mai dalla pandemia COVID-19 

Negli ultimi sei anni la salute del Dr. G. N. Saibaba, detenuto nella prigione centrale di Nagpur, è peggiorata in misuara allarmante. Il Prof. Saibaba è doecnte inglese presso l’Università di Delhi e attivista dei diritti umani.
A causa della paralisi da poliomelite degli arti inferiori, è disabile al novanta per cento e costretto su sedia a rotelle. Dopo la carcerazione, ha sviluppato ulteriori gravi patologie che hanno provocato danni irreparabili alla sua salute. Il 9 maggio 2014 è stato prelevato dalla sua casa di Delhi dalla polizia del Maharashtra e accusato di diverse imputazioni ai sensi della legislazione per la prevenzione delle attività illegali (UAPA). Nessuno dei materiali elettronici che si presume essere stati sequestrati nell’abitazione di G.N. Saibaba è mai stato prodotto in tribunale né verificati da qualsiasi perito né esperiti in dibttiento. Questi documenti elettronici sono stati direttamente assunti ai sensi dell’articolo 313, e non prodotti nel dibattimento probatorio. Il giudice ha respinto tutte le sentenze della Corte suprema in merito, contrarie all’esclusione di questi documenti dal dibattimenti probatorio ex art. 313. Questi documenti non hanno mai fatto parte del processo.

Il 7 marzo 2017 le sezioni riunite del Tribunali di Gadchiroli ha condannato alll’ergastolo il Dr. GN Saibaba insieme ad altri cinque. Dopo il suo arresto, tranne un breve periodo nel 2016, è stato tenuto nella cella solitaria, una cella “anda” della prigione centrale di Nagpur. Dato il sofraffolamento e le carenze di strutture mediche anche di base delle prigioni indiane e col dilagare della pandemia COVID-19 in tutto il paese, che colpisce in particolare gli anziani e quelli con gravi patologie preesistenti, il futuro del Dr. G. N. Saibaba appare estremamente desolante.
Per tutta la sua vita politica, il Dr. G. N. Saibaba è stato una voce a difesa dei diritti di Adivasi, Dalit, Musulmani e altre comunità
oppresse. Ha parlato contro l’attacco portato dallo Stato ai popoli dell’India centrale nota come “Operazione Green Hunt”. Stava dalla parte dei suoi studenti e ha sostenuto i principi democratici e la giustizia sociale dentro l’Università. Non ha mai nascosto le sue opinioni e le ha praticate lavorando instancabilmente per sostenere lo spirito della democrazia. Nonostante gli ospedali e la stessa direzione del carcere di Nagpur e abbiano ammesso di non disporre delle strutture necessarie a  prendersi cura di una persona con disabilità e disturbi così gravi, il Dr. G. N. Saibaba resta in carcere, senza terapie e gli è engata la libertà su cauzione. Ma mantiene il suo spirito di lotta, anche se la mancanza di strutture mediche lo disumanizzano e negano il diritto fondamentale a una vita dignitosa.
Il Dr. G. N. Saibaba soffre di forti dolori causati dalla degenerazione dei muscoli delle mani. È afflitto da pancreatite, ipertensione, cardiomiopatia, mal di schiena cronico, immobilità e insonnia. Il clima di Nagpur, accentuato dalla situazione delle celle anda, singole e senza finestre, hanno ulteriormente minato la funzionalità del cuore. Di conseguenza, i disturbi peggiorano e, in assenza di qualsiasi sollievo dal dolore e trascurati in di strutture mediche inadeguate, debilitano ulteriormente la sua già fragile salute. Nonostante gli interventi
della Commissione nazionale per i diritti umani e dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, i tribunali hanno ripetutamente negato il rilascio su cauzione.
La Corte Suprema dell’India ha riconosciuto il diritto alla vita dei
prigionieri e disposto che “il trattamento di un essere umano che offenda la sua dignità umana, gli imponga torture evitabili e riduce l’uomo al il livello di una bestia è senza meno arbitrario e può essere messo in discussione ai sensi dell’articolo 14″. L’India è anche firmataria del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che riconosce la dignità degli esseri umani e l’ideale che gli esseri umani liberi godano della libertà civili e politiche. Inoltre, il 1° ottobre 2007 l’India ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD). L’India ha anche adottato la risoluzione delle Nazioni Unite 70/175 sulle norme minime standard per il trattamento dei detenuti (anche noto come Nelson Mandela Rules). Questi trattati, convenzioni e le risoluzioni garantiscono la vita e la dignità a tutte le persone, i prigionieri e le persone con disabilità e dispongono i parametri essenziali necessari per la loro attuazione. Il National Crime Records Bureau sostiene che le prigioni di tutto il paese sono riempite al 117% della loro capacità. In Maharashtra la media supera il 149%, l’impatto della diffusione del COVID-19 in un tali spazi è una probabile condanna a morte per il Dr. Saibaba. 
Il Comitato per la difesa e la liberazione del Dr. GN Saibaba teme per la sua vita e fa appello al governo dell’India e al governo del Maharashtra per l’immediata liberazione del Dr. G. N. Saibaba, alla luce dell’immediata minaccia alla sua vita per il COVID-19. Il Comitato chiama tutte le organizzazioni e i democratici a fare appello alla liberazione di tutti i prigionieri politici.

Firmatari
Prof G. Haragopal
Prof Jagmohan Singh

Prof Manoranjan Mohanty

Prof Amit Bhaduri

Arundhati Roy

Nandita Narain

Karen Gabriel

Sumit Chakravorty

Ashok Bhowmick

Sanjay Kak

PK Vijayan

Vikas Gupta

Biswajit Mohanty

Rakesh Ranjan

Hany Babu

Srikrishna Deva Rao

Seema Azad

AK Ramakrishna

N Raghuram

Anirban Kar

Subrat Kumar Sahu