La settimana di azione globale per la liberazione dei prigionieri politici indiani 13/19 settembre in Italia – Report

La settimana di azione globale lanciata dal Comitato internazionale di sostegno alla guerra popolare in India, su indicazione e in stretto legame con il Partito Comunista dell’India (Maoista), è stata in Italia un importante salto di qualità del sostegno proletario antimperialista e internazionalista nel nostro paese.

Tutte le attività sono state concentrate in una forte giornata a Roma.

Al mattino vi è stata la manifestazione all’ambasciata indiana. Lo Stato imperialista italiano e la questura di Roma avevano vietato la manifestazione sotto l’ambasciata e, prendendo a pretesto l’utilizzo delle piazze romane per la campagna elettorale, avevano negato anche le piazze vicine, concedendo solo una piazza abbastanza distante dall’ambasciata.

I rappresentanti  delle strutture operanti del Comitato hanno organizzato comunque l’iniziativa. Prima ci si è concentrati in piazza Della Repubblica e si è cominciata la manifestazione esponendo lo striscione “…” sostenuto dai rappresentanti delle diverse organizzazioni di massa. Intanto nell’aria risuonavano le note di “Bella ciao” di un Bar solidale.

Quindi i compagni senza bandiere e simboli si sono spostati compatti in direzione dell’ambasciata e l’hanno raggiunta contando sull’effetto “sorpresa”. Chiaramente le forze della repressione si aspettavano un blitz e all’apparire della forte delegazione si sono schierati davanti all’ambasciata.

I manifestanti non si sono fermati, hanno innalzato lo striscione davanti all’ingresso dell’ambasciata

La polizia non è intervenuta ma ha pressato perché l’azione avesse fine.

Come da piano, i manifestanti hanno riposto lo striscione e si sono recati alla piazza che era stata concessa e l’hanno occupata nel lato rivolto al passaggio delle persone.

La polizia è nuovamente intervenuta pretendendo che la manifestazione si svolgesse in forme ristrette e meno visibili per le masse. La ferma resistenza delle compagne, che erano comunque la maggioranza dei manifestanti, ha respinto questo tentativo; e una lunga seconda parte della manifestazione ha avuto luogo.

E’ stato fatto un massiccio volantinaggio di massa del comunicato del Comitato di sostegno, dell’appello del Partito Comunista dell’India (Maoista) e sono stati diffuso dossier e materiali del Movimento femminista proletario rivoluzionario sulle prigionieri politiche indiane.

Oltre gli striscioni per i prigionieri politici e contro i droni e i massacri delle popolazioni indiane, è stato posto un grande striscione a sostegno della guerra popolare e riproposta la mostra che sta circolando in tutt’Italia del Movimento femminista proletario rivoluzionario.

Tutti i rappresentanti degli organismi aderenti hanno preso la parola, con interventi forti e contundenti, apprezzati dai manifestanti e dalle masse che passavano, si fermavano, parlavano, chiedevano. Particolarmente ascoltata la voce degli operai dello Slai cobas, delle donne del Mfpr.

Alla manifestazione si è unito il Soccorso rosso internazionale, la principale organizzazione nel nostro paese a difesa dei prigionieri politici in Italia e parte integrante della rete internazionale presente in diversi paesi. Questi compagni avevano portato un grande pannello per i prigionieri politici di Turchia e del nord Kurdistan, e un militante ex prigioniero politico ha preso la parola nella piazza, ed era da tempo che questo non avveniva.

L’altro grosso aspetto di qualità è stata la presenza di sei rappresentanti delle diverse centinaia di operai indiani che lavorano nelle fabbriche e nei posti di lavoro nel nord Italia, che hanno sfidato ricatti e repressione – si tratta di operai che individuati davanti all’ambasciata e in piazza rischiavano licenziamenti ed espulsioni, tenendo conto delle forti pressioni dell’ambasciata indiana, ispirate dal Ministro degli Esteri del regime di Modi, nei confronti dei governi europei, e italiano in particolare, perché venga a cessare la prolungata e incisiva campagna.

Una campagna che ha visto anche in questa giornata la presentazione di un dossier inviato alla stampa nazionale e internazionale sulle condizioni di Saibaba e Varavara Rao e sulla lista dei prigionieri delle diverse associazioni operanti in India, fatta pervenire dai compagni indiani, e dei quali si rivendica la liberazione e la difesa delle condizioni di salute nelle prigioni.

Numerosi sono stati i passanti che si sono fermati nella piazza, tra cui alcuni cittadini di origine indiana e un folto gruppo di ragazze, alcune operanti in associazioni solidali, che si sono interessate alla campagna e hanno stretto legami in particolare con compagne del Mfpr.

Durante la manifestazione sono stati gridati slogan: “Per i prigionieri politici libertà!”, “Viva la guerra popolare!”, “Viva l’internazionalismo proletario!”, “La guerra imperialista si può fermare solo se avanza la guerra popolare!”.

E’ stata la prima e importante manifestazione a Roma, dove il Comitato non era presente e non aveva strutture solidali attive.

Ma la giornata non è finita.

Nel pomeriggio nell’importante struttura di Metropoliz, una fabbrica occupata e trasformata in un imponente Museo culturale e artistico da centinaia di migranti e rom che lo hanno occupato, guidati dal movimento di lotta per la casa – ‘Blocchi metropolitani’ – si è tenuta un’assemblea proletaria anticapitalista, organizzata essenzialmente da proletari comunisti, che ha visto la partecipazione di 70 rappresentanti di organismi sindacali, associazione di lotta, comitati contro la repressione, movimenti di varie città italiane, intellettuali marxisti impegnati nelle principali università italiane, sui temi della lotta alla guerra imperialista e la lotta sociale dei proletari, dei migranti e delle masse popolari.

In questa assemblea la voce di solidarietà ai prigionieri politici indiani, alla guerra popolare è stata presente  Tutti i partecipanti hanno ricevuto il materiale di informazione e denuncia, distribuito durante la giornata e alcuni dei partecipanti alla manifestazione per l’India hanno preso la parola nell’assemblea e in particolare il rappresentante dei lavoratori indiani di Bergamo.

Una giornata infinita, un punto di arrivo dell’azione prolungata del Comitato in Italia ma soprattutto un nuovo punto di partenza per lo sviluppo di un movimento reale di massa per la liberazione dei prigionieri politici e a sostegno della lotta e della guerra popolare delle masse indiane

Italia -ICSPWI

24 settembre 2022

Mobilitazione ieri a sostegno della protesta/sciopero della fame al CPR di Torino – Criminali gli accordi con la Tunisia del governo Draghi/Lamorgese

Da Pressenza

Il carcere Lorusso e Cutugno, in cui le detenute sono in sciopero della fame dal 24 agosto e i detenuti delle sezioni dall’1 all’8 del blocco B sono in “sciopero del carrello”, non è più l’unica struttura detentiva torinese ad avere persone detenute che rifiutano il cibo.

Si tratterebbe di 29 persone di origine tunisina, in età molto giovane, in arrivo da Lampedusa, “smistati” ad Agrigento, che avrebbero fatto richiesta di asilo in Italia. Qualcuno avrebbe significativi problemi di salute.

Questi ragazzi di origine tunisina sono arrivati recentissimamente, alcuni addirittura il 28 agosto, a Lampedusa. Al Cpr di Torino sono stati trasferiti per lo più direttamente dalla Sicilia, c’è qualche persona trasferita dalla provincia di Imperia.

I decreti di respingimento, nel caso di questi ragazzi, sono quindi stati disposti dalla Questura di Agrigento e dalla Questura d’Imperia, che ricordiamo, è quella che ha disposto il respingimento di Moussa Balde, di fatto non respingibile perché guineiano: la Guinea Conakry non accetta persone respinte. Moussa Balde si è tolto la vita proprio nel CPR di Torino il 25 maggio 2021.

La celerità con la quale sono stati disposti i respingimenti, che implicano il rimpatrio forzato e la detenzione nel CPR, è fonte di preoccupazione per l’Autorità di garanzia torinese e non solo. Il Testo Unico sull’Immigrazione (D.L. 286/98 e successive modificazioni) prevede degli strumenti di garanzia, un’eccessiva celerità di procedure può compromettere la corretta valutazione dello stato delle persone e quindi dell’effettiva idoneità ad ottenere la possibilità di vivere in Italia tramite gli strumenti di protezione internazionale previsti.

Si sta tornando quindi ai 2 voli charter settimanali per Tunisi, facilitati dagli accordi di

rimpatrio con la Tunisia. A quelle che vengono definite, con preoccupazione, “porte girevoli”.

 

Da notizie che ci giungono da fonte riservata risulta che queste persone non sono state informate sulla possibilità e modalità di accesso alla domanda di asilo. Garanzia primaria e ineludibile dell’Ordinamento italiano ed europeo, ma queste denunce, che lo Stato di fatto – le denunce non cessano – continua a lasciar cadere inascoltate, arrivano da tempo e da più parti. A tutti gli effetti una lesione dei diritti, oltre che un’inosservanza di leggi e norme da parte dello Stato stesso.

Le richieste di asilo sono state formalizzate a Torino e all’interno del CPR, questo implica che fino ad eventuale pronunciamento della Commissione Territoriale, organo deputato a decidere sull’idoneità della persona ad avere la protezione internazionale, la detenzione verrà prorogata e le persone, nonostante la richiesta di asilo, continueranno ad essere private della libertà personale nella struttura detentiva per stranieri da rimpatriare di Torino.

Cade anche la retorica diffusa da talune veline delle forze dell’ordine, le quali affermano che la maggior parte delle persone detenute nei centri per rimpatri sono persone colpevoli di aver commesso gravi reati sul territorio italiano. E’ di tutta evidenza che la vicenda di questi ragazzi, vicenda di natura tutt’altro che eccezionale, smentisce questa retorica.

Ivrea – “Gli agenti mi picchiavano in infermeria e intanto il medico sorseggiava il suo caffè”

 

Dagli atti dell’indagine sul carcere di Ivrea i primi dettagli sui pestaggi. Avvisi di garanzia a 24 uomini della polizia penitenziaria e un sanitario

Due agenti picchiavano Alì, calci e pugni, e “il medico di turno della casa circondariale, anziché impedire l’evento come sarebbe stato suo obbligo, continuava a sorseggiare il caffè al distributore automatico”. Ivrea, 7 novembre 2015. Questo episodio è il primo di una serie di contestazioni che la procura generale di Torino ha fatto a 25 indagati, 24 agenti di polizia penitenziaria e un medico, coinvolti a vario titolo in pestaggi e punizioni che avvenivano principalmente nell'”acquario”, come era soprannominata l’infermeria che dava sul corridoio.

È arrivata a una svolta l’inchiesta sui pestaggi al carcere di Ivrea, dove i muri dell’infermeria almeno per due anni hanno coperto percosse e umiliazioni compiuti dagli agenti nei confronti di diversi detenuti. Finora erano stati solo loro, con le testimonianze, a far uscire allo scoperto il trattamento che ricevevano, mentre i verbali falsificati provavano a sviare le indagini sostenendo che i detenuti fossero caduti “accidentalmente sul pavimento reso scivoloso dall’acqua degli idranti usati per spegnere i focolai appiccati in sezione”.

Ora la magistratura ha riconosciuto la fondatezza delle accuse individuando i possibili responsabili, che nei giorni scorsi hanno ricevuto l’avviso a comparire per essere interrogati, difesi dagli avvocati Celere Spaziante ed Enrico Calabrese. Alcuni agenti sono ancora in servizio nel carcere eporediese, altri nel frattempo sono stati trasferiti in altri penitenziari.Le carte dell’inchiesta dipingono un quadro inquietante di quello che accadeva dietro le sbarre. Detenuti malmenati anche con manganelli, umiliazioni come quelle di tenere i carcerati nudi, tutto con l’omertà di altri detenuti e di un sistema che fingeva di non vedere.Sono sette anni che si cerca di far luce su quello che accadeva nel carcere di Ivrea. Gli episodi contestati risalgono al 2015 e 2016. Da allora l’inchiesta aperta dalla procura di Ivrea ha subito parecchie traversie, tra richieste di archiviazioni e opposizioni fatte dall’associazione Antigone, fino a quando la procura generale non l’ha avocata.Sono stati i sostituti pg di Torino Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano, partendo dalle denunce, ad allargare le indagini ad altri episodi e a individuare i reati ipotizzati: lesioni e falsi aggravati. “Le contestazioni mosse dalla magistratura a 25 indagati sono la dimostrazione che il sistema giudiziario funziona e che quest’avocazione che aveva fatto tanto rumore è stata la strada giusta per fare giustizia – commenta Antigone – I fatti sono precedenti all’introduzione del reato di tortura, tuttavia dall’inchiesta emerge come quello di Ivrea fosse un carcere punitivo, come ce ne sono in Italia, e lontano dallo scopo rieducativo che gli istituti penitenziari dovrebbero perseguire”

 

LA STAMPA (TORINO)

 

Stanze per le punizioni e isolamenti: “Nel carcere di Ivrea condizioni disumane”

La relazione del Garante nazionale dei detenuti all’indomani della rivolta nel penitenziario avvenuta nel 2016

IVREA. «Condizioni strutturali e igieniche al di sotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano». Ecco il carcere di Ivrea nel 2016, visto con gli occhi dell’allora Garante nazionale dei detenuti. Una visita d’emergenza la sua, a novembre, dopo una rivolta repressa con violenza. Tanta. Botte, manganellate, sevizie che travalicano i limiti dell’ordine pubblico. E di quanto accettabile in uno stato democratico.

Alcuni reclusi denunciano violenze, ritorsioni. Sono perlopiù stranieri, con storie di povertà e di espedienti e raccontano di una stanza, «l’acquario», riservata alle punizioni più severe. E di un’altra ancora, la «stanza liscia», quella dell’isolamento. Le loro denunce vengono raccolte dall’ex garante di Ivrea e dall’associazione Antigone. Cadono nel vuoto, archiviate, sino a che la procura generale di Torino non decide di avocare il fascicolo. E ora gli agenti di custodia e i medici indagati sono venticinque.

Il carcere è cambiato nel frattempo. «Situazioni di violenza non ne vedo», assicura l’attuale garante Raffaele Orso Giacone. Parole ben diverse da quelle presenti nella relazione del 2016. Undici pagine che descrivono come fallisce un sistema penitenziario.

 

La sconfitta incomincia al piano terra, nella sezione isolamento. «Cinque stanze ordinarie più la numero 6, priva di arredo, chiamata “stanza liscia” dallo stesso personale della polizia penitenziaria», annotava il garante nazionale. Un solo letto, al centro, ancorato al pavimento, con un materasso «peraltro strappato e fuori termine di scadenza». Una finestra sigillata con una copertura di metallo, il termosifone spento. Il garante nazionale sintetizza: «Uno spazio indecoroso e degradante». Sempre al piano terra, c’è la sala d’attesa dell’infermeria. La definivano così, anche se «non ha alcun requisito strutturale e materiale» per una qualifica del genere. Larga tre metri per quattro «è completamente vuota»: non ci sono né sedie, né panche, né sgabelli. Non ci sono passaggi di circolazione d’aria. Toglie il respiro. «Lungo tutta la parete di destra c’è un vetro completamente oscurato con la vernice, tranne che per una striscia di 15 centimetri circa»: dall’esterno si può guardare dentro. I detenuti l’hanno soprannominata “acquario”. «In questa sala le persone vengono chiuse anche per ore e ne viene fatto uso come di una cella di contenimento», testimoniava l’allora referente sanitario.

Il garante nazionale ha appuntato anche questo. Come il racconto di un recluso che contro quel vetro, così gli avevano detto, ha sbattuto la testa più volte, sino a svenire e attendere diverse ore per essere soccorso. La relazione parla anche delle celle del quarto piano, quelle per chi è ammesso al regime di semilibertà o di lavoro esterno, da dove, la notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, era partita la rivolta. «Danni all’arredo, un tavolo divelto. Sulla parete della stanza, a fianco alla finestra, evidenti strisce di sangue, impronte di dita e mani».

CORRIERE DELLA SERA (TORINO)

22 ottobre – manifestazione a Lannemezan per la liberazione di georges abdallah – soccorso rosso proletario italia aderisce e ci sarà

l’appello internazionale

Don’t let it continue any longer ! General mobilization for the release of Georges Abdallah !
September 22 – October 22, 2022 : international month of action for his release !

“Since the very beginning of the 1970s, the liquidation of the Palestinian revolution has been on the agenda of the imperialist forces and their regional reactionary affiliates. Wars and massacres have followed one another since then and the popular masses have confronted them with the means and capacities available… although the revolution has been torn (it still is today) between two poles: one seeking negotiations and endless concessions at all costs and the other committed to resistance by all means, especially the armed struggle. Countless battles have been fought, some lost, others won, but on the whole and despite all the losses and despite all the mistakes, the popular masses have been able to consolidate certain achievements whose strategic significance no one can dispute today”. (Declaration of June 27, 2020).


These words of Georges Abdallah – like so many others – sum up well his political identity, his path of struggle, his fights with these innumerable battles that he led with the Palestinian and Lebanese revolutionary forces and throughout his life, in favor of the just and legitimate cause of the Palestinian people, without concessions, without betrayals but always in active support of “the other pole”: “that of resistance by all means and especially the armed struggle” for the liberation of Palestine, all of Palestine because “Palestine can only win! Palestine will win!” (October 12, 2019).


This political line and action, Georges Abdallah has always claimed, defended, without ever disavowing himself. And while justice has already authorized his release twice (in 2003 and then in 2013), this is the main reason for the French state’s relentlessness in refusing to release this resistance fighter – he who, according to the DST, already in 2007, would represent “a threat to the security” of France and whose “anti-imperialist and anti-Israeli convictions have remained intact.”


In the face of this political obstruction by the French state, after 38 years of detention and even though he has been eligible for release since 1999, Georges Abdallah continues tirelessly to fight his political battle while at the same time the mobilization for his release grows year after year on the national level but also abroad. This support built step by step is carried out “in the diversity of expressions” on all fronts by expressing our full solidarity with our comrade wherever we are and inscribes his liberation “in the global dynamics of the ongoing struggles”.

This mobilization has its unitary rendez-vous to coordinate the struggle and intensify the balance of power: the next one is the “international month of actions for the liberation of Georges Abdallah” where during one month, from September 22 to October 22, 2022, we call on all progressive and revolutionary solidarity forces in France and internationally to engage in actions against “the policy of annihilation of which the revolutionary protagonists are the object” and in this case Georges Abdallah. Wherever we are, during this month, let us not leave a political space vacant without the demand for the release of our comrade being imposed on the agenda; wherever we are, during this month, let us make heard before all the representatives of the French state (embassies, consulates, ministries, prefectures, departmental, regional, national and senatorial assemblies) the imperative need to have the Minister of the Interior sign the deportation decree conditioning the release of Georges Abdallah! Wherever we are, during this month, let’s not leave a free public space where the situation of our comrade and our demand to see him released are not shown.
Let a thousand solidarity initiatives flourish, from September 22 to October 22, 2022, to put pressure on the French state and demand the release of Georges Abdallah ! May a thousand initiatives flourish during this month so that what he said in his last statement on June 18 on the occasion of the celebration of the International Day of the Revolutionary Prisoner is heard and realized: “perhaps it is time that this day is intended to challenge and encourage the living forces of the revolution and its fighting vanguards, so that they implement all the measures necessary for the practical expression of the firm determination to snatch our comrades from the clutches of their criminal jailers!”

The climax of this mobilization will be in Lannemezan the demonstration of October 22, 2022 from 2:00 pm, so that we are always more numerous to “a few meters of these abominable walls” to make resound, beyond the barbed wire and the watchtowers, the echo of our slogans and to make hear to our comrade and to his jailers our determination not to give up anything until his release.


ABDALLAH, ABDALLAH, YOUR COMRADES ARE HERE !


GEORGES ABDALLAH IS PART OF OUR STRUGGLE, WE ARE PART OF HIS FIGHT !


PALESTINE WILL LIVE ! PALESTINE WILL WIN !


FREEDOM FOR GEORGE ABDALLAH l

Paris, September 7, 2022


Unitary campaign for the release of Georges Abdallah


campagne.unitaire.gabdallah@gmail.com
Facebook : pour la libération de Georges Abdallah

 

First signatories : Unitary Campaign for the release of Georges Abdallah – Collective for the release of Georges Ibrahim Abdallah (C.L.G.I.A) – Internationalist Revolutionary Collective for the release of revolutionary prisoners (CRI Rouge) – the Committee of actions and support to the struggles of the Moroccan people – Committee of popular defense of Tunisia – Car t’y es Libre (Istres) – Poitiers Palestine – Association Nationale des Communistes (ANC) – Union juive française pour la Paix (U.J.F.P) – AFPS 63 – Collectif 74 pour la libération de Georges Abdallah (Clga74) – Front Uni des Immigrations et des Quartiers Populaires (FUIQP) – L’Union Syndicale Solidaires 31 – Le Comité Action Palestine – Couserans Palestine – International Solidarity Movement – France (ISM-France) – Nouvelle Epoque – Ligue de la Jeunesse Révolutionnaire – Jeunes révolutionnaires

Accese proteste in Iran dopo l’uccisione in carcere di Mahsa Amini. 8 morti, centinaia di feriti e decine di arresti tra i manifestanti

Otto persone sono state uccise dalle forze di sicurezza nella regione curda dell’Iran durante le proteste per la morte di Mahsa Amini, la 22enne arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo e deceduta per i maltrattamenti. Le vittime, secondo il gruppo curdo per i diritti umani Hengaw, con sede in Norvegia, sarebbero state uccise con colpi di arma da fuoco in Kurdistan (regione di origine di Mahsa), dove la polizia ha sparato contro uomini, donne e bambini scesi nelle strade. Una sesta vittima è un agente. Di fronte alle proteste, il ministro delle Comunicazioni di Teheran, Issa Zarepour, ha detto che l’accesso a Internet in Iran potrebbe essere interrotto “a causa di questioni di sicurezza” e dei “dibattiti che si stanno tenendo attualmente nel Paese”.

Dopo cinque giorni di proteste, anche se l’entità delle violenze e il numero degli arresti sono difficili da valutare, sui social media sono stati pubblicati video di pestaggi e scontri, compresi filmati in cui si sentono colpi di armi da fuoco. Alcune immagini mostrano una bambina di 10 anni ferita e insanguinata nella città di Bukan: un video è diventato virale sui social. Sulla vicenda è intervenuta l’Onu che ha denunciato la “violenta repressione” alle manifestazioni. L’Alto Commissario Nada Al-Nashif, ha espresso preoccupazione per la morte di Mahsa: “La tragica morte della giovane e le accuse di tortura e maltrattamenti devono essere indagate in modo rapido, imparziale ed efficace da un’autorità indipendente, assicurando che la sua famiglia abbia accesso alla giustizia”. Secondo la portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissario Onu, in diverse città del Paese, compresa Teheran, la polizia ha “sparato munizioni vere” e usato gas lacrimogeni.

 

Mahsa Amini aveva 22 anni e in realtà si chiamava Jina.

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta” – o qualcosa del genere – mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra (dove era giunta già in stato di morte cerebrale) a Teheran.

Mentre le autorità iraniane si giustificano parlando di  improbabili “preesistenti problemi di salute” (evocando prima una presunta epilessia, poi problemi cardiovascolari), dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emerge la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite subito dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata ha evidenziato fratture ossee, una emorragia e un edema cerebrale.

Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “ pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”.

In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano e questo sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono svolte ovunque in Iran, ma soprattutto nel Rojhilat (Kurdistan sotto amministrazione iraniana) dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Come ho detto in realtà si chiamava Jina (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi espropriati del loro stesso nome e costretti a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Intanto il bilancio dei primi giorni di manifestazioni di protesta si fa sempre più pesante. Sono almeno quattro i curdi uccisi dalla polizia (quelli finora accertati), un centinaio i feriti e decine quelli arrestati.

In particolare a Saqqez, città natale di Jina Amini, i manifestanti hanno abbattuto molti simboli del regime.

Il 19 settembre l’ONG Hengaw ha fornito alcuni dati (provvisori) sul numero delle vittime della repressione:

A Saqqez 2 morti e 17 feriti; a Divandare 2 morti e 15 feriti; a Mahabad13 feriti; a Bukan7 feriti; a Kamiyaran 4 feriti; a Ghorveh 4 feriti; a Bijar 7 feriti; a Baneh 4 feriti; a Tekab 4 feriti…

Gianni Sartori

Caso Hasib, “decapitato” il Commissariato di Primavalle

L’inchiesta sulla violenta perquisizione degli agenti nella casa di Hasib il disabile poi precipitato dal balcone. Saltano i vertici del commissariato Primavalle

di Maria D’Amico – corrispondente, a Roma, di Radio Popolare

Ufficialmente avrebbe dovuto essere un intervento finalizzato alla identificazione degli inquilini. Invece è stato un blitz non autorizzato, violento, eseguito da agenti in borghese senza nessuna autorizzazione.

Ecco cosa è successo all’interno dell’appartamento della famiglia Omerovic dove Hasib, 36 anni, disabile e sordomuto, lo scorso 25 luglio, è volato da una finestra durante una perquisizione da parte di quattro poliziotti senza divisa e senza mandato di perquisizione.

“A forzare la mano – così come dicono gli inquirenti – in particolare uno dei poliziotti componenti del gruppo, trasferito dalla squadra Mobile al Commissariato di Primavalle. La sua posizione e quella dei suoi colleghi sono al centro delle indagini da parte della Procura che indaga per tentato omicidio e falso, anche in considerazione del fatto che l’intervento era stato derubricato dagli agenti che lo hanno eseguito come un “tentativo di suicidio” .

Al commissariato di Primavalle è arrivato in tutta corsa un nuovo dirigente trasferito da Viterbo. Il del commissariato al momento dei fatti e la sua vice sono stati sollevati dall’incarico. Conferma – anche se la questura non lo ammette ufficialmente – che la sostituzione sia legata all’indagine della procura, che qualcosa non abbia funzionato nella catena di comando.

Chi ha dato l’ordine della perquisizione? Chi avrebbe dovuto controllarne l’esito? In partenza, dunque, l’attuale dirigente Andrea Sarbari e la vice dirigente Laura Buia, mentre arriva dalla questura di Viterbo Roberto Riccardi. Appare chiaro, anche se la Questura non conferma, che la sostituzione sia legata all’indagine coordinata dalla procura di Roma sulla vicenda di Hasib Omerovic.  In base a quanto si apprende la misura organizzativa si sarebbe resa necessaria per consentire una riorganizzazione delle attività del Distretto, anche «al fine di ristabilire un clima adeguato al suo interno».

La drammatica testimonianza di quanto di quanto accaduto all’interno dell’appartamento è tutta nelle parole semplici della sorella di Habib, una ragazza, disabile anche lei, presente al momento dell’arrivo della squadra.

Quel pomeriggio – ha testimoniato la ragazza – hanno suonato alla porta, quando ho aperto hanno chiesto i documenti, hanno cominciato a picchiare Hasib, che si è impaurito, è sordomuto, disabile è fuggito nella sua stanza, lì lo hanno inseguito, picchiato brutalmente fino a quando lo hanno gettato giù dalla finestra».  A supportare questo racconto le prove prove rilevate dagli inquirenti: la porta sfondata nella stanza di Hasib, le lenzuola sporche di sangue, il bastone che sarebbe stato usato per picchiarlo. Tutti oggetti sequestrati dagli inquirenti.

Riassumendo: le posizioni di otto persone sono al vaglio della procura, le indagini dovranno accertare se Omerovic sia caduto dalla finestra o sia stato lanciato durante la violenta perquisizione. Un vertice tra inquirenti e investigatori ha visto la partecipazione, la scorsa settimana, del procuratore Francesco Lo Voi, il procuratore aggiunto Michele Prestipino, il pubblico ministero Stefano Luciani e il capo della squadra mobile di Roma, Francesco Rattà. Tra le otto posizioni al vaglio della procura, ci sarebbero tre agenti e una funzionaria, responsabili dell’accesso nella casa di Omerovic in via Gerolamo Aleandri. Non è chiaro se risultino già indagati formalmente per il reato di tentato omicidio e altri reati, come il falso, contestabili in quanto esponenti delle forze Continua a leggere

Riccardo Germani, ADL Cobas, condannato dalla cassazione a 8 mesi per essersi difeso da un’aggressione fascista, ora è indagato anche per un picchetto. Solidarietà dal soccorso rosso proletario

Da Radio onda d’urto

La Corte di Cassazione ha condannato a 8 mesi il compagno Riccardo Germani. I fatti riguardano l’irruzione squadrista messa in campo dai militanti di Casapound, avvenuta nel 2018 a Palazzo Marino, in occasione di una discussione consigliare sul diritto alla cittadinanza.

Ad aggravare la sua posizione gli è stata notificata anche un’altra apertura di indagini per “manifestazione non autorizzata” legate ad alcune vertenza sindacali.

La ricostruzione di quanto successo quattro anni fa e il commento sulla condanna da parte di Riccardo.

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