Mohamed Shahin è libero! “Il trattenimento al Cpr illegittimo”

Libertà per tutti i prigionieri politici palestinesi!

e il 19 tutti e tutte a L’Aquila, per Anan, Ali e Mansour!

L’imam Mohamed Shahin è stato liberato. La Corte d’appello di Torino ha accolto la richiesta dei suoi avvocati e ha disposto la immediata cessazione del trattenimento presso il Centro di permanenza per i rimpatri di Caltanissetta.

Shahincittadino egiziano residente in Italia da oltre vent’anni, era stato trattenuto dopo la revoca del permesso di soggiorno e aveva presentato domanda di asilo politico. I giudici, con la nota odierna, hanno così riconosciuto che la sua permanenza nel Cpr non era legittima, alla luce di nuovi elementi emersi nel procedimento di riesame.

In particolare, la Corte ha evidenziato che i procedimenti penali posti a fondamento del giudizio di “pericolosità” non hanno avuto seguito: uno è stato archiviato perché le dichiarazioni contestate rientrano nella libertà di espressione tutelata dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’altro riguarda fatti privi di condotte violente. Nessun elemento concreto, attuale e specifico dimostra una pericolosità sociale dell’imam, che risulta incensurato e pienamente integrato nel tessuto sociale italiano.

Mohamed Shahin esce dal Cpr in qualità di richiedente asilo. Per lui, un eventuale rimpatrio in Egitto avrebbe comportato un concreto rischio di persecuzione, considerato il suo pubblico dissenso nei confronti del regime di Abdel Fattah al‑Sisi.

Sit-in davanti al carcere di Rossano per Ahmad: «Solidarietà non è terrorismo»

Nella mattinata del 13, davanti alle mura del carcere di Ciminata, una cinquantina di attivisti provenienti da Calabria e Basilicata si sono radunati in un sit-in per esprimere solidarietà al giovane Ahmad Salem, il 24enne palestinese detenuto da oltre sei mesi nel reparto di alta sicurezza della casa di reclusione di Rossano con l’accusa di terrorismo.

La manifestazione, promossa da gruppi pro-Palestina e realtà civiche locali, ha avuto un tono eloquente e deciso: «Chiamare alla mobilitazione per la solidarietà al popolo palestinese – dicono gli organizzatori – non può essere equiparato a un reato di terrorismo», facendo riferimento alle accuse mosse al giovane basate su video e frasi estratte dal suo telefono.

Secondo la ricostruzione di diverse associazioni di osservazione della repressione e dei diritti umani, l’incriminazione per i reati di istigazione a delinquere e autoaddestramento con finalità di terrorismo (artt. 414 e 270-quinquies c.p.) si fonda su materiali decontestualizzati che Salem aveva registrato e pubblicato durante lo scorso conflitto a Gaza, nei quali invitava alla solidarietà e alla presa di parola contro la sofferenza del suo popolo.

Tra i presenti, grande attenzione ha attirato l’attivista Vincenzo Fullone, figura di riferimento per il movimento pro-Palestina calabrese. Nel corso dell’intervista, Fullone ha descritto la detenzione di Ahmad come un simbolo di una più ampia limitazione del diritto di espressione: «Ahmad Salem è in questo carcere di semi-massima sicurezza, così lo chiamano, per un semplice motivo. È il motivo per il quale anch’io e anche noi potremmo essere arrestati. Perché, che ha fatto? Hanno trovato sul suo telefono dei video in cui lui chiamava alla solidarietà per il suo popolo e chiamava soprattutto i popoli arabi a svegliarsi… Chiunque parla ora di Palestina o contro lo Stato di Israele, in qualche maniera viene definito antisemita e quindi si configura l’accusa di terrorismo».

Fullone ha proseguito sottolineando che parlare di Palestina — e «chiedere che qualcuno faccia qualcosa» — «è un diritto politico fondamentale e non un atto criminale». Ha poi annunciato le iniziative future del movimento Propal con la volontà di rinforzare la mobilitazione territoriale nei mesi a venire, citando una nuova tappa simbolica con la partecipazione alla Gassan Canafani, barca legata alla flotilla di solidarietà con la Palestina, il cui percorso estivo includerà soste sullo Jonio calabrese, proprio a Corigliano-Rossano e Mirto Coris, prima di proseguire verso Tirreno.

La manifestazione di ieri mattina segue di pochi giorni un altro episodio che ha riacceso l’attenzione pubblica sul caso di Ahmad Salem. Domenica scorsa, infatti, era stato l’europarlamentare Mimmo Lucano a recarsi a sorpresa davanti al carcere di Rossano per solidarizzare con giovane attivista recluso. Tutto questo mentre all’appuntamento di ieri mattina – per quanto riferito dai movimentisti Pro Paestina – era prevista anche la visita ispettiva di alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle, che però alla fine non si sono presentati.

Qui il collegamento con ROR

Combattivo corteo a Melfi per la liberazione di Anan e di tutti i prigionieri per la Palestina incarcerati in Italia

Importante manifestazione a Melfi per Anan, da fine settembre trasferito nel carcere di questo paese della Basilicata. Come diceva un cartello: hanno voluto isolare Anan ma in realtà hanno esteso anche in questa Regione la lotta per la sua liberazione e rafforzato la battaglia per la Palestina.

Un centinaio di compagne, compagni, studenti della zona, giovani immigrati di Rionero, lavoratori in lotta alla Stellantis; tanti giovani palestinesi da Napoli, delegazioni da Taranto, Brindisi, Arezzo e tanti altri hanno fatto un corteo combattivo, nuovo a Melfi, accolto bene dalle persone del posto. Per più di 2 ore il corteo è sfilato compatto, unitario, in un bel clima di calore umano, senza mai fermarsi negli slogan che via via sono stati gridati in palestinese, con al centro: Anan libero! Palestina libera! Israele terrorista!

 

Il corteo è arrivato al carcere dove si è svolto un lunghissimo presidio, aperto da numerosi e rumorosi saluti in arabo ad Anan, seguiti da un collegamento col presidio sotto il carcere di Rossano Calabro in solidarietà con Ahmad Salem, e numerosi slogans e interventi che hanno fatto arrivare all’interno della nera galera la forte solidarietà ad Anan e l’impegno a continuare fino alla sua liberazione.

Durante la manifestazione è stato letto un messaggio di Tahar Lamri, e il presidio si è concluso con l’appello, fatto in particolare dalla compagna de L’Aquila di Soccorso rosso proletario, ad essere il 19 il più possibile alla nuova manifestazione a L’Aquila, giorno della sentenza per Anan, Alì e Mansour.

Intervento della compagna SRP L’Aquila

Messaggio da un ragazzo di Gaza

Operaio Ex-Ilva Taranto

Saluto ad Anan

Messaggio di Tahar Lamri

“C’è un uomo all’Aquila che porta nel corpo undici proiettili e quaranta schegge. Le torture israeliane gli hanno scritto la storia sulla carne, ma ora l’Italia vuole riscriverla nei codici del terrorismo. Anan Yaeesh aspetta la sentenza in un processo dove l’assurdo è diventato procedura.

La difesa chiede quarantasette testimoni. Servono esperti di diritto internazionale, servono voci che spieghino cosa sia un’occupazione, cosa sia una colonia illegale. Serve Francesca Albanese, relatrice ONU per i territori palestinesi. La Corte ne ammette tre: la moglie dell’imputato, un perito linguista, una volontaria. Gli altri? Irrilevanti. La Storia, l’occupazione, il diritto internazionale: irrilevanti.

Ma c’è posto per l’ambasciata israeliana. La Procura la convoca a testimoniare sulla natura della colonia di Avnei Hefetz. Israele – la parte che ha chiesto l’estradizione, che ha fornito le prove, che ha torturato l’imputato – diventa testimone nel processo italiano. Il nodo è cruciale: se Avnei Hefetz è insediamento civile, Anan è terrorista. Se è base militare, è resistente. Chi meglio di Israele può definirlo?
L’ambasciatore non si presenta. All’ultimo momento, il 21 novembre, si presenta una funzionaria dall’ambasciata di Parigi. Dietro di lei, in videoconferenza, la bandiera israeliana. Testimonianza vaga, poco convincente. Ma è bastato l’azzardo: far parlare lo Stato occupante sulla legittimità della resistenza all’occupazione. Come chiedere al carceriere di testimoniare sulla libertà del prigioniero.
L’avvocato Rossi Albertini la chiama “arroganza di Israele verso l’autorità giudiziaria italiana”. Ma è qualcosa di più: è uno Stato che processa dall’Aquila fatti avvenuti in Cisgiordania, che esclude la Storia e include l’oppressore, che chiama giustizia questa farsa.
C’è un ragazzo di ventiquattro anni in alta sicurezza a Rossano Calabro. La sua colpa? Otto minuti di video, parole contro un genocidio, immagini già trasmesse dalla Rai. Ahmad Salem ha sognato l’asilo e ha trovato una cella dove ogni sillaba di solidarietà diventa “autoaddestramento”.
C’è un imam strappato ai figli dopo vent’anni, rinchiuso in un CPR. Un altro padre di tre figli italiani espulso dopo trent’anni. Mohamed Shahin e Zulfiqar Khan hanno parlato di Palestina quando dovevano tacere. Uno in un CPR a Caltanissetta, l’altro rispedito in Pakistan. Decreti firmati, tribunali che convalidano, ministri che esultano. Il reato? Le parole.
Sono corpi palestinesi, corpi musulmani, corpi che parlano quando dovrebbero tacere. Sono voci che dicono Gaza, che dicono occupazione, che dicono genocidio. E per questo diventano minacce. Non importa se hanno famiglie, permessi, anni di radici. Non importa se le loro parole sono pensiero, non azione. Non importa se la Procura dice “nessun reato”.
Importa solo che abbiano rotto il silenzio.

L’Italia ha imparato da Israele la lezione più antica: chiamare terrorismo la resistenza, chiamare sicurezza la repressione, chiamare giustizia la vendetta. Ha imparato che si può processare un uomo per la Storia, espellerlo per le parole, rinchiuderlo per i pensieri. Ha imparato che si può rifiutare la relatrice ONU e convocare l’ambasciata occupante.
Ma le undici pallottole nel corpo di Anan non mentono. I quarantasette testimoni rifiutati non mentono. La bandiera israeliana in aula non mente. Le sbarre della cella di Ahmad non mentono. Il CPR dove hanno rinchiuso Mohamed non mente. L’aereo che ha portato via Zulfiqar non mente..
Questa non è giustizia. È silenzio imposto con la forza dello Stato. È la criminalizzazione della solidarietà. È un processo dove l’occupante testimonia e l’occupato è accusato.
Ma i corpi resistono. Le parole restano. La memoria non si espelle.
E il 19 dicembre, quando a L’Aquila caleranno le sbarre su Anan, o quando si apriranno per miracolo di una giustizia che ancora respira, sapremo se questo paese ha ancora il coraggio di guardare in faccia la Palestina, o se preferisce continuare a processarla, imprigionarla, deportarla.
Undici proiettili, quaranta schegge, quarantasette testimoni rifiutati, una bandiera israeliana in aula.
E una sola domanda: da che parte sta la legge?”

Qui il collegamento con ROR:

Verso l’udienza finale del processo alla resistenza palestinese, manifestazione interregionale a Melfi

Il 19 dicembre, presso il Tribunale penale de L’Aquila, potrebbe chiudersi con una condanna, il processo farsa sul prigioniero politico Anan Yaeesh, e su due palestinesi suoi amici, Ali e Mansour, che rischiano rispettivamente 12, 9 e 7 anni di carcere: molti di più rispetto a quelli che Anan ha scontato nelle carceri sioniste dopo essere stato condannato per fatti relativi alla seconda Intifada.

In questo clima di terrore generalizzato, dove l’intero sistema politico ed economico è complice attivo del genocidio e dell’occupazione sionista, dove il DDL Gasparri che equipara antisionismo ad antisemitismo prende sempre più forma, dove esporsi a favore della Palestina significa essere sbattuti in carcere o in un CPR, è NECESSARIO continuare a mobilitarci in modo determinato e collettivo contro un sistema che prova a delegittimare ogni giorno le nostre lotte, che prova ad intimidire chi dissente con arresti arbitrari, deportazioni e fogli di via e che processa la Resistenza.

Mentre i media di regime legittimano guerra e repressione, questo processo di evidente natura politica rischia di creare un pericoloso precedente per chiunque sia solidale con la causa Palestinese e per chiunque si opponga alle politiche guerrafondaie del governo Italiano, NATO e UE.

Per questo, sabato 13 DICEMBRE scenderemo in piazza a MELFI al fianco di Anan e della Resistenza Palestinese, al fianco di chi si oppone alla guerra e al genocidio.

Noi sappiamo da che parte stare.
Complici e solidali al fianco di chi lotta.

LIBERTA PER ANAN, ALI E MANSOUR!
LA RESISTENZA NON SI ARRESTA!
LA RESISTENZA NON SI PROCESSA!
PALESTINA LIBERA!

CONCENTRAMENTO IN VIA DELLA CITTADINANZA ATTIVA E CORTEO FINO AL CARCERE IN VIA LECCE DOVE SI TERRÀ IL PRESIDIO PER ANAN.

Verso la mobilitazione per la liberazione di Anan: L’Aquila 19 dicembre – Iniziativa a Roma – info per il dibattito

Riceviamo e diffondiamo:

Carcere e guerra, incontro con Mansoor Adayfi

SABATO 13.12 H 19 PARCO DELLE ENERGIE – VIA PRENESTINA 175 – ROMA

Mansoor Adyfi è un ex prigioniero del campo di concentramento di Guantánamo, dove è stato detenuto per oltre 14 anni senza che fosse mai formulata nei suoi confronti nessuna accusa.

Guantánamo è un carcere di guerra statunitense attivo dal 2002, per la lotta al cosiddetto terrorismo, dove vige un perenne stato di eccezione, si opera in condizioni di extra territorialità ed extra legalità, ed i detenuti subiscono torture, privazioni, e una detenzione arbitraria.

Nel 2016 Mansoor Adyfi è stato consegnato alla Serbia e ha iniziato una lotta per costruirsi una nuova vita e per liberarsi dalla classificazione di sospetto terrorista.

Oggi è uno scrittore ed avvocato ed è l’autore del libro don’t forget us here, lost and found at GuantánamoA partire dalla sua esperienza di prigioniero a Guantánamo ha pubblicato articoli, rilasciato interviste, partecipato a documentari, programmi radio e podcast. Mansoor Adayfi è inoltre un attivista di CAGE international, organizzazione che sta supportando Prisoners for Palestine. A dimostrazione della censura in vigore verso chi difende la causa palestinese è stata bloccata la spedizione del suo libro in Italia e gli è stato concesso un visto di soli pochi giorni, motivo per il quale potrà tenere un numero limitato di iniziative.

Con questo incontro vogliamo approfondire la conoscenza dei dispositivi contro-insurrezionali usati dagli Stati colonialisti per supportare le loro aggressioni. L’utilizzo di questi strumenti viene sempre giustificato tramite la narrazione della “lotta al terrorismo”. Vediamo, ad esempio, come riguardo alla situazione in Palestina i governi occidentali, mentre non compiono alcun atto concreto contro il genocidio attuato da sionisti, sono sempre pronti a delegittimare la resistenza palestinese e a censurare, criminalizzare, reprimere ogni forma di solidarietà verso il popolo palestinese che vada al di la dell’umanitarismo di facciata. L’accusa di terrorismo è quindi sempre pronta per essere utilizzata contro chi sostiene la Palestina.

Noi invece vogliamo ribadire che la liberazione dal colonialismo passa attraverso l’autodeterminazione degli oppressi e quindi tramite la lotta che assume la forma della resistenza. Per noi solidarietà verso la Palestina significa quindi dare legittimità alla resistenza, contrastare ogni forma di collaborazionismo con Israele e smascherare tutta la narrazione mistificatoria a partire appunto da quella della ”war on terror” nata dal Patriot Act del 2001 e diffusasi in tutto il mondo.

Dobbiamo inoltre considerare come i dispositivi repressivi sperimentati ed utilizzati nei territori colonizzati possono “tornare indietro” ed essere utilizzati per la repressione all’interno dell’occidente. Basti pensare a quel vero e proprio carcere di guerra che è il 41 bis in Italia (utilizzato anche per la repressione politica) ed alle sue analogie con strutture di tortura e annientamento quali Guantánamo; oppure alla detenzione amministrativa usata tanto contro migliaia di prigionieri palestinesi quanto contro i “senza documenti” nei CPR italiani, oppure ai dispositivi di spionaggio, schedatura e controllo, all’utilizzo dell’intelligenza artificiale come strumento poliziesco e militare, che Israele sviluppa grazie alla collaborazione con le università occidentali, sperimenta contro i palestinesi e poi rivende all’estero. Riteniamo importante quindi conoscere questi dispositivi anche per difendersi qui. In particolare in un periodo in cui si manifestano una crescente crisi economica ed una tendenza alla guerra, alimentata da politiche militariste (vedi l’aumento delle spese militari e il ritorno della leva obbligatoria). In questa situazione la normalizzazione del fronte interno, l’aumento di repressione, controllo e censura, l’attacco agli sfruttati, agli esclusi, ai movimenti di lotta è più che probabile. Riteniamo necessario per le classi sfruttate comprendere questa realtà ed attrezzarci per contrastarla.

Nel corso di questo incontro parleremo dello sciopero delle prigioniere e dei prigionieri di Palestine Action nelle carceri britanniche.

Al momento vi sono sette “Prisoners For Palestine” in sciopero della fame, di cui tre ospedalizzati, ed alcuni di loro hanno annunciato di volerlo portare avanti ad oltranza. Altri trentatré prigionieri si uniranno allo sciopero, uno di loro Sean Midddlebrough ha colto l’occasione di un permesso di qualche giorno per darsi alla macchia ed è al momento irrintracciabile, ha rilasciato dichiarazioni con cui rivendica il suo gesto come il rifiuto di essere «un prigioniero di guerra dello Stato d’Israele in una prigione britannica». Fuori dalle carceri ci sono state manifestazioni di solidarietà, mentre proseguono le azioni dirette contro le aziende legate a Elbit Systems (fabbrica che produce droni e sistemi di sorveglianza) di cui gli scioperanti chiedono la chiusura degli stabilimenti nel Regno Unito.

Lo sciopero della fame dei detenuti inglesi ha assunto un carattere internazionale, hanno aderito anche Jakhy McCray negli Stati Uniti (recluso per l’incendio di alcuni mezzi della polizia di New York) e Dimitris Chatzivasileiadis prigioniero in Grecia. Hanno fatto arrivare la loro solidarietà i prigionieri palestinesi e Georges Ibrahim Abdallah. In Italia hanno supportato lo sciopero, con varie modalità di protesta, i prigionieri anarchici Luca Dolce (Stecco) – che ha tenuto uno sciopero della fame dal 8 al 29 novembre – , Juan Sorroche e Massimo Passamani.

A dimostrazione che Israele è l’avanguardia della repressione e che nello Stato sionista si sviluppano e sperimentano le pratiche e le tecnologie repressive che in seguito si esportano altrove, parleremo anche dello sciopero dei prigionieri comunisti turchi, rinchiusi nelle celle pozzo. Si tratta di cubicoli di cemento, introdotti recentemente in Turchia come forma di isolamento estremo e di tortura psicologica, e che sono lo stesso tipo di cella che da anni Israele utilizza per annientare i prigionieri palestinesi.

In questo contesto affronteremo inoltre la questione della repressione che lo Stato italiano sta conducendo – con crescente aggressività – verso i e le palestinesi e le persone solidali con il popolo palestinese. L’Italia è un paese che nella sua politica estera persegue gli interessi delle proprie multinazionali (ENI e LEONARDO). In Asia occidentale ha da tempo abbandonato politiche autonome ed equidistanti per porsi come piattaforma logistica dell’esercito statunitense e spalleggiare i piani espansionistici dei sionisti, anche facendo lo sbirro per Israele.

Tra i vari casi di questa attività poliziesca ricordiamo la condanna di Tarek Didri a 4 anni e 8 mesi di carcere, per avere difeso i manifestanti caricati dalla polizia al corteo del 5 ottobre 2024 di Roma; Ahmad Saled, un richiedente asilo di 24 anni rinchiuso da 6 mesi nel carcere di Rossano Calabro, con il capo di accusa di 270 quinquies (il cosiddetto terrorismo della parola introdotto recentemente), questo per dei semplici video che circolano liberamente in rete e in TV che gli sono stati trovati sul telefonino al momento della richiesta di asilo, che contenevano un invito al popolo arabo a mobilitarsi e scendere nelle strade a fianco dei loro fratelli e sorelle palestinesi; Mohamed Shahin, imam della moschea di S. Salvario a Torino, colpito da decreto di espulsione e trattenuto nel CPR di Caltanissetta, per le sue dichiarazioni a sostegno della resistenza palestinese e dell’attacco del 7 ottobre.

Tramite questa iniziativa daremo il nostro contributo alla giornata nazionale di mobilitazione in sostegno ad Anan Alì e Mansour. I tre palestinesi sono sotto processo a l’Aquila con l’accusa di terrorismo internazionale, ma per noi sono persone che hanno giustamente difeso la loro terra dal colonialismo. Il loro è un processo farsa, istruito dalle autorità italiane per esaudire la richiesta di Israele di colpire Anan, storico e dichiarato membro della resistenza della Cisgiordania.

Nelle ultime udienze abbiamo assistito alla presenza di funzionari dello Stato sionista in sostegno all’accusa, ovvero i tribunali italiani chiamano i responsabili di un genocidio a testimoniare contro chi lotta contro questo genocidio. Questo odioso atto di servilismo è ben rappresentato dalla dichiarazione, rilasciata in videoconferenza dal carcere di alta sicurezza di Melfi, da Anan:

“È successo in passato, e mi sono trovato di fronte a testimoni israeliani, ma era in un tribunale militare israeliano, di fronte alla giustizia militare all’interno di Israele. Ma non mi aspettavo, né attendevo, di dovermi trovare ancora una volta ad ascoltare la testimonianza dell’esercito israeliano che occupa la nostra terra e che pratica la pulizia etnica contro il nostro popolo palestinese, e che il loro Primo Ministro, condannato dalla Corte Internazionale come criminale di guerra, fosse un testimone contro di me in un tribunale italiano.

Non so più se mi trovo in un tribunale Israeliano e se vengo processato in base alla legge militare israeliana, e se il pubblico ministero sia israeliano o lavori per conto di Israele. Sarà forse un processo militare israeliano, Israele ha davvero così tanta influenza in Italia?

Si è inoltre tenuta la requisitoria della pubblico ministero la quale, nonostante nel dibattimento non sia mai riuscita a dimostrare nulla delle accuse rivolte ai tre, ha richiesto pesanti condanne, 12 anni per Anan, 9 per Alì, 7 per Mansour.

Di fatto queste pesanti pene sono quelle che richiede il codice per le accuse loro rivolte, la questione che si pone è che queste accuse sono infondate. Va inoltre ricordato che in Italia esistono le leggi antiterrorismo (ad esempio l’art. 270 bis ed i suoi derivati) che permettono di infliggere pesanti pene a partire da accuse fumose ed aleatorie, l’Italia in fatto di repressione politica non ha nulla da invidiare a nessuno.

Il processo farsa dell’Aquila, è la dimostrazione dell’asservimento della magistratura italiana agli assassini israeliani e della complicità del governo italiano con il genocidio in corso in Asia occidentale. Difendere la Palestina significa anche difendere i Palestinesi in Europa colpiti dalla longa manus di Israele e sostenere il diritto dei palestinesi a difendere la loro terra con i mezzi necessari.

Il 13 dicembre si terrà una giornata nazionale di mobilitazione diffusa in solidarietà con Anan, Alì e Mansour.

Il 19 Dicembre si terrà al tribunale di l’Aquila un’importante udienza del processo ad Anan, Alì e Mansour. In questà data parlerà la difesa e potrebbe essere emessa la sentenza.

Invitiamo da ora tutte e tutti i solidali a partecipare al presidio che si terrà a partire dalle ore 9.30 al tribunale de L’Aquila in via 20 settembre 68.

per la liberazione dei prigionieri politici in Filippine – info

Le 3 décembre 2025, à l’occasion de la Journée internationale de solidarité avec les prisonnieres politiques, les organisations Karapatan et Selda ont organisé une manifestation devant le Département de la Justice aux Philippines pour réclamer la libération des 696 prisonniers politiques  En particulier, elles dénoncent l’utilisation des lois anti-terroristes comme instruments de répression.

 

Campagna per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane

Da Osservatorio repressione

Anche i prigionieri palestinesi catturati da Israele hanno diritto di tornare a casa. Una mobilitazione internazionale per la liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti nei centri di tortura israeliani.

Marwan Barghouti (66 anni), detenuto da 23 anni in condizioni inumane e ora a rischio di essere giustiziato da Israele, è stato condannato con un processo che l’Unione Inter-Parlamentare ha dichiarato non conforme al diritto internazionale e non imparziale. Nei giorni scorsi è stato torturato dai suoi carcerieri, riportando costole rotte, dita spezzate, denti fatti saltare via a forza di botte e una parte dell’orecchio tagliata “per divertimento”.

Situazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane

Nel corso degli ultimi cinque decenni, secondo l’associazione Addameer per la difesa dei diritti umani, circa un milione di palestinesi sono stati imprigionati o detenuti in Israele, l’equivalente di circa il 20% della popolazione palestinese. Il tasso di condanna dei palestinesi davanti ai tribunali militari è di quasi il 90%. I palestinesi sono spesso condannati con processi farsa che si svolgono in pochi minuti, senza assistenza legale e in una lingua che non sempre conoscono.

Dal 7 ottobre 2023, Israele ha imprigionato più di 15.000 palestinesi provenienti da Gaza e circa 20.000 dalla Cisgiordania, di cui 1.560 bambini, 595 donne, 408 medici ed operatori sanitari, e 202 giornalisti. Attualmente, ci sono circa 10.000 prigionieri palestinesi in carcere in Israele, compresi circa 350 bambini di età compresa fra i 13 e i 18 anni, e 27 donne. Non si conosce il numero dei detenuti provenienti da Gaza.

Circa 300 prigionieri sono stati condannati all’ergastolo e circa 4.000 sono detenuti in “detenzione amministrativa”. Ofer è l’unica prigione che si trova in Cisgiordania, mentre le altre 18 prigioni sono in Israele, dove è praticamente impossibile per i familiari dei detenuti avere il permesso di entrare per far visita ai loro cari. Oltre alle 19 prigioni menzionate, il sistema di detenzione israeliano comprende diversi centri di detenzione e per interrogatori ed i tribunali militari.

La detenzione amministrativa è una pratica istituita da Israele per detenere i prigionieri palestinesi senza processo, senza un’accusa specifica e spesso senza accesso ad un avvocato. La detenzione amministrativa può essere rinnovata di sei mesi in sei mesi per anni.

Medici, infermieri, paramedici, giornalisti, anziani, persone con disabilità, donne e bambini si trovano attualmente nelle carceri israeliane in condizioni disumane, dove è sistematicamente applicata la tortura, compresa la violenza sessuale contro uomini e donne, dove l’accesso a cure mediche è sistematicamente negato, dove l’alimentazione giornaliera è insufficiente, provocando un ulteriore deterioramento della salute dei prigionieri. Sono stati riportati casi di amputazioni di arti per mancanza di cure mediche e frequenti casi di scabbia per via delle condizioni sanitarie carenti. Il prolungato isolamento, la tortura e l’umiliazione, oltre ai danni fisici, provocano anche traumi psicologici, specialmente nel caso dei bambini.

Dall’inizio del genocidio, si sono registrati più di 78 decessi nelle carceri israeliane a causa delle torture, mancanza di attenzione medica e malnutrizione, ma il numero totale dei prigionieri deceduti provenienti da Gaza è sconosciuto.

Il Prof. Adnan Al-Bursh, primario di ortopedia all’ospedale Al-Shifa di Gaza, stava lavorando all’ospedale Al-Awda quando è stato arrestato nel dicembre 2024 con altri medici, colpevoli di voler fare il loro dovere di salvare la vita dei pazienti, neonati e bambini, in un ospedale distrutto dalle bombe israeliane. Il Prof. Adnan Al-Bursh è morto in carcere, quattro mesi dopo l’arresto, dopo essere stato violentato con un bastone rovente dai soldati israeliani. Il suo corpo è ancora detenuto da Israele.

Il Dr. Hussam Abu Safiya, pediatra all’ospedale di Kamal Adwan, rifiutò di abbandonare i suoi pazienti durante l’incursione israeliana che distrusse il suo ospedale, sfidando i carri armati solo con il suo camice bianco ed il suo stetoscopio. È stato arrestato il 27 dicembre 2024, suo figlio era appena stato ucciso dalle bombe israeliane. Lo stesso giorno sono stati arrestati anche altri membri del suo staff ed i suoi pazienti, che lui aveva cercato di curare sino all’ultimo momento. Il Dr. Abu Safiya è stato incarcerato e brutalmente torturato da Israele ed è ancora in detenzione amministrativa, durante la quale ha contratto la scabbia. Il Dr. Abu Safiya ed altri prigionieri sono confinati in una cella sotterranea ed il pediatra ha perso una significativa quantità di peso, circa 40 chili.

Il Dr. Marwan Al-Hams, direttore degli ospedali di campo, venne sequestrato nel luglio 2025. Ferito durante l’arresto non si hanno notizie da allora.

Nidal al-Waheidi e Haitham Abdelwahed, due giornalisti palestinesi di 25 e 31 anni che lavorano per i canali indipendenti “Ein Media” e “an-Najah” nella Striscia di Gaza, sono stati arrestati il 7 ottobre 2023 mentre riprendevano l’attacco di Hamas, e da allora le autorità israeliane si rifiutano di rivelare il luogo di detenzione, le loro condizioni e le ragioni della loro detenzione.

Israele è uno dei pochi paesi al mondo dove i bambini – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari e detenuti in condizioni disumane nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido, in celle buie, umide e fredde, sporche e sovraffollate, spesso in celle di isolamento di un metro e mezzo per un metro e mezzo prive di luce naturale. Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni in contravvenzione alla Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo, di cui Israele è firmatario.

Ahmad Manasra venne arrestato all’età di 13 anni, fu brutalmente picchiato da un gruppo di israeliani e riportò fratture al cranio e sanguinamento interno. Rimase un anno in detenzione amministrativa e, all’età di 14 anni, nonostante il Tribunale riconobbe la sua innocenza, venne condannato a 12 anni di prigione poi ridotti a nove. Solo nel 2021, sei anni dopo la sua detenzione, ha avuto accesso ad un medico che gli ha diagnosticato la schizofrenia. Nonostante questo, continuò ad essere tenuto in isolamento sino al suo rilascio nel 2025 all’età di 23 anni.

L’Associazione Palestinese dei Prigionieri riporta che circa 6.000 minori sono stati detenuti da Israele dal 2015 ad oggi ed il 98% ha sofferto abusi e maltrattamenti fisici e psicologici e spesso sono stati obbligati a firmare dichiarazioni scritte in ebraico, che non parlano. I bambini rilasciati, a causa del trauma psicologico subito, soffrono di incubi, insonnia e diminuzione del rendimento scolastico.

Israele ha creato un doppio regime giuridico, una forma di apartheid giudiziario, che assicura l’impunità agli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, mentre criminalizza la presenza e la resistenza anche pacifica dei palestinesi. I tribunali israeliani sono una parodia della giustizia, strumenti dell’occupazione coloniale e militare.

Dall’inizio del genocidio, Israele ha negato al Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) l’accesso alle carceri e ai prigionieri Palestinesi e non gli ha più consegnato le liste dei prigionieri, in violazione della Terza e Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e del diritto internazionale umanitario. Nonostante gli appelli rivolti al governo israeliano da ICRC, dall’Association for Civil Rights in Israel, Physicians for Human Rights, HaMoked, and Gisha, l’accesso ai prigionieri continua ad essere negato.

Dopo l’accordo negoziato da Trump, Egitto, Qatar e Turchia con Israele e Hamas, in ottobre 2025, ed il rilascio degli ostaggi israeliani ancora vivi detenuti da Hamas, Israele ha rilasciato 1968 prigionieri palestinesi, di cui 250 con condanne all’ergastolo e 1718 sequestrati a Gaza senza accuse. Più di cento prigionieri sono stati esiliati in Egitto ed altri paesi. Tutti i prigionieri rilasciati riportano di essere stati vittime di torture, maltrattamenti, mancanza di cure mediche e scarso accesso a cibo ed acqua. Israele ha, inoltre, restituito i corpi di circa 200 prigionieri morti in detenzione, tutti con orribili segni di tortura e molti senza organi, rubati da Israele.

Marwan Barghouti: il leader politico e l’educatore

Marwan Barghouti, prigioniero politico, condannato a cinque ergastoli, in carcere da 23 anni, accusato di aver fondato le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, braccio armato di Al-Fatah. Si è sempre dichiarato innocente, ma ha rifiutato di difendersi dichiarando di non riconoscere la giurisdizione israeliana sui territori palestinesi e la legalità dei tribunali israeliani.

Nato in Cisgiordania nel 1958, è entrato giovanissimo in Al-Fatah e ne è divenuto il leader alla morte di Yasser Arafat. Venne arrestato una prima volta a 18 anni e poi rilasciato. Nel 1987 venne, nuovamente, arrestato e poi esiliato. Ritornerà in Palestina nel 1994, dopo la firma degli accordi di Oslo di cui è stato sostenitore. Nel 2002, prima di venire nuovamente arrestato, scrisse una lettera aperta al Washington Post, dichiarando che Al-Fatah “non abbandona il diritto a difendere la terra palestinese e la lotta per la libertà del suo popolo”, ma allo stesso tempo si riferisce agli israeliani come “i nostri vicini” e si schiera contro atti di violenza contro i civili israeliani. Marwan venne condannato definitivamente nel 2004, in un processo ritenuto parziale e non conforme al diritto internazionale dall’Unione Inter-Parlamentare.

Nel 2006 redige il “Documento dei prigionieri”, un documento programmatico per la riconciliazione fra le diverse fazioni palestinesi condiviso da Fatah e Hamas che propone la fine dell’occupazione israeliana e uno Stato palestinese indipendente e sovrano, accanto ad Israele, sulla base dell’accordo del 1967.

Marwan Barghouti, riconosciuto dai palestinesi – sia da Hamas che da Al-Fatah e dalle altre formazioni politiche – come il possibile unificatore del popolo palestinese sotto una visione ed una agenda comune, gode di una popolarità maggiore di Abu Mazen. Sinwar, il leader di Hamas ucciso da Israele a Gaza, ne aveva chiesto la liberazione negli scambi di prigionieri del 2011, 2021 e 2024. Netanyahu, consapevole del valore politico della sua liberazione, si è sempre opposto.

La necessità di consolidare una leadership palestinese capace di coalizzare i vari gruppi dietro un progetto politico unitario viene menzionata internamente da più parti e Marwan Barghouti è identificato come il possibile leader, spesso paragonato a Nelson Mandela, non solo per la sua ingiusta e prolungata incarcerazione, ma per la sua visione progressista e unitaria. Nelle recenti trattative in Egitto si è tornato a parlare di Marwan Barghouti, che non è il leader di Hamas e mai lo è stato, ma è il leader di tutti i palestinesi e l’unico in grado di dialogare con l’autorità del suo popolo con il governo israeliano, il mondo arabo, e tutta la comunità internazionale.

E come fu il caso per Nelson Mandela, la sua liberazione e la sua leadership potrebbero cambiare il corso della storia in Palestina ed in Medio Oriente. 1.2.2.

Marwan Barghouti si è laureato in storia all’Università di Bir Zeit in Cisgiordania, dove divenne rappresentante degli studenti nel consiglio d’amministrazione dell’ateneo. Ottenne, poi, una seconda laurea in scienze politiche ed un Master of Arts in relazioni internazionali.

In carcere ha sempre stimolato gli altri prigionieri a studiare, organizzando lezioni di diritto internazionale, di politica e storia. Molti ex-prigionieri hanno proseguito gli studi e si sono laureati grazie ai suoi insegnamenti. Ha invitato gli atri prigionieri anche a studiare ebraico, che lui conosce, perché sostiene che bisogna capire il linguaggio e la cultura di Israele per poterci dialogare. Un “professore in prigione” che ai suoi compagni di prigionia insegna la differenza tra rabbia e dignità.

Questo contrasta con l’atteggiamento del Ministro degli interni israeliano Ben Gvir, che nell’agosto 2025 si è recato nella cella di Marwan Barghouti per umiliare l’avversario politico più temuto da Israele, ormai ribattezzato “il Mandela di Palestina”. Il video dell’incontro tra Ben Gvir e Barghouti mostra un uomo consumato dalla prigionia e dalla tortura, ma che ha preservato il proprio rispetto e il proprio valore intrinseco, dimostrando una dignità individuale ancora intatta.

Testimonianza di un prigioniero rilasciato nella West Bank: “Noi lottiamo per la libertà, ma non odiamo. La lotta basata sull’odio è un crimine, quella basata sull’amore è rivoluzione. Noi crediamo nella giustizia sociale e nella democrazia e nell’unità nazionale. Noi vogliamo lo stato di Palestina nei confini del 1967, ma la nostra appartenenza è alla Palestina storica. In questa terra c’è posto per tutti gli uomini liberi. Abbiamo bisogno di un leader come Marwan per attraversare questo momento difficile”.

La liberazione di Barghouti

La detenzione di Barghouti è funzionale alla politica di Israele di mantenere la dirigenza palestinese divisa nelle varie fazioni per impedire la creazione di una visione e programma unitario per lo stato palestinese. Barghouti è il simbolo dell’unità palestinese da Gaza alla Cisgiordania e fra la diaspora.

Nel corso degli anni, diversi politici israeliani si erano detti favorevoli alla sua liberazione, compreso Shimon Peres, che però non fece nulla per liberarlo. Fadwa Ibrahim Barghouti, la moglie ed il suo avvocato, si batte da anni per la sua liberazione.

Nel 2013, Ahmed Kathrada, figura emblematica della lotta antiapartheid in Sud Africa, e Fadwa Barghouti, lanciarono, dalla vecchia cella di Nelson Mandela sull’isola di Robben Island, una campagna internazionale per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici palestinesi, ottenendo il sostegno di otto premi Nobel per la Pace, 120 governi e centinaia di leaders, parlamentari, artisti e studenti universitari di tutto il mondo.

Con questa nuova campagna chiediamo nuovamente la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi – i bambini, le donne, i medici e tutti gli operatori sanitari, i giornalisti – così come la chiusura dei centri di tortura israeliani, il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, l’accesso dei detenuti alla difesa, alle cure mediche, a sufficiente cibo ed acqua e l’accesso di ICRC ai prigionieri e alle liste dei prigionieri.

Appelli per la liberazione di Marwan Barghouti sono stati fatti da The Elders, progressisti israeliani e politici di tutto il mondo. Il 12 novembre 2025 il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura un emendamento del codice penale che introduce la pena di morte per i cosiddetti “terroristi”, con effetto retroattivo. La vita di Marwan Barghouti è a rischio, mentre la sua salute in carcere continua a deteriorarsi per effetto delle torture, isolamento e trattamento inumano.

Lettera di Fadwa Barghouti (2025): “Marwan non ho riconosciuto i tuoi lineamenti, e forse una parte di me non vuole accettare tutto quello che il tuo viso e il tuo corpo esprimono, tutto quello che tu e i prigionieri avete sopportato in carcere.

Marwan ti stanno ancora inseguendo, anche dopo 23 anni di prigione e 2 anni nella cella d’isolamento in cui vivi.

Ti stanno ancora prendendo di mira, le catene sono ancora alle tue mani, ma conosco il tuo spirito e la tua determinazione.

So che rimarrai libero… libero… libero. Ti preoccupi solo del tuo popolo e di porre fine alle sue sofferenze che hanno raggiunto il cielo a Gaza, ottenendo la loro libertà e preservando la loro dignità.

Oh montagna, nessun vento può scuoterti”.

So che l’unica cosa che può scuoterti è ciò che senti del dolore del tuo popolo, e l’unica cosa che ti ferisce è l’incapacità di proteggere i bambini palestinesi. Tu sei del popolo, e ovunque tu sia, sei in mezzo a loro, sei di loro e parte di loro; il tuo destino è legato al popolo. Così eri, e così rimarrai”.

Fadwa Al Barghouti

 

LE ADESIONI

Come organizzazioni della società civile che difendono i diritti umani, il diritto internazionale ed il diritto del popolo palestinese alla libertà ed autodeterminazione, abbiamo aderito alla campagna internazionale e creato un comitato nazionale.

Per fare di questa campagna un movimento unitario presente a livello nazionale, vi invitiamo ad organizzarvi e coordinarvi fra associazioni delle vostre realtà locali e promuovere iniziative sui contenuti della campagna, che sono:

– la liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane,

– la liberazione del leader Marwan Barghouti,

– la chiusura dei centri di tortura israeliani,

– il rispetto dei diritti umani e diritti dei prigionieri,

– il rispetto della Terza e Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e del diritto internazionale umanitario e l’accesso del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) alle carceri e ai prigionieri Palestinesi detenuti in Israele.

Vi chiediamo che in OGNI MANIFESTAZIONE sia VISIBILE la campagna per la libertà di Marwan e dei prigionieri palestinesi

Vi ringraziamo, inoltre, se potete comunicare la formazione dei comitati locali o semplicemente le azioni che ciascuna organizzazione a livello locale intende fare e programmare a: freemarwanitalia@proton.me

La raccolta firme online è ancora attiva e troverete il link sotto per adesioni individuali e collettive. Ci sono attualmente 19,686 firme registrate. Molti degli aderenti al comitato nazionale hanno già firmato la petizione su change.org: https://www.change.org/p/libertà-per-marwan-barghouti-il-nelson-mandela-palestinese?source_location=my_petitions_list