Torino, sgomberato il centro sociale Edera Squat. La solidarietà si è espressa subito con un primo corteo. Alle compagne e compagni occupanti massima solidarietà dal soccorso rosso proletario, BASTA SGOMBERI!

Nella casa occupata di via Panezza all’arrivo delle forze dell’ordine c’erano sette persone che saranno denunciate per occupazione abusiva.

Da osservatorio repressione

E’ scattato intorno alle 6.00 di questa mattina, lunedi 3 ottobre, il blitz per lo sgombero del centro sociale Edera Squat. Le camionette della polizia si sono presentate ancor prima che sorgesse il sole in zona Lucento. Non è chiaro al momento quante persone ci siano all’interno del centro sociale di via Pianezza. Sui social è subito scattato il tam tam sui vari profili autonomi, con inviti ad accorrere in zona per contrastare lo sgombero.

Uno spazio di socialità e aggregazione in un quartiere completamente dimenticato dalle amministrazioni cittadine, Vallette infatti funge soltanto da pass partout quando la stampa deve parlare del disagio e della povertà in stampo pietistico. L’ Edera ha organizzato momenti in quartiere per bambini e famiglie, incontri ed eventi musicali, sportivi e cineforum in piazza, è stato un luogo di scambio e confronto, un punto di riferimento per chi abita in territori di cui nessuno si cura.

Questo sgombero si inserisce in un clima che ormai da anni vede i movimenti sociali in città sotto attacco da parte delle istituzioni. Torino è una città piena di contraddizioni, la metropoli più povera del Nord Italia, dove tra il centro e la periferia le speranze di vita diminuiscono di 5 anni. E’ evidentemente una città sofferente dove le questioni sociali vengono sempre più gestite come problemi di ordine pubblico e le esperienze che provano a costruire alternative vengono costantemente poste sotto attacco.

Con lo sgombero dell’Edera prendono corpo le minacce mosse la scorsa estate dal Comune di cancellare gli spazi occupati e i centri sociali dal tessuto sociale torinese.

Queste scelte politiche e poliziesche evidenziano la totale cecità e incapacità di previsione delle amministrazioni di fronte a una città sempre più invivibile, vuota e in cui “la sicurezza” viene portata come vessillo per ogni problema. Forse una migliore gestione delle risorse, un’attenzione maggiore per i bisogni dei giovani, dare priorità ai servizi essenziali rendendoli efficienti e accessibili potrebbero essere alcune idee…

Ma invece a chi amministra interessa soltanto continuare a guadagnare sul debito di questa città, mandare in galera ragazzini e sgomberare spazi di possibilità e libertà.

La corrispondenza di Radio Onda d’Urto dal centro sociale Edera Ascolta o scarica

La corrispondenza di Radio Onda Rossa dal centro sociale Edera Ascolta o scarica

Iran, non si fermano le proteste contro il regime clerico-fascista. Manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo

Venti persone, compresi membri della polizia, sono state uccise in scontri armati a Zahedan venerdì 30 settembre. All’inizio i manifestanti hanno lanciato pietre contro una stazione di polizia, ma poi uomini armati hanno cercato di assaltare i tre centri delle forze dell’ordine. Diversi agenti di polizia sono stati uccisi così come il numero due dei servizi di intelligence delle Guardie Rivoluzionarie. Banche e centri commerciali sono stati attaccati da manifestanti inferociti e la repressione delle manifestazioni è stata mortale (finora sono stati contati 58 morti). Zahedan è la capitale provinciale del Sistan-Baluchistan è una regione svantaggiata al confine con Pakistan e Afghanistan.

Sabato si sono svolte manifestazioni in diverse università iraniane per denunciare la micidiale repressione del movimento di protesta. Manifestazioni “sono state organizzate anche in piazza Enghelab vicino all’Università di Teheran, nel centro della capitale, dove sono scoppiati scontri tra la polizia ei manifestanti, alcuni dei quali sono stati arrestati. La polizia iraniana ha arrestato diverse personalità che si erano espresse sui social network a favore dei manifestanti, tra cui l’ex calciatore internazionale Hossein Manahi o il cantante Shervin Hajipour, la cui canzone “Baraye” (“For”), composta da tweet sulle proteste, è andata virale su Instagram. La polizia ha anche arrestato una donna che ha mangiato in un ristorante a Teheran senza velo in un’immagine diventata virale sui social media. Almeno 29 giornalisti sono stati arrestati, tra cui Nilufar Hamedi ed Elahe Mohammadi, reporter che hanno contribuito a esporre il caso di Amini. All’estero, sabato si sono svolte manifestazioni di solidarietà, alla presenza della diaspora iraniana, in più di 150 città, tra cui Berlino, Bruxelles, Roma, Madrid, Atene, Bucarest, Londra, Lisbona, Varsavia e Tokyo.

Di seguito immagini della manifestazione a Milano

Francia: Georges Abdallah in sciopero della fame di solidarietà

Dal 25 settembre, 30 prigionieri palestinesi imprigionati senza accusa né processo in “detenzione amministrativa” hanno intrapreso uno sciopero della fame per chiedere la fine di questa politica, che attualmente imprigiona più di 740 prigionieri palestinesi sotto “prove segrete”. Sabato 1 ottobre, l’attivista comunista libanese Georges Abdallah ha annunciato che avrebbe iniziato uno sciopero della fame di un giorno in solidarietà con questa mobilitazione. In una lettera indirizzata al direttore del Centro Penitenziario di Lannemezan, ha dichiarato:“In solidarietà con i combattenti della Resistenza palestinese imprigionati nelle carceri sioniste che sono in sciopero della fame per denunciare la loro detenzione arbitraria e chiedere l’abrogazione della legge che consente la ‘detenzione amministrativa’, oggi 1 ottobre sono in sciopero della fame” . Imprigionato in Francia dal 1984, Georges Abdallah è un combattente della resistenza palestinese riconosciuto come parte del movimento dei prigionieri palestinesi. Regolarmente partecipa a scioperi della fame o rifiuto del set in solidarietà con i suoi compagni imprigionati dall’occupazione israeliana, in particolare nel 2016, 2017 e 2019.

Gli interventi all’Assemblea proletaria anticapitalista del 17/9 – Soccorso rosso internazionale e Avv. Gianluca Vitale Torino

INTERVENTO DI SOCCORSO ROSSO INTERNAZIONALE 

Soccorso rosso internazionale che al di là del titolo è una realtà ben modesta, però da molti anni noi ci siamo aggregati alla fine degli anni ‘90 su un punto importante alla fine degli anni 90 proprio all’apice della deriva di resa che c’era nel movimento rivoluzionario italiano – parlo delle organizzazioni armate fra gli anni 70 e gli anni 80 che hanno lasciato purtroppo uno strascico anche negativo. Una parte di compagni che abbiamo rifiutato quella deriva e con altri in Europa sugli stessi presupposti abbiamo formato questa realtà che poi si è messa anche in relazione organica con Turchia e Kurdistan, con un confronto con rivoluzionari molto vivi.

La repressione sappiamo che dilaga, anzi ultimamente abbiamo assistito a delle condanne pazzesche sia ad alcuni anarchici che verso alcune lotte di massa. E la tendenza in tutti i paesi è di aumento della

repressione. Di fronte a questo spesso l’atteggiamento dei movimenti e soprattutto dei gruppi politici non solo di difensivo ma è di arretramento. Ma si deve porre la questione della repressione in un aspetto di scontro, che deve comunque crescere, se noi ne siamo capaci, è trasformarlo via via in guerra di classe. Noi abbiamo visto in Italia in altre realtà che la lotta di classe può trasformarsi in guerra di classe. Nonostante le condizioni oggi sono difficili, c’è disgregazione, ma io credo che il proletariato e le forze progressiste della società hanno solo quello sbocco lì, non è che ce ne sono tanti. C’è la via istituzionale parlamentare elettorale su cui vediamo quante delle frazioni di classe purtroppo seguono, e c’è invece la via della rottura netta chiara, in cui le nostre parole di condanna totale del capitalismo e l’imperialismo devono portare a schierarsi su quel campo che comincia a costruire i termini della guerra di classe, che comincia innanzitutto a trasformare ogni lotta anche minima in elementi di autonomia di classe, quindi quantomeno sganciarsi da tutto il controllo politico sindacale; dall’altro via via sviluppare il dibattito e la crescita organizzativa. Più cresce la nostra rabbia, la nostra disponibilità nella lotta, più bisogna trasformarla in elementi reali concreti che vanno verso quell’orizzonte, se no non andiamo da nessuna parte soprattutto su questo aspetto. In questi anni è stato difficile, ci siamo agganciati idealmente e anche in parte organizzativamente alla realtà del cosiddetto “tri continente”, a partire dalla Turchia/Kurdistan in particolare e non solo, perché lì la corrispondenza fra dire e fare c’è, si vede, si sente. E questo è fondamentale.

Su come si affronta la repressione si possono far crescere dei livelli di coscienza. Noi abbiamo tutta un’esperienza dei carcerati, di quelli che hanno fatto o che ancora adesso fanno parte delle Brigate Rosse che stanno in carcere da quarant’anni – ora sono una ventina; questi compagni sono stati quasi tutti arrestati dall’82,  tra l’altro a cavallo di operazioni come quella del sequestro del generale Dozier a capo della NATO al massimo livello – quella vicenda richiama che cos’è la NATO cioè un’organizzazione terroristica e guerrafondaia che oggi la vediamo all’opera dall’Ucraina al Medio Oriente, ecc. e all’epoca fu affrontata con quella capacità del movimento di classe a un altissimo livello. Lo Stato anche rispose con un altissimo livello di repressione, con la tortura scientifica, all’argentina, alla statunitense. Alcuni compagni resistettero e ci onoriamo di avere un compagno come Cesare di Lenardo che fu esemplare in questa resistenza con tre giorni di tortura e che ancora oggi in carcere difende la linea. Noi dobbiamo apprezzare e valutare quello che il movimento di classe ha prodotto di più maturo e rispetto a questo anche imparare.

Penso alla gente del Notav, dei facchini, di altri movimenti, degli studenti, a cui bisogna trasmettere il fatto che la repressione è inevitabile non è un fatalismo, anzi cresce, e ci sono due modi di affrontarla, o arretrare implorando amnistie determinate riforme legislative, cioè affidandosi allo Stato, ai partiti dominanti. Tutto questo significa prima di tutto arrendersi perché lo Stato semmai ci sarà una briciola ce la da quando ci si inginocchia e si cedono le armi in alcuni casi, oppure anche solo le armi ideologiche.

Quindi sulla repressione si gioca una partita importante e noi in Italia abbiamo una cosa che ha un valore enorme che sono sempre questi compagni e le compagne che sono al 41bis, resistono da 17 anni. Il 41bis è una cosa tremenda, è una tortura pura, ma loro resistono.

Non si può fare i descrittivi, i lamentosi. Noi dobbiamo imparare a resistere, ad avanzare nella difficoltà delle lotte. E’ quello che ci insegnano i movimenti in Turchia, nel mondo arabo, in America Latina dove subiscono delle pressioni tremende ma sono capaci di resistere, subiscono delle sconfitte ma si riprendono e vanno avanti.

Come soccorso rosso internazionale è questo quindi il nostro modestamente apporto che cerchiamo di dare; cioè mettere questo elemento di forza in prospettiva

Anche stamattina siamo andati in piazza con i compagni e le compagne per l’India e lì il taglio era giusto, anche se si eccedeva secondo me nella descrizione delle torture e stupri ai prigionieri politici, ma soprattutto si è detto che lì c’è una guerra rivoluzionaria in atto. Noi difendiamo questo. Purtroppo ha prevalso soprattutto in Italia l’aspetto di denuncia di tutte le le malefatte dello Stato e però c’è l’ha resa per lottare per un cambiamento, E lì bisogna scegliere, bisogna fare la scelta di vita da che parte si sta e che cosa si vuole. Se noi vogliamo davvero la rivoluzione giustamente difendiamo i prigionieri ma difendiamo i prigionieri per difendere il valore delle lotte, difendiamo la rivoluzione.

INTERVENTO DELL’AVV. GIANLUCA VITALE – TORINO

L’assemblea del 17 settembre guarda al cuore di quello che potrebbe essere un nuovo autunno caldo. I temi sono tanti, tanti i motivi per scendere in piazza e lottare, per agire il conflitto sociale: dalla crisi (anche, ma assolutamente non solo e neppure prevalentemente, post pandemia) alle delocalizzazioni, dall’attacco ai diritti dei lavoratori e alle loro tutele al sacco privato alla sanità,  dalla partecipazione di fatto alla guerra in Ucraina alle criminali politiche di chiusura dell’Unione Europea e agli accordi anti-migranti con stati dittatoriali e/o autoritari ed antidemocratici, dall’abbandono della scuola pubblica alla creazione sempre più di un sistema di trasporti che privilegia le lunghe tratte costose e impattanti sull’ambiente, abbandonando al degrado le linee pendolari, dalle devastazioni ambientali e dagli attentati alla salute dei cittadini alle condizioni nelle carceri e nei luoghi di detenzione come i CPR, a tanti e tanti altri.

Occorre, però, essere onesti: non si è da anni palesato un grande movimento di massa che sappia cogliere ed unire queste lotte; lotte che in alcuni casi hanno dimostrato una estrema forza e capacità di tenuta, che sono state da esempio per tutte e tutti (da “torinese” non posso non richiamare come esempio la lotta del popolo No Tav; ma tanti sono gli esempi positivi), ma che non sono riuscite a raggiungere quelle dimensioni e trasversalità che qualche decennio fa sembravano acquisite.

A fronte di ciò, o forse anche in ragione di questo momento di parziale debolezza del movimento popolare, ciò che stupisce (ma non troppo) è la risposta che viene data al disagio e al conflitto. Conflitto, è bene precisare e ricordare, che è contrapposizione tra opinioni diverse, non necessariamente e solo violenza; il conflitto, che è dialettica anche dura, è un connotato che identifica una società democratica, e negargli cittadinanza significa negare l’essenza stessa della democrazia, ridurla a mera democrazia elettorale o meglio plebiscitaria, nella quale solo l’urna è legittimata a regolare la vita democratica; elezioni, peraltro, governate da meccanismi e regole che ormai ne hanno snaturato anche questa funzione pseudo democratica, riducendo anch’esse ad un vuoto simulacro. Negare il conflitto significa, allora che il cittadino può e deve limitarsi ad applaudire, non essendogli neppure consentito di protestare o contestare l’oratore di turno.

La risposta al conflitto, allora, è a vari livelli (come tenterò di argomentare) di tipo prettamente repressivo; a fronte di movimenti di lotta che propongono alternative realmente radicali (ma anche a fronte di “vite”, e/o di scelte di vita, ritenute inadeguate) il ”sistema” non sa far altro che agire la repressione, utilizzando come risposta principale il manganello e il carcere.

Come dicevo, questa modalità di rispondere (che è in fondo “a-politica”, perchè rifiuta ogni possibile confronto con l’”avversario”, ma si limita ad imporre la propria visione con la forza; non accetta il confronto politico e non riconosce dignità politica a chi lo contesta o si pone al di fuori delle regole, ma si limita a combatterlo “militarmente” e giudizialmente) si attua a vari livelli, che di fatto corrispondono ai tre poteri “classici” dello stato liberale.

Il primo è proprio il livello normativo: il Parlamento è sempre meno uno specchio della composizione politica e sociale (e sempre più rappresentazione unicamente delle maggioranze dei votanti, con lo svilimento o meglio l’annullamento della rappresentanza non solo delle minoranze ma anche delle classi subalterne economicamente) ed è comunque esautorato anche dalle sue funzioni (chiamato com’è, ormai, a svolgere di fatto la mera funzione di organo di ratifica delle scelte dell’esecutivo); le decisioni vengono prese dall’esecutivo, dal Governo, con lo strumento della decretazione d’urgenza; con il richiamo ad artificiose situazioni di urgenza ed eccezionalità si legittimano i sempre più frequenti decreti sicurezza e le norme che altro non fanno che inasprire la repressione in particolare delle lotte popolari (aumento di pene per determinati reati, introduzione di ostatività ai benefici penitenziari, carcere duro, reintroduzione di reati tipicamente destinati a reprimere il conflitto, come il blocco stradale). Questi strumenti normativi, inoltre, rispondono alle situazioni di marginalità determinate dal liberalismo con una ulteriore marginalizzazione (si pensi alle misure a tutela del decoro del decreto Minniti, o alle misure criminali e criminogene contro i migranti). Così il sistema liberale prima determina le condizioni perchè si sviluppi il conflitto (impoverendo il proletariato, emarginando ampie fette della popolazione, riducendo le tutele del lavoro, tentando di costruire muri armati contro i movimenti delle persone migranti, devastando l’ambiente ed attentando alla sopravvivenza della stessa specie umana), e poi non ha altro modo per rispondere a quel conflitto che con la costruzione di meccanismi di repressione.

Il secondo livello è quello esecutivo: livello che nella sua estrinsecazione di vertice aspira ad assorbire di fatto il primo (esecutivo/governo bulimico che si sostituisce voracemente e di fatto esautora delle sue funzioni il legislativo/parlamento), e nel suo sviluppo e nei suoi organi periferici (dal Ministero dell’Interno alle Questure), gestisce e mette in pratica i progetti antidemocratici e repressivi. La gestione delle piazze (così come, a ben riflettere, la gestione quotidiana dell’ordine e della sicurezza pubblica) è, dunque, coerente con il progressivo deterioramento ed impoverimento delle garanzie dei lavoratori e con il continuo richiamo ad allarmi sulla sicurezza dei cittadini. E si creano i “nemici pubblici”, con costruzioni  che sono da un lato figlie degli allarmi mediatici artificialmente generati e dall’altro sorelle delle norme emergenziali securitarie (nemici che sono il migrante o lo zingaro, ma anche l’anarchico o l’antagonista o il sindacalista di base).

Ben si spiega, allora, una gestione delle piazze e un approccio al conflitto unicamente in chiave repressiva, in una continua ricorsa alla criminalizzazione e al contrasto manu militari delle manifestazioni di protesta. Sempre di più vittime di ciò sono anche i movimenti sindacali di base, proprio in quanto “pericolosi” per l’ordine costituito perchè indisponibili a meccanismi narcotizzanti di concertazione e portatori di istanze radicali di difesa dei diritti dei lavoratori. Significativo è che a volte manifestazioni, picchetti o occupazioni di lavoratori e sindacati subiscono veri e propri assaltati da parte di squadracce padronali, nel completo disinteresse delle forze di polizia, che così disvelano il reale significato (e le finalità “di classe”) della loro presenza.

Così come vittime di queste repressioni sono i movimenti per la difesa del territorio e dell’ambiente, sia locali (come i NoTav o i NoTap, sempre ammesso che questi movimenti possano definirsi locali, ciò che in realtà non è corretto) sia slegati dalle singole situazioni (si pensi alla parabola di movimenti come Extinction Rebellion, che da movimento quasi “coccolato” dai media come un cucciolo di panda, presentato come un simpatico gruppo di giovani ingenui ed idealisti, ha iniziato a subire la repressione sia con gli interventi in piazza delle forze dell’ordine sia con l’adozione contro i suoi militanti di misure di prevenzione come i fogli di via) o i movimenti studenteschi (il movimento contro l’alternanza scuola-lavoro dello scorso inverno-primavera, nato dopo le tragiche morti di alcuni studenti, è stato brutalmente e immotivatamente represso nelle piazze a colpi di manganello).

Agli strumenti di repressione fisici il livello esecutivo/di polizia aggiunge quelli giuridico-amministrativi, come i fogli di via obbligatori (adottati a centinaia in tutta Italia contro i militanti dei vari movimenti) o le proposte di sorveglianza speciale (misure di prevenzione, tutte, che non necessitano di prove, essendo sufficiente il mero sospetto per giustificare l’adozione della misura).

Ma è il successivo “livello”, la risposta al conflitto da parte della magistratura, a meritare un ulteriore approfondimento: l’autorità afferente al potere esecutivo (le forze dell’ordine o le autorità amministrative quali la prefettura) gestiscono l’ordine pubblico e successivamente conducono (di loro iniziativa) le indagini, ma è poi la magistratura (prima inquirente e poi giudicante) a darvi corso e soluzione giudiziaria.

Cinghia di trasmissione tra la polizia giudiziaria e il processo è la magistratura inquirente, le Procure. Ma le procure, soprattutto quando si trovano a condurre indagini relative al conflitto sociale o a questo o quel movimento o area politica “radicale”, sempre più spesso e sistematicamente si limitano a recepire quanto propostogli dalla polizia giudiziaria (spesso impersonata dai funzionari DIGOS), senza operare uno sforzo teso a comprendere il contesto in cui quella specifica lotta, o quel movimento, o quell’azione, si collocano, e senza verificare la linearità, correttezza, integralità dell’attività di indagine che ha inizialmente condotto l’autorità di polizia. Si giunge così a procedimenti penali in cui è evidente che ad essere entrati nel mirino delle indagini sono solo i “militanti”, scelti accuratamente tra i molti soggetti che hanno tenuto condotte magari analoghe (un recente esempio è il processo per l’occupazione, nel 2015, di una pineta vicino agli scogli a Ventimiglia dove si era installato una sorta di campeggio/comune autogestita di migranti e solidali: ad essere processati, e poi in parte condannati, sono stati unicamente i militanti antirazzisti ritenuti riconducibili ad aree anarchiche o antagoniste, a fronte di centinaia di persone – tra cui anche personaggi della cultura, della politica, dello spettacolo – che avevano dato solidarietà attiva all’occupazione); o, ancora, a investigazioni che mostrano assoluta miopia nei confronti delle condotte criminose eventualmente tenute dalle forze dell’ordine o dalle già citate squadracce padronali (questo è ciò che – sistematicamente? – accade nei processi per scontri di piazza, nei quali la polizia giudiziaria ma anche i pubblici ministeri non vedono pestaggi, cariche ingiustificate, lanci di lacrimogeni ad altezza d’uomo, e altre condotte che meriterebbero queste sì di essere portate a processo).

Primo sbocco di queste indagini è, spesso, l’adozione di misure cautelari, sovente la custodia in carcere: uno strumento che dovrebbe essere utilizzato come estrema ratio (il carcere prima del processo) e che, invece, sembra quasi essere un corollario necessario di molti di questi procedimenti. Misure consentite proprio da quella continua opera di inasprimento delle pene per i reati legati al conflitto sociale cui abbiamo da anni assistito ed assistiamo.

A questa opera di investigazione selettiva, poi, si accompagna talvolta (e di recente ne abbiamo avuto clamorosi esempi, anche nella repressione dei movimenti sindacali) l’opera che definirei teoretica: la costruzione di teoremi, la contestazioni del reato di associazione (da quella semplice, a delinquere, a quella eversiva o terroristica), che consente di colpire anche coloro ai quali non si sia riuscito ad attribuire un reato particolare, di utilizzare massicciamente le intercettazioni, di chiedere misure cautelari molto rigide e pene esorbitanti, e di “costruire” pubblicamente dei “nemici”. Questi procedimenti fondati su teoremi si basano, molto spesso sulla visione di ogni attività dei soggetti indagati sotto la luce deformante del pregiudizio su cui si fonda il teorema; così ogni incontro, ogni frase detta (e intercettata), ogni viaggio, deve necessariamente diventare un incontro, una frase, un viaggio fatti nell’ambito del progetto delinquenziale o terroristico dell’associazione (una passeggiata in città non può che essere un sopralluogo o una ricerca di obiettivi da colpire; un viaggio non può che essere finalizzato a una riunione dell’associazione; la più banale delle frasi diventa un messaggio in codice;…).

A volte la magistratura requirente ha smentito queste accuse e questi teoremi (molte sono ad esempio state le assoluzioni per i lavoratori accusati di vari reati – dalla violenza privata alla resistenza – durante manifestazioni  sindacali, o le assoluzioni relative a processi per occupazione); spesso ha invece accolto le richieste dei pubblici ministeri, comminando pene anche alte.

A ben vedere, dunque, anche il terzo dei poteri dello Stato liberale, quello giudiziario, è in qualche modo diretto dal potere esecutivo, quanto meno nel campo della repressione di cui ci stiamo occupando: le sue richieste prima (da parte delle procure) e le sue decisioni dopo dipendono, infatti, da ciò che l’esecutivo (sotto forma di polizia giudiziaria) ha deciso (che sia quale fatto denunciare e su quale fatto fare una annotazione, che sia chi denunciare e per che reato).

Di fronte a questo strapotere dell’apparato repressivo l’unica possibile risposta viene da un rafforzamento dei movimenti e delle lotte, e non certo dal loro indebolimento: tanto più i movimenti sono deboli tanto più sarà “facile” colpirli anche dal punto di vista giudiziario; tanto più essi saranno forti tanto più difficile sarà colpirli, far passare come normali determinate condanne.

Diversi rapporti di forza, in fondo, possono essere determinanti in ognuno dei “momenti” della repressione che abbiamo visto: di certo sono determinanti al momento della costruzione delle norme, dunque a livello legislativo (come insegnano ad esempio  tutte quelle lotte che hanno in passato consentito di introdurre mitigazioni nel regime penitenziario), ma nel momento giudiziario (il clima, anche quello dentro e fuori le aule di giustizia, non è ininfluente sugli esiti giudiziari) e, ovviamente, quello della gestione delle piazze (luogo principe in cui decisivo è il rapporto di forza).

Anche nel cuore dell’Europa “laica e democratica” la solidarietà internazionalista alla lotta delle donne e del popolo iraniano viene repressa

Anche lunedi 26 settembre, la folla è scesa in piazza nelle principali città dell’Iran, compresa la capitale Teheran, dopo la morte della 22enne Mahsa Amini .

Più di 1.200 manifestanti sono stati arrestati e, secondo la ONG Iran Human Rights, piu di 76 persone hanno perso la vita a causa della dura repressione delle proteste.

Amnesty International ha dichiarato che almeno quattro bambini sono stati uccisi dalle forze di Stato dall’inizio delle proteste.

Anche Gli iraniani che vivono a Istanbul si sono radunati davanti al Consolato iraniano, mentre prende piede l’iniziativa “Be our voice” (Sii la nostra voce) per ampliare le proteste all’estero contro la violenza della polizia e il blocco di internet .

Nel frattempo centinaia di manifestanti si sono scontrati con la polizia antisommossa a Parigi mentre cercavano di marciare verso l’ambasciata iraniana domenica 25 settembre. La polizia ha usato i gas lacrimogeni per respingere i manifestanti, indignati per la morte di Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per non aver rispettato le norme del paese in materia di hijab.

Scene di tensione anche all’esterno dell’ambasciata iraniana a Londra, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia. I manifestanti si sono inizialmente radunati davanti all’ambasciata prima di spostarsi a Marble Arch e al Centro islamico d’Inghilterra. Cinque agenti sono stati feriti e 12 persone sono state arrestate.

Amini, 22 anni, era stata arrestata a Teheran il 13 settembre dopo che la “polizia morale” iraniana l’aveva accusata di non aver rispettato le rigide norme del Paese in materia di hijab, secondo quanto riportato dai media statali. Le circostanze della sua morte, avvenuta il 16 settembre, rimangono un argomento molto controverso. La polizia sostiene che sia morta per un attacco cardiaco dopo essere stata portata in un centro di detenzione a Teheran per essere “rieducata” alla regola dell’hijab. La sua famiglia e testimoni oculari, tuttavia, hanno affermato che è stata picchiata nel furgone della polizia prima di essere portata al centro di detenzione, con segni di tortura e di abuso visibili sul suo corpo.

Per informazione solidale e dibattito pubblichiamo estratti di un comunicato dei compagni iraniani contro il regime islamico e l’imperialismo americano, tratti dal blog proletari comunisti

23 settembre 2022

L’hijab obbligatorio sta bruciando tra le fiamme della rabbia popolare in decine di città e villaggi, aprendo una via al rovesciamento della Repubblica islamica e alla sepoltura dell'”integrazione di religione e stato”. Nel 1979, il decreto obbligatorio sull’hijab di Khomeini fu l’inizio dell’istituzione di un regime fondamentalista islamico onnicomprensivo.  La sepoltura dell’hijab obbligatorio accelera il processo di rovesciamento di questo regime religioso fascista a passi da gigante. L’hijab obbligatorio e la legge della Sharia (l’integrazione di religione e governo) hanno spianato la strada alla Repubblica islamica per calpestare i più ampi diritti fondamentali del popolo in tutti gli aspetti della vita: repressione del dissenso; libertà di pensiero, espressione e stampa; libertà di associazione e partigianeria; repressione delle nazionalità oppresse; repressione di lavoratori, studenti e insegnanti, ecc. L’hijab obbligatorio è il collante della Repubblica islamica, come hanno sottolineato i suoi leader, “mantenerlo è ancora più importante dell’antiamericanismo”.

Non va mai dimenticato che il “contributo” degli imperialisti – specialmente degli imperialisti americani – in particolare al consolidamento e alla fortificazione del fondamentalismo islamico in Iran e in tutto il Medio Oriente è stato enorme. Nel 1979, gli Stati Uniti e altre potenze capitaliste imperialiste aprirono all’unanimità la strada ai fondamentalisti islamici per prendere il potere in Iran. A quel tempo, l’imperialismo americano governava la società americana e il mondo nel quadro della sua rivalità antisovietica e delle campagne anticomuniste, che rafforzavano le fondamenta del suo potere all’interno degli Stati Uniti contro gli effetti della rivolta rivoluzionaria degli anni ‘60 e ‘70 e rafforzavano la propria egemonia imperialista in Medio Oriente contro il suo rivale imperialista, l’Unione Sovietica, che indossava ancora la maschera del socialismo. All’interno dell’Iran, l’anticomunismo faceva parte del suo approccio politico contro il vero movimento comunista che stava crescendo in influenza, nonostante la sanguinosa repressione del regime dello Scià.

Sebbene lo stesso governo degli Stati Uniti si basi sulla “separazione tra chiesa e stato”, il governo degli Stati Uniti, sia le fazioni democratiche che repubblicane, ha trasformato questo principio in una questione molto relativa risalente al 1950 quando hanno aggiunto le parole “sotto dio” alla cerimonia di giuramento dei suoi presidenti. Questi cambiamenti politici hanno aumentato l’influenza dei fascisti cristiani fondamentalisti nelle sedi di governo americane, dove si sono ulteriormente trincerati, aprendo la porta al potere durante la presidenza Trump (2016-2020), quando la loro influenza è cresciuta a passi da gigante. Non va mai dimenticato che garantire la posizione della schiavitù delle donne nella famiglia e nella società è uno dei loro principi fondamentali per governare la società americana e il mondo.

Pertanto, qualsiasi illusione di sostegno imperialista americano alle donne iraniane, sia da parte dei democratici che dei repubblicani fascisti, è un grande tradimento di un movimento che ha iniziato a seppellire la misoginia in Iran. Dovremmo imparare dall’amara esperienza dell’Afghanistan che non solo gli Stati Uniti hanno scritto una costituzione per l’Afghanistan basata sull’Islam hanafita, ma ha anche aperto la strada al ritorno dei talebani.

Come abbiamo ripetutamente sottolineato, il fondamentalismo islamico e l’imperialismo sono due sistemi che devono essere rovesciati. Sebbene i fondamentalisti islamici al potere in Iran e altrove in Medio Oriente siano stati in contrasto con l’imperialismo, il loro obiettivo non è mai stato quello di rompere con l’imperialismo e la proprietà privata del capitalismo. Piuttosto, hanno perseguito i loro orizzonti e interessi sociali e politici all’interno di questo sistema capitalista-imperialista.

Le catene della prigionia religiosa devono essere spezzate

Tutte le religioni del mondo, e in particolare le religioni abramitiche (Islam, Cristianesimo ed Ebraismo), sono religioni patriarcali sature delle relazioni sociali di superiorità maschile sulle donne e trattano le donne come esseri meno che umani. Sottolineano apertamente e violentemente la necessità che le donne si sottomettano agli uomini, al dominio del padre e del marito, e di ogni maschio su chiunque del genere femminile nella famiglia, nella tribù e nella società. Legando questi principi arcaici alla macchina capitalista, è stato creato un terrore infinito e unico per le donne in Iran e nel mondo. Tutti i movimenti religiosi fondamentalisti del mondo, compresi quelli islamici, cristiani, ebrei, indù, ecc., hanno una comunanza epistemologica e politica molto importante: sono tutti anti-scienza e vedono la religiosità come un fattore importante per mantenere le società sotto il loro stretto controllo. Questo è vero per i fascisti cristiani in America che sono concentrati nel Partito Repubblicano oggi. L’abolizione del diritto all’aborto in America da parte dei giudici che sostengono questi fascisti ne è la prova.

Oggi, nel quadro del mondo in cui domina il capitalismo, ci saranno senza dubbio interessi di classe e sociali di forze sociali obsolete e reazionarie in ogni area dei rapporti economici, politici e sociali che aderiscono alla religione. Solo una repubblica socialista può garantire la “separazione della religione dallo Stato”. Questa separazione significa rimuovere la religione da tutte le sfere pubbliche della società e del governo; significa che lo Stato deve garantire che la religione sia limitata alla sfera privata dei cittadini, anche adottando una Costituzione e leggi in vari campi che lo impongano, tra cui l’istruzione primaria e superiore, l’assistenza sanitaria, l’economia e la proprietà, e in generale nell’ambito dei poteri e dei doveri dei tre rami esecutivo, legislativo e giudiziario.

Per far avanzare con successo la lotta che è iniziata e per eliminare tutte le forme di oppressione e sfruttamento, la superstizione religiosa in qualsiasi forma deve essere eliminata e le catene ideologiche del pensiero religioso devono essere spezzate e sostituite da una visione del mondo, un metodo e approccio alla realtà, scientifici.

Seppellire l’hijab obbligatorio!

Rovesciare la Repubblica Islamica!

Avanti verso l’istituzione di una nuova Repubblica socialista dell’Iran!

Partito Comunista d’Iran (marxista-leninista-maoista)

23 settembre 2022

Bologna: la questura denuncia chi si oppone all’odio fascista. Solidarietà agli antifascisti denunciati, fronte unito contro la repressione

SIAMO TUTTƏ ANTIFASCISTƏ!

In queste ore, la questura di Bologna sta procedendo con la notifica di alcune denunce contro quel moto di rifiuto dell’odio fascista che qualche mese fa, spontaneamente, aveva visto compatta la zona universitaria.

I fatti in questione (rispetto a cui avevamo già preso parola qui: https://cuabologna.it/2022/05/20/warning-fascist-fake-news/ ) risalgono alle ultime giornate di maggio caratterizzate dal rinnovo degli organi accademici dell’unibo e sfruttate da Azione Univeristaria per gironzolare con fare smargiasso intorno a Piazza Verdi. Durante tali giornate si erano andati a verificare e moltiplicare per tutta via Zamboni episodi di provocazione, molestie, minacce, scritte xenofobe e sessiste, svastiche sui muri e il tutto era culminato il 19/05 con una simpatica irruzione all’interno dell’auletta autogestita del 38 strappando i manifesti trovati al suo interno e pisciando sui muri.

Quella stessa sera, per festeggiare una giornata piena di sane nefandezze, i prodi fascistelli andavano a zonzo innenneggiado alle camice nere e pensando di poter minacciare indisturbatamente chi gli si presentasse davanti, e fu allora che la risposta di studenti e studentesse, precari e precarie della zona uni si dimostrò compatta nel volerli via dalle proprie strade, via dai propri plessi universitari.

È quanto mai ironico come chi di giorno in giorno professa l’odio come propria fede, sia pronto ad andare a piagnucolare nelle comode aule dei tribunali non appena le proprie minacce vengono rimandate al mittente.

In un momento storico in cui tra fame, miseria, guerra e devastazione, le destre cavalcano il malcontento popolare, è bene ricordare ai Meloni, Salvini, e chi altro di turno, che la risposta dal basso sarà sempre un deciso “No”.

In un momento storico in cui l’antifascismo diventa uno slogan vuoto, diventa uno strumento da campagna elettorale, la zona universitaria continua a trasmettere come l’antifascismo vero debba essere pratica concreta e quotidiana, fuori dalle retoriche di partito e dalla stagionalità del voto.

Oggi come ieri, ZONA UNI ZONA ANTIFA!

CUA Bologna