Informazioni su soccorso rosso proletario

Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali "elementi di compensazione" che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di "utili" generi di occupazione. Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? ...

Ancora sul processo italiano alla resistenza palestinese: la criminalizzazione della solidarietà

Non sono bastate le prescrizioni inutili imposte ai presidi nazionali a L’Aquila per Anan, Ali e Mansour del 21/11 e del 19/12 a scoraggiare la solidarietà, centinaia di persone hanno partecipato all’ultima udienza in cui era prevista la sentenza. Ora la Digos dell’Aquila ci riprova, a quasi un mese dalla sentenza, con un articolo a firma di Marcello Ianni sul Messaggero d’Abruzzo del 22 dicembre, nel tentativo di creare un immaginario collettivo volto a criminalizzare la resistenza del popolo palestinese e a spargere un clima di paura e tensione verso le persone solidali.

L’articolo in questione si apre con il seguente titolo: “Irruzione ProPal al supermercato, indagata un’aquilana di 61anni”, seguito dalla scritta in grassetto: “Per il pm Roberta D’Avolio disposta la scorta” e sotto la scritta in evidenza: “Processo ai tre palestinesi accusati di terrorismo – scorta per il pm D’Avolio e per Gargarelli presidente del collegio”.

Considerando che la maggior parte dei “lettori” si ferma oggi ai titoli e sottotitoli dei giornali, la conseguenza logica di un siffatto articolo è da un lato il tentativo di gettare ancora fango sui ProPal, dall’altro la loro intimidazione, posto che non è l’iscrizione nel registro degli indagati di una di loro la “notizia”. Se lo fosse, avrebbe dovuto essere pubblicata per tempo, dato che la chiusura delle indagini preliminari per il flash mob del 25 aprile al Carrefour è stata comunicata a L.D.B. per lo meno l’8 ottobre.

In quella stessa data L.D.B. veniva anche informata dell’archiviazione di parte delle querele da lei sporte per diffamazione nei confronti di un giornalista filo-sionista e di vari consiglieri comunali di centrodestra e di centrosinistra. A questa archiviazione L.D.B. ha fatto opposizione, ma delle denunce-querele nell’articolo del messaggero non si parla, anche se si riportano testualmente brevi stralci delle stesse.

Un’altra ipotesi circa il tempismo di questa “informazione” potrebbe essere quella di far dimenticare ai lettori di quando si è strillato ai 10 propal denunciati per l’azione del 25 aprile a L’Aquila, ed ora, rimasti con una sola e tre palestinesi sotto processo con l’accusa insussistente di terrorismo e in attesa di sentenza, quale occasione migliore per rilanciare il terrorismo mediatico nei confronti della solidarietà alla resistenza palestinese?

Da quando è iniziato il calvario giudiziario per Anan, Ali e Mansour, ogni presidio di solidarietà sotto il Tribunale è stato organizzato da L.D.B., ma nei presidi dove era attesa la maggiore partecipazione sono state fatte delle prescrizioni inutili, il cui unico senso era infastidire, se non addirittura intimidire, l’organizzatrice. Ed ora, “sempre restando in tema della Palestina”, si accosta a L.D.B. e ai tre palestinesi, la scorta alla D’Avolio e a Gargarella, nell’ansia di costruire un ulteriore teorema che giustifichi un’eventuale sentenza di condanna il 16 gennaio e criminalizzi la solidarietà. Ma sappiano, gli inquisitori, che l’unica cosa che hanno da temere è che emerga la verità, anche se a questo punto un dubbio torna ad affiorare testardo, anzi più di uno:

Sarà una sentenza di condanna già decisa? E da chi?

Avrete il coraggio di emetterla a nome di Israele o userete ancora il popolo italiano per condannare il popolo palestinese?

Sappiate in ogni caso che la solidarietà proletaria e popolare, che a voi fa così paura, sconfiggerà l’isolamento, le vostre sporche guerre e vincerà sull’ingiustizia e la morte su cui si fonda questo putrido sistema capitalista. Perché dove c’è ingiustizia la Resistenza è un dovere, e dove c’è Resistenza c’è solidarietà.

La solidarietà è la nostra scorta

Il 16 gennaio alle ore 9:30, tutte e tutti al tribunale dell’Aquila

L.D.B. per il soccorso rosso proletario

Ancora sul processo italiano alla resistenza palestinese – Stralci della dichiarazione di Ali

Il 16 gennaio 2026 la Corte d’Assise di L’Aquila stabilirà se sia legittima o meno la resistenza armata ad un paese occupante e se si possano considerare civili dei coloni armati che prendono possesso di territori altrui, con il sostegno e l’impunità dell’esercito dell’occupazione.

Nell’ultima udienza finalmente sono emerse, anche nelle dichiarazioni di Ali e Mansour, le ragioni che hanno portato Anan a scegliere di combattere per la libertà della sua terra e del suo popolo. Ragioni che sin dall’inizio sono state escluse dal processo, epurandolo da tutti gli elementi di contesto: violenze continue, storie di famiglie devastate dal colonialismo di insediamento israeliano, di amici e parenti in detenzione amministrativa senza aver commesso reati, di palestinesi torturati da esercito e servizi segreti.

Particolarmente lungo e toccante è stato il racconto di Ali, di cui pubblichiamo stralci, per fare giustizia di un popolo, oggi sotto processo a L’Aquila, per “aver voluto inseguire un sogno: vivere in pace, in un paese non macchiato ogni giorno dal sangue del suo corpo“:

Mi chiamo Ali Irar, sono nato nel 1994 a Ramallah, in Palestina.

Mentre mia madre partoriva, mio padre era in carcere in detenzione amministrativa, senza prove e senza imputazione. È stata solo una delle quattro volte in cui ci è finito, sempre in detenzione amministrativa, senza che fosse mai formulata un’accusa a suo carico.

Solo l’anno prima suo fratello era stato ucciso dall’esercito israeliano all’età di 19 anni, mentre lavorava in un cantiere, ucciso per sbaglio durante l’intervento dell’esercito nel suo villaggio.

Era rimasto a terra sanguinante per svariate ore. L’esercito aveva impedito che i soccorritori potessero avvicinarsi all’area interessata dall’azione finché non è morto dissanguato. Continua a leggere

Askatasuna – oggi corteo a Torino – Noi cominciamo ad esserci…

Ospitiamo intanto interventi del Centro, per discuterli in corso d’opera nei prossimi giorni

Sgombero di Askatasuna: chi fa i piani e chi fa la storia

Lo sgombero di Askatasuna non può essere trattato come un semplice atto di repressione da parte di un governo di ultradestra. Questo fatto politico è la somma di vicende complesse ed articolate che è necessario comprendere a fondo.

 Sarebbe consolatorio, ma inefficace, ridurlo ad un atto di fascismo istituzionale. Attenzione: non neghiamo la progressiva deriva autoritaria in cui il governo Meloni è impegnato, ma ciò che ci interessa di più sono gli scopi di questa deriva ed i suoi dispositivi concreti. Per capire cosa significa lo sgombero di Askatasuna bisogna provare ad inoltrarsi nei diversi livelli di realtà su cui impatta questo fatto.

  1. La politica del simbolico. Lo storico centro sociale torinese è stato per quasi tre decenni un simbolo che rappresentava significati differenti a seconda di chi lo narrava. Per alcuni era un’alternativa credibile alla politica istituzionale, una rappresentazione romantica del conflitto sociale, un luogo di socialità differente, una fucina culturale e politica. Altri lo rappresentavano come una “centrale della violenza”, il “centro sociale più duro d’Italia”, una manica di teppisti e perdigiorno. Queste narrazioni erano come ombre cinesi, proiezioni di un soggetto mutevole che, a seconda della direzione da cui proveniva la luce che lo illuminava, cambiava forma. Su Askatasuna venivano proiettate speranze e paure, aspettative e timori. Questo portato simbolico è stato croce e delizia, ma non ha mai rappresentato realmente la natura di questo spazio sociale. Le centinaia di militanti che hanno attraversato le sue mura in questi decenni hanno sempre radicalmente rifiutato la rappresentazione di un oggetto alieno, di una riserva indiana, di un residuo antistorico e si sono sempre impegnate ed impegnati in prima persona nel tentare di capire la società che avevano davanti per cambiarla. In una società in cui la politica procede per lo più su un livello del simbolico, appunto, i militanti e le militanti hanno cercato invece di costruire delle trasformazioni concrete nel quartiere, in città, in Val Susa. Le quattro mura del centro sociale non hanno mai rappresentato l’interezza della proposta politica di un’area militante, quella dell’autonomia torinese che è un’esperienza vivace, fortemente radicata nella città e tra le pieghe delle sue contraddizioni. Lo sgombero di quelle quattro mura è stato in primo luogo un atto simbolico. Il governo Meloni in questo momento è impegnato in una delle politiche di austerity più dure dai governi tecnici che tanto ha contestato a parole. Non solo: è il governo protagonista del riarmo del nostro paese. Tra la popolazione italiana vi è un malcontento crescente ed una forte ostilità nei confronti di queste scelte politiche concrete, dunque la consorteria che si è installata al governo deve ogni giorno cercare nuovi simboli su cui deviare l’attenzione mentre procede allo smantellamento del welfare. Che si tratti della “famiglia nel bosco” o dello sgombero di un centro sociale, l’importante è deviare l’attenzione mediatica su un terreno differente da quello delle decisioni politiche-economiche del governo. Lo sgombero di Aska arriva proprio nei giorni in cui si compie il redde rationem interno al governo ed alla Lega sulle pensioni. Questa politica del simbolico ha due scopi principali: da un lato, come detto, spostare la discussione pubblica su argomenti meno spinosi per il governo, dall’altro quello di mantenere la fedeltà dello zoccolo duro di elettori di destra che si consolano della crisi sociale godendo di un po’ di pugno di ferro contro comunisti e migranti. Le decisioni chiave del governo sono tutte pilotate da Washington e Bruxelles e dunque bisogna sparare un po’ di fuochi d’artificio perché la gente guardi altrove.
  2. Il governo della città. Se c’è un progetto chiaro da parte della destra di governo è quello di espugnare tutte le istituzioni che per un motivo o per l’altro non si allineano con il suo progetto. Il modello è quello trumpista, ma in una versione soft-core. Torino è una di quelle città che per tradizione, ma soprattutto per composizione sociale si è sempre dimostrata ostile alla destra. Anche in questi decenni di profonda crisi sociale e di vocazione i torinesi hanno cercato risposte a sinistra piuttosto che a destra, nonostante i ripetuti tentativi delle compagini fasciste e post-fasciste di mestare le acque nei quartieri popolari ed indirizzare la rabbia verso gli immigrati. Coloro che in Fratelli d’Italia si candidano a governare Torino nella prossima legislatura sono vecchie conoscenze dell’antagonismo torinese. Maurizio Marrone ed Augusta Montaruli fin dall’inizio della loro carriera politica nel FUAN si sono misurati con la forte opposizione antifascista ed antirazzista alla loro propaganda. Sanno che “a Torino non si passeggia” e che i movimenti sociali della città sono un ostacolo concreto alle loro mire politiche. Non tanto e non solo per via dell’antifascismo militante che è impresso nel DNA di uno dei territori al centro della Resistenza Partigiana, ma soprattutto perché la presenza di movimenti sociali radicati, strutturati e socialmente organizzati impedisce alla destra di incanalare il malcontento nelle loro narrazioni rancorose e, come si diceva sopra, nella loro politica simbolica. È questo il vero punto che tanto il centro-sinistra istituzionale che i tanti commentatori progressisti non riescono a capire. Finché le forze sociali sono organizzate e vigili, finché l’antagonismo si esprime sul terreno del conflitto sociale di massa, la destra non ha spazi per insediarsi nelle pieghe della città. La controparte punta proprio a disorganizzare queste forze, a gettarle nell’isolamento, a rompere il vincolo solidale che esse costituiscono nella prospettiva di un cambiamento radicale dello stato di cose presente. Solo così una città come Torino è espugnabile. Sono anni che la destra lavora a questo progetto. Si mormora nei precedenti tentativi di sgombero di incontri in Prefettura con il Ministro Piantedosi alla presenza di Augusta Montaruli, non si sa a che titolo. La stessa Montaruli dalla cui segnalazione sarebbero partite le pratiche per l’espulsione di Mohamed Shahin. Sui giornali i retroscena parlano di Maurizio Marrone, papabile candidato sindaco del centrodestra, come vero regista dell’operazione di sgombero. È uno spartito più o meno simile, anche se con intensità diverse, a quello che viene suonato in altre città governate dal centro-sinistra o in territori come la Val Susa dove i movimenti sociali sono particolarmente strutturati e forti.

    La pavidità del sindaco Lo Russo di fronte all’ennesimo tentativo di portare a termine questo progetto avrà un costo politico per la città ben più profondo di qualsiasi nenia sulla legalità e la sicurezza. Alle ultime elezioni il PD a Torino ha vinto più per il rifiuto di lasciare la città in mano alla destra che per la convinzione verso un’amministrazione che si è dimostrata, salvo rari casi, impalpabile, compromessa con gli interessi imprenditoriali che hanno mandato allo sfascio la città e per lo più inadatta a governare la profonda crisi sociale. Il patto per il bene comune era, non va nascosto, il punto d’incontro tattico tra esigenze e storie profondamente diverse. Da parte dei militanti e delle militanti dell’autonomia torinese c’era il bisogno di rispondere ad un attacco a 360 gradi nei confronti delle esperienze di autorganizzazione in città, ma anche di prendere atto che una stagione delle forme che aveva assunto questa autorganizzazione in passato si stava chiudendo, senza rinnegare la propria storia e la propria natura antagonista. Dall’altro lato l’amministrazione di centro-sinistra voleva evitare che la compagine di destra al governo del paese utilizzasse lo sgombero per pesare sugli assetti politici cittadini dall’esterno e che esso potesse influire sulla tenuta della maggioranza in Comune. Era chiaro fin dall’inizio che questo patto tra esperienze politiche radicalmente differenti e spesso contrapposte si reggeva, fuor di retorica, sul mutuo interesse nel contrastare il progetto delle destre e non su un tentativo di recupero istituzionale del centro sociale. Nonostante ciò la retorica che il sindaco ha messo in campo è sempre stata sulla difensiva, un tentativo di mascherare la realtà dei fatti dietro un velo di ipocrisia che si può riassumere nella parola “legalizzazione”. Questo terreno ambiguo battuto dalla comunicazione istituzionale ha costruito le premesse per il disastro politico che l’amministrazione sta affrontando. Ciò che è tristemente grottesco è che mentre il governo di destra produce quotidianamente forzature nell’ambito della legalità data, affrontando persino processi giudiziari come momento di rafforzamento della propria narrazione, il centro-sinistra giustizialista si impicca con le proprie mani alla corda della legalità. Il patto per il bene comune aveva acceso molte speranze e forse illusioni in settori della società torinese stanchi di un centro-sinistra incolore ed insapore, ma il sindaco invece di rivendicare la legittimità sociale riconosciuta di questo processo ha sempre giocato di rimessa, accettando le retoriche delle destre sul centro sociale, ma sostenendo che una sua “legalizzazione” sarebbe stata più efficace di uno sgombero violento. L’ennesimo tentativo di mascherare una scelta politica come un atto amministrativo, invece di rivendicarla apertamente. Il sindaco in parole povere voleva la botte piena e la moglie ubriaca, sperava di portare avanti la sua immagine di moderato affidabile (una posa che in questa epoca storica non produce nessun consenso) senza alienarsi i consensi di chi in città vorrebbe una sinistra perlomeno più coraggiosa. Non ha avuto né l’una, né l’altra sventolando la bandiera bianca. Il sindaco ieri si è nuovamente pronunciato mostrando di avere, almeno in parte, capito di essere caduto nella trappola appositamente confezionata. Ha ventilato l’ipotesi di una nuova assegnazione e del rilancio del patto. Difficile dire come si giocherà la partita istituzionale per recuperare il consenso a sinistra mentre i guastatori della milizia di Piantedosi stanno occupando militarmente e tentando di rendere inutilizzabile lo stabile.

  3. Sumud. Nelle dichiarazioni ai giornali attivisti ed attiviste hanno collocato lo sgombero all’interno della più ampia dinamica di attacco nei confronti del movimento in solidarietà con la Palestina che ha riempito le piazze italiane negli ultimi mesi. La stessa sequenza storica lo dimostra chiaramente: prima il tentativo di espulsione di Mohamed Shahin, punto di riferimento del movimento contro il genocidio a Torino, poi, quando l’inconsistenza delle accuse su cui era basato il decreto di esplulsione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Torino, lo sgombero di Askatasuna.
  4. A Torino il movimento “Blocchiamo tutto” è stata un’esperienza di effettiva ricomposizione sociale che ha visto il protagonismo di scuole, università, luoghi di lavoro, quartieri popolari. Una forza trasversale e radicale che ha investito molti ambiti della vita cittadina.
    Come in molti altri posti d’Italia la mobilitazione ha raggiunto picchi che non si vedevano da decenni. Questo movimento ha mandato in crisi di nervi la narrazione del governo tesa a disegnare il conflitto sociale sempre in una forma criminalizzante. Gli attacchi scomposti degli esponenti della maggioranza nei confronti dei manifestanti raccontano quanto questo movimento gli sia indigesto e insopportabile. Questo per vari motivi: dal fatto che rivela la subordinazione internazionale dell’Italia ad altre potenze, fino alla dimostrazione che uno sciopero sociale reale può contare persino sugli equilibri degli scenari internazionali (ne abbiamo parlato più lungamente qui). Nonostante il finto cessate il fuoco nella Striscia di Gaza i presupposti sociali e politici che hanno portato allo sviluppo di questo movimento sono ancora tutti sul tavolo. Ma nel frattempo si sono solidificate anche nuove militanze, nuovi spazi e nuove forme di attivazione politica. La spallata al governo, più che dalle opposizioni parlamentari e dai giudici, sfere con cui la destra è abituata ad utilizzare una retorica collaudata ed efficace, può venire da questa forza potenziale delle piazze. È per questo motivo che gli apparati di disciplinamento statuali da mesi procedono con un tentativo scientifico di disarticolazione del movimento, tanto sul piano della delegittimazione delle istanze, quanto su quello poliziesco e giudiziario. Ondate di troll hanno invaso i social media con commenti fotocopia sperando di spostare un’opinione pubblica drasticamente ostile al genocidio ed ancora una volta spezzare il vincolo di solidarietà. L’efficacia di questi dispositivi è relativa: in parte perché ai tentativi di repressione si sovrappone un rancore politico tipico di quella compagine che può compiacere i fedelissimi, ma appare disarmante al resto della popolazione. Ed in parte perché questo movimento ha realmente trasformato i rapporti sociali, ha mostrato nuove possibilità di fare politica dal basso, ha generato nuovi modi di informarsi e confrontarsi, specialmente tra le giovani generazioni.
  1. L’elmetto. Quasi tutte le società europee, indipendentemente dalle compagini che le governano, stanno restringendo sistematicamente gli spazi di dissenso e contestazione. Il motivo è molto semplice: il popolo non vuole la guerra, quindi bisogna disciplinarlo alla guerra per difendere gli interessi di un capitalismo, quello europeo, in crisi profonda. Il principale problema che si trova di fronte la politica di riarmo e militarizzazione dell’UE è proprio l’opinione pubblica interna, in gran parte indisponibile a diventare carne da cannone, sia a livello economico-sociale, sia a livello prettamente militare. Per preparare la guerra non bastano gli investimenti nella difesa, la reintroduzione della leva, l’ampliamento degli eserciti di professione: bisogna che almeno in una parte significativa la società sia convinta della necessità dello scontro. Dunque bisogna neutralizzare e silenziare le forze sociali che si oppongono ad essa, bisogna impedire che questo senso comune si faccia mobilitazione, che il rifiuto della guerra da opinione passiva e privata prenda le forme di un’opposizione sociale. È proprio nelle lotte contro la guerra che sta iniziando a nascere una nuova consapevolezza politica che collega il regime di militarizzazione con la crisi economica, la stagnazione dei salari, i tagli al welfare e l’austerità.

È necessario collocare l’attacco ad Askatasuna all’interno di questo scenario per comprendere quante partite si giocano all’interno di questo evento, ma soprattutto per capire che la risposta non può riguardare solo l’identità storica dei centri sociali come spazi di  aggregazione e pensiero alternativo, ma deve investire le contraddizioni del presente ed essere all’altezza del futuro che abbiamo di fronte. È ancora un altro inizio.

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 Contro lo sgombero di Askatasuna solidarietà e mobilitazione nazionale.

 Massima denuncia – e poi ci discipliniamo secondo la mobilitazione che il centro decide

Questa, lo abbiamo detto sin dall’inizio del governo Meloni, è la “madre” di tutte le battaglie in questo campo e come tale la condurremo – Siamo tutti Askatasuna!
Questo sgombero non passerà e comunque governo, Stato del capitale, partiti parlamentari, stampa borghese devono pagare un alto costo politico e sociale per quello che stanno facendo.

La repressione non spegne ma alimenta la ribellione! – La repressione non ci fa paura la nostra lotta si farà sempre più dura!
Avete seminato vento raccoglierete TEMPESTA! – Il fascismo e lo Stato di polizia non passeranno – La guerra imperialista si deve fermare – Palestina libera dal fiume al mare
Ora è sempre Resistenza!

proletari comunisti
Slai cobas per il sindacato di classe
Soccorso Rosso Proletario

18 dicembre 2025

Processo italo israeliano alla Resistenza palestinese: la parola ai palestinesi e alla difesa. Per le repliche e la sentenza , partecipiamo numerose all’udienza fissata per il 16 gennaio

Oggi si è svolta quella che doveva essere l’udienza conclusiva del processo di primo grado alla Resistenza palestinese in Italia. Per l’ampiezza delle argomentazioni e considerazioni riportate oggi dalla difesa, e forse anche per per la massiccia partecipazione al presidio fuori e dentro il Tribunale dell’Aquila (almeno 200 persone), il presidente della corte ha fissato per il 16 gennaio l’udienza per le repliche dell’accusa e la sentenza.

Per la prima volta abbiamo sentito le dichiarazioni spontanee di Ali e Mansour, che pur estranei alla lotta armata resistenziale, hanno riportato in aula il clima di oppressione, repressione e violenza coloniale che ogni palestinese vive nel contesto dell’occupazione militare israeliana. Storie di morte, assassinii, imprigionamenti arbitrari, torture, minacce, vessazioni e soprusi che ogni palestinese potrebbe raccontare, se solo lo si ascoltasse. Cercheremo di rendere disponibili queste commoventi dichiarazioni al più presto.

Anan ha reso la sua dichiarazione dal carcere di Melfi in videoconferenza, questa volta con una bandiera palestinese sulla scrivania della saletta dalla quale era collegato al processo.

L’ha letta in italiano e così la riportiamo:

“Se sono nato in Palestina questa non è una mia scelta. Ma un regalo dalla vita per me. “Se io sono oggi palestinese”.

Ma se io faccio la resistenza è una scelta, è la mia volontà, è la mia decisione. Per difendere il nostro Popolo, la nostra terra e i nostri bambini, se uccisi tutti i giorni dal 1948 fino ad oggi per mano degli israeliani.

E questa decisione è la cosa migliore che ho fatto in vita mia. 

È sbagliato pensare che chi fa la resistenza non ami la vita. Noi amiamo la vita più di tutti ma vogliamo vita con libertà e non vita come schiavi. 

Vogliamo buona vita, libera e sicura per i nostri bambini. 

Per questo noi diamo la nostra vita per il nostro Popolo. 

Se mi condannate e rimango in carcere o se esco Libero. 

Questo non cambia niente. Amo e amerò sempre il popolo italiano. 

Il popolo partigiano italiano una parte di noi, e noi siamo una parte di lui. 

Il popolo italiano se loro fanno un intifada. che io non ho mai visto in altri paesi del mondo, questo movimento è uno tsunami 

Grazie Flottilla, e tutte per aiutare il popolo palestinese, per fermare il genocidio. 

Fanno tutti per noi senza avere lo stesso sangue e la stessa lingua, ma solo perché c’è lo stesso cuore per l’umanità e per la libertà.

Il popolo italiano è come sempre, è stata la prima resistenza per noi.

Signor giudice La resistenza è un’idea e l’idea non muore. Anche se noi moriamo, restiamo vivi nei cuori del nostro Popolo. 

Noi abitiamo nei cuori di tutte le persone che amano la libertà. 

Nelson Mandela vive nei nostri cuori. 

Che Guevara vive nei nostri cuori. 

Yasser Arafat vive nei nostri cuori.

George Habash vive nei nostri cuori.

Jihad Shihade vive nei nostri cuori. 

Abu Shujaa vive nei nostri cuori.

Tamer Al-Kilani vive nei nostri cuori

Viva la Palestina araba palestinese e libera!

Viva la resistenza palestinese fino alla libertà!

Viva la gioventù palestinese in Italia e in tutto il mondo!

Libertà per tutti i prigionieri che lottano per la libertà!

Libertà per i nostri prigionieri nelle carceri israeliane!

Libertà per il nostro padre Marwan Barghuthi!

Un giorno ci sarà un bambino palestinese che alzerà la nostra bandiera della Palestina Libera!

Viva la Palestina Araba palestinese.

Viva la Resistenza fino alla libertà.

Grazie a voi”

19.12.2025

c.c. di Melfi 

Anan Yaeesh

Ancora in piazza a Bergamo contro la repressione e per la Palestina

Venerdì 19 partecipando alla campagna nazionale di Anan, la rete Bergamo per la Palestina è in presidio

Intanto si sta decidendo la linea contro il nuovo attacco repressivo le multe di 300 euro per l entrata in stazione del 3 ottobre durante lo sciopero generale del blocchiamo tutto per la Palestina.

Il presidio naturalmente è solidale con i compagni di Askatasuna e sostiene tutte le mobilitazioni che verranno messe in campo.

Sulle multe, la nostra presa si posizione:

Siamo tutti Askatasuna!

Contro lo sgombero di Askatasuna solidarietà e mobilitazione nazionale.

Oggi massima denuncia – e poi ci disciplineremo secondo la mobilitazione che il centro deciderà.

Questa, lo abbiamo detto sin dall’inizio del governo Meloni, è la “madre” di tutte le battaglie in questo campo e come tale la condurremo – Siamo tutti Askatasuna!
Questo sgombero non passerà e comunque governo, Stato del capitale, partiti parlamentari, stampa borghese devono pagare un alto costo politico e sociale per quello che stanno facendo.

La repressione non spegne ma alimenta la ribellione! – La repressione non ci fa paura la nostra lotta si farà sempre più dura!
Avete seminato vento raccoglierete TEMPESTA! – Il fascismo e lo Stato di polizia non passeranno – La guerra imperialista si deve fermare – Palestina libera dal fiume al mare
Ora è sempre Resistenza!

proletari comunisti
Slai cobas per il sindacato di classe
Soccorso Rosso Proletario

18 dicembre 2025

Venerdì 19, dalle ore 9:30, Presidio nazionale al Tribunale dell’Aquila

Per la libertà della Palestina e di tutti i prigionieri palestinesi

Un altro palestinese in carcere per il suo impegno per la Palestina libera. Si chiama Ahmad Salem, 24 anni, arrestato a Campobasso mentre andava a chiedere asilo politico. La sua colpa? Aver avuto nel suo cellulare un video, trasmesso anche alla RAI, con il quale invitava a mobilitarsi contro il genocidio. Lo si accusa di “terrorismo della parola”, un reato introdotto con un recente decreto da questo governo fascista, ma sarebbe più corretto dire che lo si accusa di essere palestinese e di essere contrario alla pulizia etnica del proprio popolo.

Il caso di Ahmad Salem purtroppo non è un caso, ma si inserisce a pieno in un clima di repressione razzializzata, in quel solco scavato dal processo ad Anan, Ali e Mansour, dal cui esito, previsto per venerdì 19, sapremo se questo paese ha ancora il coraggio di guardare in faccia la Palestina, o se preferisce continuare a processarla, imprigionarla, deportarla.

Un processo alla resistenza del popolo palestinese, la cui traiettoria era già chiara in fase embrionale. Prima con la richiesta, accolta dal governo italiano, di estradare Anan, poi con il rinvio a giudizio, con l’accusa di “terrorismo”, anche di Ali e Mansour, nonostante la sentenza della Corte di Cassazione del luglio 2024.

Un processo che sin dal suo inizio, dal 2 marzo 2025, ha visto la Procura dell’Aquila infischiarsene delle decisioni precedenti dell’autorità giudiziaria italiana e spalancare di nuovo la porta ai servizi israeliani, chiedendo di far rientrare nel fascicolo del dibattimento i verbali degli interrogatori subiti da 22 prigionieri palestinesi di Tulkarem da parte dello Shin Bet e della polizia giudiziaria israeliana. Di questi 22 interrogatori, a cui sono stati sottoposti altrettanti ragazzi palestinesi arrestati, deportati e processati in corte marziale da Israele in assenza di qualsiasi garanzia difensiva, solo 7 sono stati esclusi in prima battuta dal dibattimento, in quanto sui loro verbali c’era scritto, nero su bianco e per decreto, che non avrebbero avuto neanche la possibilità di telefonare a un avvocato.

I restanti 15 interrogatori sono stati esclusi dal dibattimento solo successivamente per ricorso della difesa, e solo per l’impossibilità di identificarne la fonte, ossia l’identità degli agenti dello Shin Bet che li avevano redatti. Non per le torture sistematiche e acclarate praticate da quest’ultimo quindi, ma per mero vizio procedurale!

Un processo caratterizzato dall’oltraggio al diritto di difesa: di 47 testimoni proposti ne sono stati ammessi solo 3, a nessuno dei quali sarebbe stato in ogni caso consentito di riferire sul contesto di violenza coloniale in Cisgiordania.

Quella violenza praticata anche dai coloni israeliani, che in questo processo si vorrebbero far passare come “civili”, anche se civili non sono. L’ultimo teste della difesa ha parlato di riservisti, ex militari dell’esercito israeliano che girano armati e svolgono funzioni di polizia insieme all’esercito, squadre paramilitari di ultraortodossi, strettamente collegate con l’esercito da un coordinatore nominato dall’esercito.

Storicamente, lo stesso Stato di Israele è stato fondato col terrorismo di queste bande paramilitari che poi sono state integrate nell’esercito israeliano. Quindi è lo stato sionista che si fonda sul terrorismo e non la resistenza ad esso!

Ci sono state varie udienze, ma in queste udienze la voce della difesa, la stessa voce di Anan, è stata distorta, ostacolata, minimizzata.

Ammessa a parlare del contesto coloniale in Cisgiordania la sola Digos dell’Aquila, fino a quando non è stata esplicitamente tirata in ballo dalla Procura, e ammessa al dibattimento, la testimonianza dell’ambasciata israeliana.

Il 21 novembre l’accusatore ha mostrato il suo vero volto: mentre al pubblico veniva proibito di indossare una kefiah o di mostrare una bandiera palestinese, davanti a una bandiera israeliana lo Stato occupante processava l’occupato per aver resistito all’occupazione. Chi terrorizza e uccide impunemente centinaia di migliaia di civili palestinesi, chi ha torturato Anan, era seduto sul banco dell’accusa di un tribunale italiano.

Ignorando completamente la testimonianza dell’ultimo teste della difesa, l’accusa ha occupato 4 ore a rileggere gli atti dell’inchiesta, come se non ci fosse stato mai un processo.

Alla fine della “requisitoria” l’accusa ha chiesto 7 anni per Mansour e 9 per Ali, dei quali la Cassazione aveva disposto la liberazione per mancanza di indizi. Per Anan 4 anni in più di quanti Israele gliene inflisse nel 2006 per fatti inerenti alla seconda intifada.

Per questo il 19 dicembre a L’Aquila ci sarà un presidio nazionale di solidarietà in occasione dell’udienza finale del processo. Perché la Resistenza è l’unica speranza di un popolo senza speranza. La Resistenza non è terrorismo, la Resistenza non si arresta e non si processa!

Libertà per Anan, Ali, Mansour!

Libertà per tutti i prigionieri politici palestinesi incarcerati in Italia!

Terrorista è Israele e i suoi complici!

Soccorso rosso proletario L’Aquila