Soccorso Rosso Proletario

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Biella …bestie in divisa da cacciare e loro complici

Tamponi riservati ai detenuti del carcere praticati gratuitamente ad agenti e impiegati, 51 indagati a Biella

L’indagine, coordinata dal procuratore Teresa Angela Camelio e condotta dai carabinieri della polizia giudiziaria, è partita dai registri Asl dei tamponi
Tamponi riservati ai detenuti del carcere venivano praticati anche ad agenti della penitenziaria o a impiegati, oltre che a parenti e amici, fatti entrare nella struttura evitando di andare in farmacia o in ospedale e, quindi, senza pagare.
Parla di questo l’inchiesta sui ‘furbetti’ del tampone della Procura di Biella, che ha notificato 51 avvisi di conclusione indagini ad altrettante persone, 37 delle quali appartenenti alla polizia penitenziaria.
L’indagine, coordinata dal procuratore Teresa Angela Camelio e condotta dai carabinieri della polizia giudiziaria, è partita dai registri Asl dei tamponi. A decine, secondo quanto anticipato dalle pagine locali del quotidiano ‘La Stampa’, si sarebbero fatti tamponare, pur senza averne diritto, allargando poi in qualche caso la possibilità anche a parenti e amici. Chi aveva bisogno di un tampone per andare in vacanza o per recarsi al lavoro, secondo l’accusa, si recava in carcere. Il tutto senza controlli di sorta. Tra gli indagati c’è anche il comandante della penitenziaria e il suo vice, nonché la responsabile dell’infermeria del carcere, poi sospesa. Peculato è l’accusa principale nei loro confronti.

Ti ricordi del 15 ottobre?

Il 15 ottobre 2011 circa 200.000 persone scesero in piazza a Roma, in un periodo in cui in  tutto il mondo, dalla Tunisia agli Stati Uniti, all’Egitto, si accendevano rivolte contro regimi dispotici e capitalismo finanziario. In seguito all’appello lanciato dai movimenti 15M nati a Madrid, si scendeva in piazza ovunque anche in Europa, davanti e contro i palazzi del Potere, nel rifiuto delle politiche di austerità adottate dai governi come ricetta alla crisi economica del sistema capitalista.

In Italia il Comitato promotore accettò di non manifestare davanti alle sedi governative, così come deciso dalla Questura, ma la rabbia sociale si espresse comunque, e giustamente, con diverse ore di scontri con le forze dell’ordine. Troppo forte l’odio per per la miseria economica e culturale, i continui tagli alle spese sociali, lo sfruttamento da parte di pochi nei confronti di molti, la guerra, la distruzione delle risorse naturali e della terra, tutto in nome del profitto.

La vendetta dello Stato, per criminalizzare e allo stesso tempo nascondere le ragioni di quella giornata di lotta ha colpito duramente: arresti in piazza, condanne pesanti anche per devastazione e saccheggio, carcere.

Come non ricordare Chucky, ucciso dalla repressione?

Il 15 febbraio 2022 ci sarà l’udienza conclusiva, quella in corte di Cassazione, per chi è già stato/a condannata/o in secondo grado nell’ultimo troncone processuale.
Se le condanne verranno confermate, alcune delle persone imputate entreranno in carcere.
I risarcimenti richiesti dalle parti civili ammontano a centinaia di migliaia di euro.
Per questo martedì 15 febbraio a Roma ci sarà un presidio solidale davanti la corte di cassazione, dalle ore 10.
CHI SI RIBELLA NON È MAI SOLO/A

No al carcere tortura alle vallette torino

“Reclusi torturati alle Vallette”, la garante del Comune sarà parte civile al processo

Il sindaco: “La dignità umana va salvaguardata anche nelle carceri”. Tra gli imputati l’ex direttore e l’ex capo delle guardie penitenziarie
La battaglia legale accende di sabato mattina, in un palazzo di giustizia deserto, la maxi aula due del tribunale dove si svolge l’udienza preliminare di un’inchiesta delicata e particolamente amara. È quella che si gioca sulle spalle dei più deboli: i detenuti del carcere di Torino, vittime, secondo l’accusa, di botte e maltrattamenti, tanto da configurare il reato di ” tortura”. Una ” prassi” andata avanti dal 2017 al 2019, soprattutto nei confronti di chi era ristretto tra i ” sex offender”. Violenze taciute e coperte dall’alto, sulle quali aleggia ancora oggi un’ombra di paura: solo sei detenuti (difesi dagli avvocati Wilmer e Manuel Perga, Fabrizio Bernardi, Ilenia Siccardi e Domenico Peila) su undici di quelli considerati parte offesa, hanno trovato il coraggio di costituirsi parte civile.
Tra gli imputati ci sono gli agenti (molti dei quali ancora in servizio) imputati di tortura, abuso di autorità e violenza privata, ma anche l’ex direttore Domenico Minervini e l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza che devono rispondere dell’accusa del pm Francesco Pelosi di omessa denuncia e favoreggiamento. La giudice Maria Francesca Abenavoli chiude però il primo round con un segnale forte per tutti: nonostante la dura contrapposizione degli avvocati dei 21 imputati, sono state tutte ammesse le richieste di chi ha sostienuto di aver avuto un danno per i reati commessi all’interno del penitenziario di Torino.
Non solo il garante nazionale dei diritti per i detenuti (tutelato dall’avvocato Davide Mosso), ma anche quello regionale, e ( per la prima volta) anche quello cittadino che aveva proprio dato il via all’inchiesta. “La giunta comunale – ha dichiarato il sindaco Stefano Lo Russo – a fronte della documentazione della garante ha approvato con delibera la costituzione in giudizio come parte civile. La Città – sottolinea – è da sempre impegnata a salvaguardare la dignità umana anche nell’ambiente carcerario “.
La giudice ha dunque riconosciuto la legittimazione della garante dei detenuti del comune di Torino, difeso dall’avvocata Francesca Fornelli, (giovane legale che dopo la laurea aveva svolto proprio uno stage in quell’ufficio), a diventare parte attiva al processo. ” La nostra partecipazione – commenta la garante Monica Gallo – vuole essere un segnale forte di attenzione rispetto alla tutela dei diritti delle persone ristrette negli istituti penitenziari della città. L’obiettivo è contribuire in maniera concreta alla ricostruzione dei fatti per cui si procede e all’accertamento delle responsabilità dei soggetti coinvolti”. Ammessa come parte civile anche l’associazione Antigone, che ha come obiettivo la tutela dei diritti e delle garanzie del sistema penale e penitenziario. Ed è stata anche accolta la richiesta di citare il ministero della giustizia come responsabile civile, riconoscendo così il dovere da parte dell’amministrazione pubblica statale di risarcire i danni.

Un altro vigliacco attentato al presidio di San Didero: il punto informativo è stato incendiato, ma verrà ricostruito e rilanciato. Massima solidarietà e Avanti No Tav

A poco più di un mese dal tentato incendio del tendone, questa notte, la casetta che ospitava il punto informativo del Presidio #notav di San Didero, è stata bruciata.
Questo ennesimo gesto vile e intimidatorio non fermerà di certo la determinazione del Movimento No Tav di presidiare e stare nei luoghi teatro dello scempio nella nostra Valle!
È chiaro a tutte e tutti come l’incendio del punto informativo non sia dato da un’improbabile autocombustione come forse qualcuno vorrebbe farci credere.
Infatti, questa sera, il Movimento No Tav presente al Presidio, ha espresso forti e dure parole di condanna contro chi ha messo in atto questo ennesimo gesto ignobile e provocatorio.
La lotta contro quest’opera devastante ed ecocida non si fermerà sicuramente di fronte a queste azioni messe in piedi con la sola volontà di spaventare e fermare chi da ormai 30 anni si batte per un futuro migliore per tutte e tutti, con uno sguardo in più rivolto alle generazioni future.
Presto il punto informativo verrà ricostruito e ancor prima saranno realizzate iniziative per renderlo possibile.
Lo vogliamo dire ancora una volta in più: fermarci è impossibile e di certo non sarà davanti a questo ennesimo vile gesto.

MILANO, LUNEDI 7 FEBBRAIO ORE 10,00 in San Babila contro il vertice sulla “sicurezza”

LUNEDI’ 7 FEBBRAIO LA MINISTRA DELL’INTERNO LAMORGESE SARA’ A MILANO PER UN VERTICE SULLA “SICUREZZA”.

Invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio che si terrà in San Babila dalle ore 10 per far sentire forte la nostra voce di lavoratori, precari, disoccupati e studenti contro il nuovo modello di società che il governo Draghi vuole imporre.

Seguono :Comunicato del Csa Vittoria di partecipazione all’iniziativa e comunicato stampa unitario di tutte le organizzazioni promotrici

Per chi come noi crede nell’assoluta necessità dell’affermazione di una società alternativa all’attuale che non sia finalizzata al profitto e allo sfruttamento di classe. Per chi quotidianamente combatte per una società che sia fondata sulla solidarietà, sulla giustizia e sull’uguaglianza sociale, per un nuovo modello che finalmente non metta al centro il profitto capitalista, ma i bisogni e le aspirazioni di ogni sfruttato, SICUREZZA significa garanzia di un lavoro e di un salario, significa la certezza di una casa e di un futuro senza precarietà, ed è la fine di ogni discriminazione basata sul genere, sul colore della pelle o luogo di provenienza. Significa l’abolizione dei decreti sicurezza e dell’alternanza scuola- lavoro. Vuol dire l’eliminazione di ogni nazionalismo, significa un vero progresso sociale che potrà affermarsi solo sconfiggendo la barbarie del capitalismo.

Lamorgese verrà invece a propagandare un’ulteriore militarizzazione dei quartieri popolari e non la necessaria abolizione dei quartieri ghetto/dormitorio nei quali le contraddizioni sociali sono diventate esplosive perchè luogo di reclusione sociale che disturba l’immagine di una città vetrina e perchè prodotto di un concetto neocoloniale di integrazione che è invece assimilazione.

Ma la nostra sicurezza non è la loro sicurezza. Non è libertà di sfruttamento, di licenziamento e di repressione di chi lotta (anche per mezzo dei decreti sicurezza mai aboliti), di privatizzare e aziendalizzare ciò che rimane di stato sociale, di saccheggiare il pianeta creando pandemie, miseria e migrazioni, di garanzia per le classi al potere del profitto necessario alla propria sopravvivenza.

Il PNRR, con i suoi circa 220 miliardi euro, è cosi atteso dai padroni perchè incarna una nuova possibilità di rimandare l’implosione del modo di produzione capitalistico. Questo rilancio del modello economico capitalista esige una nuova organizzazione fondata sull’imposizione immediata del comando padronale (just in time!!) con relazioni sociali improntate all’autoritarismo, nonché l’incremento esponenziale della precarizzazione, dello sfruttamento di classe e la diminuzione della base occupazionale. Prevede la progressiva demolizione di ogni diritto, prevede e accetta migliaia di morti sul lavoro, prevede la compressione del diritto di sciopero, prevede la criminalizzazione dei lavoratori che si oppongono alla ristrutturazione e ai licenziamenti.

Alla loro “sicurezza” opponiamo la lotta di classe, la ricomposizione delle lotte in un unico fronte di classe contro il capitalismo e per una società di liberi e di uguali.

LUNEDI 7 FEBBRAIO ORE 10,00 in San Babila facciamo sentire la nostra protesta.

I compagni e le compagne del Csa Vittoria

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Grave atto di Governo e Questura che vietano di manifestare in piazza

Il Questore di Milano ha vietato il presidio indetto lunedì mattina 7 febbraio dietro la Prefettura, per manifestare contro il vertice del ministro dell’Interno Lamorgese con Sindaco, Prefetto e Questore, indetto per aumentare gli organici delle “forze dell’ordine” impegnate su Milano. Le motivazioni del provvedimento sono palesemente pretestuose, come successo a Torino settimana scorsa, con il divieto di corteo e le successive violente cariche sugli studenti e lavoratori scesi in Piazza per protestare in seguito alla morte di Lorenzo studente in alternanza scuola – lavoro.

Ma proprio il divieto di un presidio per chiedere più personale sanitario e insegnanti mostra la fondatezza della nostra protesta: si vogliono assumere centinaia di nuovi poliziotti non per contrastare una criminalità che è in calo, ma contro le lotte e le proteste sociali. A Milano dalla scorsa primavera la Questura non ha badato a spese inviando più volte la settimana da 50 a 100 poliziotti in tenuta antisommossa contro i lavoratori licenziati da Fedex e UNES per rappresaglia antisindacale, in lotta per il reintegro nel posto di lavoro, e disponendo veri e propri blitz militari per sfrattare inermi famiglie con bambini, da case tenute vuote dall’Aler o dal Comune in attesa di speculazioni immobiliari.

Ecco il paradigma di questo governo: aumentare le forze repressive contro le lotte sociali, in una situazione ancora di alta disoccupazione, con crescente inflazione che consuma il potere d’acquisto dei salari, e la possibile e auspicabile ripresa delle lotte operaie per aumentare salari già inferiori a 30 anni fa, opponendosi alla crescente precarietà favorita dalle leggi degli ultimi governi. Denunciamo questa misura repressiva della Questura che non ci fa desistere, anzi accresce il nostro impegno nella lotta per il diritto al lavoro, all’istruzione ed alla casa, contro l’aumento delle spese militari, sia per l’aggressione estera come per gli apparati repressivi interni.

Non è con più poliziotti che si risolvono i problemi sociali, ma con l’aumento dei salari e il loro aggancio all’aumento del costo della vita, con il salario medio garantito ai disoccupati, con una rigida limitazione dei contratti a termine, con l’aumento dei controlli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Seguiamo l’esempio dei lavoratori FEDEX e Unes, capaci, con la lotta, di tenere viva una trattativa per il reintegro sui posti di lavoro e degli studenti di Torino che, in seguito alle manganellate subite, sono tornati più forti in piazza venerdì scorso conquistandosi la possibilità di manifestare in corteo. Traguardi che si possono ottenere solo con la più ampia convergenza di tutti i settori in lotta, nella prospettiva di un fronte unito di classe che proponga con forza una vera alternativa di sistema.

Torniamo a manifestare più numerosi e uniti di prima, i diritti si conquistano con la lotta! Per questo domani ci troveremo in piazza San Babila alle ore 10 per un’iniziativa di denuncia contro l’autoritarismo di questo governo e contestualmente una conferenza stampa.

Milano, 07/02/2022

Lavoratori Combattivi Milano,
S.I. Cobas,
Fronte della Gioventù Comunista – FGC,
Panetteria Occupata,
Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”,
Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria,
PCL,
Sinistra Anticapitalista Milano,
SLAI Cobas per il Sindacato di Classe,
LUME Laboratorio Universitario MEtropolitano,
CSA Vittoria

CPR il business della detenzione dei migranti

In Italia sono dieci le strutture adibite a CPR, ovvero Centri di Permanenza per il Rimpatrio, nelle quali viene messa in atto la misura di detenzione amministrativa. In sostanza persone che non hanno commesso alcun reato, se non quello di aver superato i confini italiani senza documenti, vengono private della propria libertà personale e chiuse in vere e proprie prigioni in attesa di essere rimpatriati nei loro Paesi di origine.

di Valeria Casolaro

In Italia i CPR si trovano a Torino, Milano (riaperto a ottobre 2020), Bari, Brindisi, Isonzo, Macomer, Gradisca d’Isonzo, Roma, Caltanissetta, Palazzo San Gervasio e Trapani. Nonostante si tratti di centri di detenzione veri e propri, non è lo Stato a farsi carico della loro gestione, ma cooperative e in alcuni casi società multinazionali, che hanno trasformato la detenzione amministrativa in un vero e proprio business, i cui costi sono sostenuti dalla società tramite la leva fiscale.

Un business da 44 milioni di euro

Il rapporto Buchi Neri – La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) realizzato da CILD, la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili, spiega come ammonti a 44 milioni di euro la spesa sostenuta tra il 2018 e il 2021 dai soggetti privati che gestiscono le 10 strutture al momento attive in Italia e situate nelle città di Torino, Milano, Gradisca d’Isonzo, Roma, Macomer, Palazzo San Gervasio, Brindisi, Bari, Trapani e Caltanissetta. Una spesa ingente se si considera che la media di persone detenute si aggira intorno ai 400 individui, per i quali la spesa giornaliera va quindi stimata intorno ai 40.150 euro. A questi vanno aggiunti i costi di gestione delle strutture e del personale di polizia destinato alla sorveglianza.

In questo modo lo Stato minimizza i costi e le imprese e le cooperative ne traggono il massimo profitto. “Nel mezzo”, si legge nel report, “vi sono centinaia di persone trattenute in delle strutture che non rispettano, in molti casi, neanche gli standard dettati dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura”. La minimizzazione dei costi, imposta da un sistema di detenzione di matrice liberista, passa per i tagli ai servizi fondamentali per i soggetti detenuti, quali la presenza operatori notturni, psicologo, dei mediatori e del personale sanitario.

Se il liberismo entra nei modelli detentivi

La situazione di degrado e abbandono nel quale si trovano i detenuti nei CPR tocca tutti gli aspetti della vita quotidiana (anche se non in tutti i centri sono presenti gli stessi elementi di criticità): le stanze adibite al pernottamento sono spesso sovraffollate e piene di blatte, non vi sono i vetri alle finestre, i materassi sono ammuffiti e mancano i campanelli d’allarme. Le condizioni igieniche dei servizi sono disastrose e spesso i bagni non hanno le porte, anche quando collocati all’interno delle stanze. Spesso mancano i locali adibiti a mensa e non sono disponibili menu differenziati in base alla religione o alle esigenze dei migranti. A tutto ciò si va ad aggiungere la mancanza di luoghi ricreativi, di culto o dove praticare movimento fisico.

Le criticità che scaturiscono dalla gestione privata dei centri di detenzione, penale o amministrativa, sono note da tempo. L’affidamento della detenzione di vite umane a soggetti privati comporta necessariamente delle problematiche, che derivano nella quasi totalità dei casi dalle cattive pratiche. La tutela dei diritti, in questi casi, va ad appannaggio esclusivo del soggetto privato, che è libero di muoversi come meglio crede senza essere soggetto a uno stringente controllo. Una delle conseguenze più evidenti, nel caso dei CPR, è il prolungamento indefinito dei tempi di detenzione: se le disposizioni sono infatti che “lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario” e “con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità” per un massimo di “30 giorni, prorogabile fino a 90”, nella realtà dei fatti questi soggetti si trovano a rimanere rinchiusi nei CPR fino alla decorrenza massima dei termini, senza che i loro casi siano stati esaminati o aver avuto la possibilità di ritornare nel proprio Paese.

Il caso del CPR di Torino

Un caso particolarmente significativo è il CPR Brunelleschi di Torino, gestito dalla multinazionale Gepsa ItaliaGepsa Italia fa parte della società madre Engie Italia, che a sua volta appartiene a Engie Francia, in un gioco di scatole cinesi: si tratta di una multinazionale operante in diversi settori, in particolare l’energia sostenibile. Come si può leggere dal sito di Engie Italia, Gepsa si occupa di “gestione nell’ambito dei servizi per i migranti di CPR e CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria)”. Secondo quanto riportato dal report CILD, negli ultimi 10 anni Gepsa si è aggiudicata diversi appalti in Italia, come il CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto, il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Ponte Galeria e di Milano. Nel 2019 si è aggiudicata un bando di 51 milioni per la gestione dei Centri di accoglienza collettiva a Milano.

Nel 2021 il Comune di Torino ha pubblicato un nuovo bando per la gestione del CPR di corso Brunelleschi, dopo che Gepsa ha deciso di ritirarsi dalla scena. Le motivazioni addotte sarebbero gli eccessivi costi di gestione, divenuti insostenibili anche per una multinazionale come Gepsa. Impossibile non pensare, tuttavia, che le vicende giudiziarie seguite alla morte di Moussa Balde non abbiano influito sulla decisione della multinazionale. La relazione di quasi 20 pagine del Garante nazionale, redatta dopo una visita effettuata al centro in seguito al suicidio di Balde, ne ha evidenziato le principali criticità, a partire dall’inadeguatezza degli alloggiamenti delle persone, dell’assistenza sanitaria e della generale condizione di abbandono morale e istituzionale nella quale si trovano i migranti. Un intero settore del CPR, l’”Ospedaletto”, è stato chiuso a causa del “trattamento inumano e degradante” riscontrato all’interno ai danni dei migranti.

Punire i poveri

Lo sviluppo della logica securitaria e di contenimento che regge il gioco a cooperative e multinazionali dietro i CPR fa eco alla sempre minore presenza di interventi sociali volti all’integrazione dei soggetti. “Alla deliberata atrofia dello stato sociale corrisponde l’ipertrofia dello stato penale” scriveva negli anni ’90 il sociologo Loïc Wacquant analizzando il contesto americano, frase che ancora oggi suona più attuale che mai. Lo stato penale si infiltra nelle crepe lasciate aperte dallo stato sociale, mettendo in atto detenzioni arbitrarie e misure oppressive. Il capro espiatorio che giustifichi la necessità di una militarizzazione dello stato per garantire la sicurezza sono ancora una volta le classi sociali svantaggiate: la criminalizzazione della povertà è la chiave di volta dell’intera argomentazione. L’affidamento della detenzione al soggetto privato, che libera lo Stato dalle spese di gestione, crea così un settore economico redditizio che si incrosta sulla società e diviene impossibile da rimodellare.

da l’Indipendente

Croazia: Reintegrati i poliziotti accusati di violenza contro i migranti

Da Osservatorio repressione

La Croazia insabbia i pestaggi, l’uso di bastoni-tonfa e manganelli da parte degli “uomini-fantasma”

di 

Gli agenti di polizia croati colti in flagrante mentre picchiavano i migranti sul confine croato-bosniaco sono tornati in servizio. Reintegrati negli organi di polizia. I loro crimini sono stati cancellati dal tempo come orme sulla sabbia. Ne dà annuncio H-Alter1, media online croato sotto la rete europea di data journalism EDJNet.

Lo scorso 6 ottobre un collettivo di giornalisti aveva reso pubblico un video2che riporta quanto testimoniato da anni3 da ONG, associazioni e dai centinaia di migranti che sono riusciti a entrare in Unione Europea: pestaggi, violenza, uso di bastoni-tonfa e manganelli da parte degli “uomini-fantasma”, gli uomini senza volto coperti fin sopra la testa con passamontagna che ne lasciano visibili soltanto gli occhi. Il video, pubblicato dall’organizzazione olandese Lighthouse Reports, fa parte dei materiali pubblicati nell’ambito di un’inchiesta di giornalismo collaborativo che per otto mesi ha visto associazioni, emittenti radiotelevisive e giornalisti privati di tutta Europa nascosti tra i cespugli sul “confine verde”, nei pressi del fiume Korana, per fare chiarezza sugli attori e le modalità dei tragicamente famosi respingimenti. Le analisi del team di giornalisti su dettagli dell’abbigliamento e delle armature avevano dato motivo di sostenere che si trattasse di poliziotti croati.

I giorni successivi al 6 ottobre, una fonte anonima del ministero dell’Interno croato aveva dichiarato: “Non esiste un ordine ufficialmente pubblicato dal Ministero dell’Interno, ma internamente c’è l’ordine che i migranti trovati in Croazia debbano essere rimpatriati attraverso il “confine verde”, quindi la polizia non è colpevole di questo. Fanno tutto quello che fa la polizia in questi casi per ordine dei loro superiori. Tutto viene dal Ministero dell’Interno”. In effetti, nei giorni successivi al 6 ottobre, con lo scalpore suscitato dall’inchiesta nell’opinione pubblica e la richiesta di fare luce sui tre casi smascherati dal video, la Procura di Stato della Repubblica di Croazia (DORH) dichiarò di aver avviato un’indagine che coinvolgesse non solo i singoli agenti coinvolti, ma anche gli organi superiori, per evincere fino a che punto quegli atti fossero il frutto di imposizioni di mandanti di grado più alto; “ma in questi mesi non c’è mai stato un aggiornamento pubblico sui progressi delle indagini”, ha dichiarato Antonia Pindulić, avvocato del Centre for Peace Studies.

Infine, la notizia degli ultimi giorni: il poliziotto individuato dall’inchiesta, dopo una sospensione di tre mesi, è tornato in servizio con l’obbligo di non mostrare il distintivo della polizia croata durante l’orario di lavoro – una misura che sanziona il poliziotto o protegge la Polizia da ulteriori accuse?

Una lugubre routine

Che si tratti di gruppi paramilitari o polizieschi, in Croazia sono perpetrati atti inumani e degradanti nei confronti dei migranti in transito con cinica sistematicità1, al punto che i respingimenti attuati dalle unità croate sembrano andare sotto il nome in codice “action corridor”, come hanno riportato svariati media eminenti ben prima del 6 ottobre 20212.
Le organizzazioni che operano in Croazia e i media hanno documentato centinaia di testimonianze di persone con esperienze simili con la polizia antisommossa, quindi questo non è stato un incidente isolato”, ha affermato Massimo Moratti, vicedirettore della ricerca di Amnesty International per l’Europa, intervistato da H-Alter in merito a questa vicenda. Transbalkanka Solidarnostuna rete di persone che informano l’opinione pubblica e denunciano le violenze sulle persone in movimento lungo la rotta Balcanica, hanno rilasciato dichiarazioni molto forti. “Il fatto che gli agenti di polizia siano rimasti impuniti suggerisce che lo Stato croato si sta muovendo verso la legalizzazione e la normalizzazione di queste pratiche violente, e che la magistratura è solo un pione nelle mani del suo ramo esecutivo”, hanno affermato nel corso di un’intervista con H-Alter. “Se questi ufficiali “che stavano solo obbedendo agli ordini” fossero puniti con la perdita del posto di lavoro, si tratterebbe solo di un evento collaterale in un sistema che non solo tollera, ma organizza, detta e finanzia abusi e torture”.

La polvere sollevata dalla Direzione di Polizia e dal Ministero dell’Interno ogni volta che un nuovo video o una nuova testimonianza rivelano quanto accade sul confine croato-bosniaco non fa che confermare questa routine dalla cui responsabilità cercano di sfuggire tutti, dagli agenti ai loro mandanti diretti, dalle unità di Polizia croata all’Unione Europea, in un lugubre gioco di specchi che la Storia avrà il compito di raccontare e vendicare.

  1. Un articolo sulle violenze della polizia croata su Deutsche WelleL’Ue è complice della brutalità della polizia croata? | Notizie e attualità dalla Germania e da tutto il mondo | | DW 24.11.2020
  2. Articolo di The GuardianCroatia denies migrant border attacks after new reports of brutal pushbacks | Global development | The Guardian

da Meltingpot Europa