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Un giorno buio per la libertà di stampa in tutto il mondo: firmata l’ordinanza di estradizione per il giornalista Julian Assange
«Estradiamo Assange»: Londra consegna agli Usa il bottino della war on terror

Protesta fuori dalla Westminster Magistrates’ Court di Londra – Ap/Alastair Grant
Molto è perduto per Julian Assange, ma ancora non tutto. Ieri la ministra britannica dell’Interno Patel ha firmato l’ordinanza di estradizione per il giornalista e hacker australiano, detenuto ormai dal 2019 nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, l’atto finora conclusivo di una saga giudiziaria che si protrae ormai da circa un decennio (Assange si rifugiò nell’ambasciata ecuadoregna a Londra nel 2012).
I suoi avvocati hanno due settimane per appellarsi nuovamente alla Corte suprema britannica e, laddove necessario, in ultima istanza alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Se anche queste due azioni in extremis fallissero, Assange decollerà per gli Usa, dove rischia 175 anni di carcere per spionaggio.
UN PORTAVOCE del ministero dell’Interno ha dichiarato: «In questo caso, i tribunali del Regno unito non hanno ritenuto che sarebbe oppressivo, ingiusto o un abuso procedurale l’estradare il signor Assange. Né hanno ritenuto che l’estradizione sarebbe incompatibile con i suoi diritti umani, compreso il suo diritto a un processo equo e alla libertà di espressione, e che mentre si trova negli Stati uniti sarà trattato in modo appropriato, anche in relazione alla sua salute». È la stretta finale dell’ordito poliziesco tessutogli attorno.
Stella Moris, che Assange ha sposato in carcere, ha rivelato che il marito le aveva detto «recentemente» che se fosse stato estradato aveva in animo di togliersi la vita e che il prossimo appello includerebbe prove secondo cui la Cia avrebbe cercato di assassinarlo con il veleno quando ancora era rifugiato dentro l’ambasciata ecuadoriana a Londra.
In un proprio comunicato, WikiLeaks ha affermato che «oggi è un giorno buio per la libertà di stampa e la democrazia britannica. Chiunque in questo Paese abbia a cuore la libertà di espressione dovrebbe vergognarsi profondamente del fatto che il ministro dell’Interno abbia approvato l’estradizione di Julian Assange negli Stati uniti, il Paese che ha complottato il suo assassinio».
«OGGI NON È LA FINE della lotta – continua la dichiarazione – È solo l’inizio di una nuova battaglia legale il prossimo ricorso sarà dinanzi all’Alta Corte». Gli ha fatto eco Amnesty International: l’estradizione «metterebbe a rischio e manda un messaggio agghiacciante ai giornalisti».
Julian Assange è naturalmente reo di aver fondato WikiLeaks e aver mostrato lo zio Sam in flagranza criminosa mentre difendeva la democrazia, combatteva il terrore – diffondendolo con la war on terror, uno slogan che sembra il nome di un videogioco iper-violento – e, già che c’era, tutelava le proprie forniture di greggio a buon mercato.
WikiLeaks ha pubblicato migliaia di file riservati diplomatici e militari, nel 2010 e nel 2011, relativi alle guerre in Afghanistan e in Iraq, che documentano ciò che è anodinamente definito collateral damage ma che sarebbe tranquillamente ascrivibile alla categoria dei crimini di guerra.
E che rivelano come l’esercito americano abbia ucciso centinaia di civili – giornalisti compresi – in incidenti non denunciati durante la guerra in Afghanistan, mentre i documenti trapelati sull’invasione dell’Iraq indicavano in 66mila i civili uccisi dalle forze irachene o della coalizione.
UN CATASTROFICO danno d’immagine per gli Usa, punibile, in mancanza di peggio, con i due secoli scarsi di galera che vogliono affibbiare al reo non appena tocchi la (la la) land of the free. Anche per questo non hanno esitato a esercitare tutte le pressioni di cui erano capaci con l’alleato britannico.
Mentre l’Australia, il paese natale del giornalista, si comportava da diligente ex-colonia: bendandosi, turandosi le orecchie e tacendo sulla sorte del proprio fastidioso cittadino.
Quanto a Priti «Crudelia de Mon» Patel, era ampiamente previsto che avrebbe vergato il documento con meticolosa cura calligrafica. Facile anche immaginarle sfoderare il proverbiale, torvo sorrisetto mentre firmava: lo stessa smorfia nervosa con cui si difende da tutte le reazioni sdegnate – legali e politiche – relative all’altra deplorevole controversia in cui ha impantanato il suo dicastero, quella dei trasporti forzati di migranti in Ruanda.
Da Il manifesto
Azioni in Italia per la campagna di solidarietà con i prigionieri politici in India
Sardegna: La musica antimilitarista è ritenuta un «oltraggio». Solidarietà al rapper Bakis Bekis, “oltraggiose” sono le basi Nato e la repressione del popolo sardo

di Costantino Cossu
Nel settembre del 2018 il rapper Bakis Beks, dopo essersi esibito in un concerto all’Exme di Nuoro con una canzone contro le basi militari in Sardegna, era stato raggiunto da un decreto penale emesso dalla procura della Repubblica. Lunedì scorso si è aperto il processo, davanti alla giudice monocratica del tribunale del capoluogo barbaricino Daniela Russo. L’accusa contro il rapper è di oltraggio a pubblico ufficiale, perché durante l’esecuzione del brano antipoligoni Bakis Beks si sarebbe rivolto ai poliziotti che erano lì per il servizio d’ordine con il dito medio della mano destra sollevato.
Nel mirino anche il testo della canzone «Messaggio», con la quale Bakis Beks si era pronunciato contro la presenza delle basi militari in Sardegna. «Non c’è tempo per mediazioni, indennizzi, conciliazioni,questo è un messaggio ai coloni. Basta, fuori dai coglioni!», questo il passaggio incriminato, accompagnato dal dito medio alzato dal rapper. «Non posso accettare l’accusa – ha spiegato il cantante prima dell’udienza – Sono ritenuto colpevole di atti che non ho compiuto, ovvero di aver inveito contro le forze dell’ordine quando in realtà ho soltanto fatto la mia performance contro le basi militari in Sardegna, esprimendo legittimamente la mia opinione». «Ci batteremo contro un’accusa infondata – aggiunge l’avvocata del rapper Giulia Lai – Nella canzone del mio assistito sono state pronunciate parole di opposizione alle politiche militari nell’isola e non insulti contro le forze dell’ordine».
Solidarietà al rapper dagli antimilitaristi nuoresi dell’associazione Libertade e dal gruppo Nuoro antifascista, che prima dell’udienza in tribunale hanno promosso un sit-in srotolando uno striscione con la scritta «L’arte non si reprime». «Siamo un bersaglio perché ci opponiamo, anche attraverso la musica, alle politiche militari in Sardegna – denuncia il presidente di Libertade Giampiero Cocco – Ma non ci faremo intimidire. Continueremo a lottare per liberare la nostra terra dalle servitù militari e a stare al fianco di Bakis Becks, a processo per aver espresso le proprie opinioni».
Contro le basi si batte in Sardegna un vasto fronte pacifista e antimilitarista. Sono oltre 35.000 gli ettari di territorio occupati nell’isola dalle forze armate: il 60 per cento di tutte le servitù militari italiane, concentrato in un’unica regione. Per dare un’idea dell’estensione basti pensare che in occasione delle esercitazioni viene interdetto alla navigazione, alla pesca e alla sosta uno specchio di mare di oltre 20.000 chilometri quadrati, una superficie quasi uguale all’estensione dell’intera Sardegna. Quasi tutte le basi sono state attivate dopo la seconda guerra mondiale, in un contesto geopolitico segnato dalla contrapposizione frontale tra Nato e blocco sovietico. Sull’isola ci sono poligoni missilistici (Perdasdefogu), per esercitazioni a fuoco (Capo Teulada), per esercitazioni aeree (Capo Frasca), aeroporti militari (Decimomannu) e depositi di carburanti (nel cuore di Cagliari) alimentati da una condotta che attraversa la città, oltre a numerose caserme e sedi di comandi militari (di esercito, aeronautica e marina). Sono strutture al servizio delle forze armate italiane o della Nato. La base di Capo Frasca (sulla costa occidentale) occupa oltre 1.400 ettari. Le servitù del Salto di Quirra (nella Sardegna orientale) di 12.700 ettari e il poligono di Teulada di 7.200 ettari sono i primi due poligoni italiani per estensione.
L’ultima grande esercitazione militare in Sardegna è iniziata il 3 maggio scorso e ha visto la presenza, sino al 27 dello stesso mese, di più di 4000 effettivi di sette nazioni Nato, con navi, sommergibili, caccia, elicotteri, mezzi anfibi che hanno operato su tutta la costa meridionale dell’isola e sui tratti sud delle coste orientale e occidentale. Alla manovra, cui è stato dato il nome di “Mare aperto”, gli Usa hanno partecipato con il cacciatorpediniere Bainbridge, con la portaerei Harry Truman e con i caccia di stanza a Sigonella.
da il manifesto
per la liberazione di georges ibrahim abdallah manifestazione a parigi il 18 giugno
Gli studenti torinesi in carcere o ai domiciliari da settimane
Studenti torinesi incensurati hanno subito provvedimenti durissimi dopo le manifestazioni contro l’alternanza scuola-lavoro dello scorso febbraio
Da lunedì sono agli arresti domiciliari due studenti che erano rimasti coinvolti in alcuni scontri con la polizia avvenuti lo scorso febbraio a Torino durante un corteo studentesco: da settimane si trovavano in carcere per resistenza a pubblico ufficiale, e sono tornati a casa con cinque giorni di ritardo perché non si trovavano materialmente i braccialetti elettronici. Un altro studente è invece ancora in carcere e altri otto, tra studenti e studentesse, sono tuttora sottoposti ad altre forme di misure cautelari.
La severità delle misure cautelari decise per gli studenti e le studentesse, tutti intorno ai vent’anni, stanno attirando critiche e proteste, in particolare per quanto riguarda i tre che sono finiti in carcere: questo nonostante fossero incensurati, e sebbene negli scontri i poliziotti non avessero riportato lesioni particolarmente gravi.
Lo scorso 18 febbraio a Torino c’era stata una mobilitazione studentesca per chiedere grosse riforme e l’abolizione dei programmi di alternanza scuola-lavoro, in seguito alla morte di due studenti durante un apprendistato a inizio anno. La manifestazione faceva parte di una serie di proteste e occupazioni organizzate a livello nazionale, in alcuni casi violentemente represse dalla polizia. Durante il corteo torinese di febbraio c’erano stati degli scontri e alcuni ragazzi avevano provato a forzare il cancello della sede locale di Confindustria. Per questi fatti, 11 studenti erano stati sottoposti a varie misure cautelari che erano state applicate dal 12 maggio: tre di loro erano stati arrestati e portati in carcere, quattro erano stati sottoposti direttamente ai domiciliari, e altri quattro erano stati sottoposti all’obbligo di firma giornaliera.
A fine maggio, il Tribunale del Riesame ha poi riformato l’ordinanza disponendo l’obbligo di firma quotidiana per tre su quattro studenti prima ai domiciliari, diminuendo la frequenza dell’obbligo di presentazione per altri tre su quattro già sottoposti all’obbligo di firma, e disponendo gli arresti domiciliari con divieto di comunicazione e applicazione del braccialetto elettronico per due degli studenti in carcere, Emiliano e Jacopo. I due sono comunque rimasti in carcere per altri cinque giorni perché non erano ancora stati materialmente recuperati i braccialetti elettronici. Da lunedì 6 giugno si trovano a casa. Infine, sono state confermate le ordinanze per uno degli studenti in carcere e per una studentessa ai domiciliari.
Valentina Colletta, l’avvocata che con Claudio Novaro assiste gli undici studenti coinvolti, spiega che «Emiliano e Jacopo, incensurati, sono sì ai domiciliari ma con le restrizioni più restrittive che si possano ipotizzare: hanno il divieto di contatto con chiunque non sia un familiare convivente, per cui non hanno possibilità di contatto né telefonico, né epistolare né telematico con altre o altri». Continua a leggere
Mai più lager – NO ai CPR
“Wissem, che ha avuto lo Stato tutto addosso”, a cura del Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif, sarà proiettato domani, sabato 11 giugno alle ore 15 al Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito. Sala 2: Laboratorio – Le carte dell’orrore del CPR – MAI PIU’ LAGER – NO AI CPR