Regno Unito: quasi 60 giorni di sciopero della fame per la Palestina, a rischio la salute dei prigionieri

Gli scioperanti della fame incarcerati per la Palestina si stanno avvicinando ai 60 giorni di sciopero, in condizioni di salute allarmanti. Heba Muraisi (giorno 59) soffre di gravi deficienze, dolori intensi e deterioramento cognitivo, mentre i suoi familiari subiscono perquisizioni abusive e umiliazioni in prigione. Teuta Hoxha (giorno 53) è quasi costretta a letto, soffre di svenimenti ed estrema stanchezza, e i suoi visitatori sono molestati dal personale carcerario. Kamran Ahmed (giorno 52) soffre di forti vertigini, perdita intermittente dell’udito e fluttuazioni della frequenza cardiaca. Lewie Chiaramello (giorno 38), affetto da diabete, continua a digiunare nonostante i significativi rischi per la sua salute. Di fronte a questa situazione critica, Prisoners For Palestine chiede una maggiore mobilitazione contro la complicità britannica nel genocidio sionista e un’azione di solidarietà con i prigionieri ( maggiori informazioni ), come le azioni condotte contro numerose ambasciate britanniche come a Tunisi (foto) e Bruxelles ( vedi video ).

Da Secours rouge

Dai GPI l’appello per una mobilitazione diffusa per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi

II 27 dicembre 2025 la Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di Genova ha disposto l’arresto di sette persone palestinesi e arabe, ha richiesto mandati di cattura internazionali per altre due e ha sequestrato beni per oltre otto milioni di euro, sostenendo l’esistenza di una rete operante in Italia che avrebbe raccolto e trasferito fondi destinati a strutture considerate collegate a Hamas.

Al centro dell’inchiesta ci sono alcune associazioni da anni impegnate in attività di solidarietà con il popolo palestinese, in particolare l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese e sue articolazioni, e l’Associazione Benefica La Cupola d’Oro, che secondo l’accusa avrebbero funzionato come canali di raccolta e trasferimento di fondi verso enti attivi a Gaza, in Cisgiordania e nei territori palestinesi del 1948.

Alcuni giornali hanno riportato che, al momento del fermo, Hannoun avrebbe chiesto ai poliziotti: «Mi consegnerete a Israele?».

Una domanda tutt’altro che peregrina, dal momento che l’intera “operazione” sembra fondarsi esclusivamente su direttive “israeliane” e su presunte “fonti” delle Forze di occupazione sionista.

Come già avvenuto nel processo dell’Aquila, emerge ancora una volta una pesantissima ingerenza straniera nel funzionamento della giustizia italiana.

Le autorità italiane indagano su queste associazioni fin dal 2001 e hanno più volte tentato di avviare procedimenti giudiziari nei loro confronti. Tutti questi tentativi, però, sono sempre stati archiviati per una ragione molto semplice: le attività contestate sono tutte dichiarate e pienamente legali, dalla raccolta di fondi al loro trasferimento al di fuori dell’Italia.

L’impianto dell’indagine si fonda su intercettazioni, analisi dei flussi bancari, documentazione digitale sequestrata nelle sedi associative e sulla cooperazione giudiziaria con altri Stati, in particolare con “Israele”, oltre che sulle informazioni fornite dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e dai suoi apparati di sicurezza.

Queste fonti hanno qualificato come collegate a Hamas diverse organizzazioni caritative palestinesi e hanno indicato alcuni soggetti come nodi centrali della rete, costruendo l’immagine di una “cellula italiana” di Hamas che opererebbe sotto copertura umanitaria e politica.

La conseguenza immediata è che un insieme molto ampio di soggetti, associazioni, relazioni e pratiche di solidarietà viene ricondotto a un’unica categoria criminale, quella del terrorismo, anche quando si tratta di attività civili, caritative o politiche.

Questo produce un effetto che va ben oltre il piano giudiziario: trasforma l’intero campo della solidarietà con la Palestina in uno spazio sospetto, opaco, potenzialmente criminale, sottoposto a sorveglianza e disciplinamento.

È qui che emerge il significato politico reale di questa operazione. Non siamo di fronte a una semplice indagine penale, ma a un dispositivo che ridefinisce il perimetro del legittimo e dell’illegittimo nello spazio politico.

La solidarietà viene spostata dal terreno del conflitto e della presa di posizione politica a quello dell’ordine pubblico e della sicurezza.

L’attivismo non è più una pratica politica, ma un rischio. L’organizzazione non è più un diritto, ma un potenziale reato.

Quando queste qualificazioni vengono importate nel sistema giudiziario italiano senza essere sottoposte a un vaglio politico e critico, esse trasferiscono con sé la funzione che svolgono nel contesto coloniale in Palestina: distruggere lo spazio sociale e politico palestinese, impedire l’auto-organizzazione, rendere impossibile una soggettività politica autonoma in diaspora.

Il meccanismo che tiene insieme tutto questo è la logica della colpa per prossimità.

Non si colpiscono solo presunti reati, ma relazioni, reti, affinità politiche e simboliche. Chi è colpito rende sospetto chi gli è vicino, chi è vicino rende sospetto chi condivide spazi, parole e pratiche, e così un intero movimento viene progressivamente avvolto in una nube di sospetto che lo paralizza e lo frammenta.

Come si può riporre fiducia in una magistratura che accetta documenti irricevibili e giuridicamente illegittimi provenienti da “Israele”, che non offre alcuna garanzia di affidabilità?

E come si può avere fiducia in una magistratura che si presta a costruire un processo politico voluto dal Governo – e dunque già viziato all’origine – con il dichiarato obiettivo di reprimere il movimento di solidarietà con la Palestina in Italia?

SIAMO QUINDI COMPLICI E SOLIDALI CON GLI ARRESTATI E SOSTENIAMO LA LEGITTIMA LOTTA DEL NOSTRO POPOLO OVUNQUE ESSO SI TROVI, CONTRO IL SIONISMO E I SUOI COMPLICI E PER UNA PALESTINA LIBERA DAL FIUME AL MARE.

CHIAMIAMO AD UNA GENERALE E DIFFUSA MOBILITAZIONE PER LA LIBERAZIONE DEI NOSTRI PRIGIONIERI POLITICI, DA MOHAMMED HANNOUN A ANAN YAEESH E AHMED SALEM.

ROMA: CONTRO LA CAMPAGNA DI REPRESSIONE E CRIMINALIZZAZIONE DELLA SOLIDARIETA’ ALLA PALESTINA PRESIDIO VENERDI 9 GENNAIO

Israele detta e l’Italia esegue, e lo fa tramite i massimi organi di polizia e giudiziari italiani, che imbastiscono il teorema commissionato dallo stato sionista. Lo abbiamo visto nel corso del processo ad Anan, Ali e Mansour, dove la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo sta orientando il processo contro i “Colpevoli di Palestina”, ed è significativo che la cosiddetta operazione “Domino” sia scattata pochi giorni prima della sentenza del 16 gennaio all’Aquila, anche se le indagini sono state avviate, anche in questo caso, dopo ottobre 2023, e basate principalmente su “documentazione trasmessa ufficialmente dallo Stato di Israele nel contesto della cooperazione giudiziaria” con l’Italia.

Anche qui, insomma, tra le principali fonti di indagine c’è lo stesso regime sionista, che detiene da decenni migliaia di persone nelle carceri senza processo né accuse formulate, e per il quale tutte le organizzazioni che operano a difesa dei diritti umani dei palestinesi sono terroristiche.

Per questo motivo si terrà un sit-in davanti alla DNAA, in Via Giulia 52.

Di seguito la presentazione dell’iniziativa su radiondadurto

Genova – Interrogatorio oggi ad Hannoun – presidio ieri al carcere di Marassi

Si è tenuto questa mattina nel carcere di Marassi a Genova l’interrogatorio di garanzia per Mohammed Hannoun, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in Italia (API) e fondatore dell’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese, arrestato insieme ad altri palestinesi residenti in Italia nell’inchiesta – basata sulle informazioni dei servizi e dell’esercito israeliani – sul presunto finanziamento ad Hamas tramite raccolte fondi umanitarie. Hannoun ha ribadito di non aver versato nessun finanziamento, diretto o indiretto, al movimento di resistenza islamico palestinese.

«Sono un cittadino palestinese, vivo in Italia, sono un architetto, lavoro e agisco nella massima trasparenza», ha dichiarato. «Continuerò a farlo – ha concluso – ma non posso rinunciare ai diritti miei e del mio popolo, anche se dovessero espellermi dall’Italia: sono diritti sanciti dalle Nazioni Unite, diritti sacri, e non mollerò mai».

GENOVA: CENTINAIA IN PRESIDIO SOTTO AL CARCERE CONTRO GLI ARRESTI DEI CITTADINI PALESTINESI. 

Solidarietà alla Palestina, il governo si vendica con la repressione: 6 studenti minorenni ai domiciliari a Torino

Questa mattina la questura di Torino ha effettuato perquisizioni a casa di giovanissimi con la conseguente applicazione di 6 misure cautelari ai domiciliari. Giovani che hanno preso parte alla mobilitazione di massa con lo slogan “Blocchiamo tutto” che ha visto manifestazioni oceaniche, blocchi nei principali snodi della logistica e delle infrastrutture dei trasporti, scioperi effettivi dalla fabbrica della guerra, estesa a tutto il nostro territorio nazionale. Il governo Meloni ha tentennato e ha avuto la dimostrazione che la popolazione non è disponibile a rendersi complice del genocidio in Palestina e ad arruolarsi nella guerra di domani. Per questo, dopo pochi mesi, la morsa inizia a stringere laddove si individua che possa fare più male. Creare un precedente come questo, selezionando scientificamente persone minorenni che frequentano collettivi studenteschi e hanno partecipato, insieme ad altre migliaia di giovani, alle manifestazioni dell’autunno è un colpo vile che va nella direzione di voler recidere alla base una prospettiva futura fatta di legami di solidarietà per costruire un vivere migliore.

Di seguito pubblichiamo il comunicato dell’Assemblea Studentesca di Torino

Questa mattina ci siamo svegliati con la notizia di 6 nostri compagni di scuola minorenni sottoposti a perquisizioni e agli arresti domiciliari come misura cautelare, in risposta alle mobilitazioni del movimento “blocchiamo tutto”, contro la complicità del governo Meloni nello sterminio dei palestinesi, che ha preso piede in tutta Italia durante l’autunno.

Al centro dell’indagine, la contestazione alla giovanile del primo partito di governo, che portava avanti un volantinaggio di propaganda razzista davanti al liceo Einstein.

Durante le occupazioni di tutte le scuole d’Italia nelle quali i giovani si sono resi protagonisti del movimento per la Palestina, alla polizia è stato ordinato di recarsi davanti al Liceo Einstein per difendere il volantinaggio, manganellando gli studenti che protestavano, ammanettando un minorenne. La risposta da parte di professori, genitori, studenti di tutte le scuole e della città intera è stata immediata e di massima solidarietà e sdegno verso le modalità repressive del governo.

Quello che viene fatto passare come un caso isolato rientra perfettamente all’interno di un piano di disciplinamento giovanile funzionale alla preparazione della società e delle scuole ad un clima di guerra.

I messaggi d’odio portati avanti dai volantini che il governo tiene tanto a difendere sono uno degli strumenti che questo usa per riaprire una divisione tra popoli che si era superata con il movimento per la Palestina.
Tra i motivi degli arresti i blocchi delle stazioni, avvenuti mentre in tutta Italia si bloccavano porti, autostrade, e blocchi della logistica di guerra.

Nel giorno in cui si vota la legge finanziaria, che aumenterà la spesa bellica di 23 miliardi nei prossimi tre anni, e mentre il governo si prepara alla reintroduzione della leva per i giovani, questi arresti domiciliari nei confronti di studenti giovanissimi, non sono casuali, ma una chiara intimidazione ai giovani che si sono mobilitati: non c’è spazio nelle scuole per organizzarsi contro la guerra!

Il governo si trova in una situazione complicata e per questo attua misure così aspre, in tutto ciò sappiamo bene che non possiamo fermarci davanti a questo, la posta in gioco è troppo alta. Continueremo ad andare a scuola e a porci le stesse domande sul nostro futuro a testa alta, perchè liberare tutti vuol dire lottare ancora.

Vogliamo la liberazione immediata di tutti i compagni!
INTIFADA FINO ALLA VITTORIA.

Davvero la volontà di Israele è “legge” in Italia?

Da Contropiano, interventi, analisi e interviste

Il CRED (Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia) esprime forti perplessità per le misure cautelari emesse nei confronti di Mohammed Hannoun e di altri attivisti impegnati nella solidarietà con la popolazione palestinese.

L’impianto accusatorio palesa un elemento di eccezionale criticità: una parte rilevante delle contestazioni si fonda su documentazione prodotta dall’esercito israeliano nel corso di operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. Tali materiali vengono recepiti come prove documentali senza un effettivo vaglio di terzietà, attendibilità e verificabilità.

Israele non è un soggetto neutrale né una semplice “parte in conflitto”. È uno Stato attualmente sotto scrutinio per genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia e destinatario di misure provvisorie vincolanti. Questo dato giuridico non può essere ignorato nel momento in cui le sue forze armate producono materiale probatorio destinato a incidere sulla libertà personale di cittadini e residenti in Italia.

Si tratta di documenti formati in un contesto radicalmente incompatibile con le garanzie del giusto processo: assenza di contraddittorio e produzione da parte di un apparato militare direttamente coinvolto in crimini oggetto di indagine internazionale. Il loro utilizzo determina un grave slittamento tra cooperazione giudiziaria e recepimento acritico di intelligence militare.

Particolarmente allarmante è la qualificazione di attività di assistenza umanitaria come “finanziamento al terrorismo”, fondata sull’inclusione delle organizzazioni beneficiarie in liste predisposte da un governo straniero. In tal modo, l’etichettamento politico sostituisce l’accertamento giudiziale: se l’esercito israeliano qualifica un soggetto come “familiare di un terrorista”, tale definizione viene assunta come presupposto di reato dal giudice italiano, senza alcuna verifica autonoma.

In questo quadro, l’azione penale sembra piegarsi a una rilettura unitaria di oltre vent’anni di attività, tentando di dare rilievo penale a fatti già oggetto di passate archiviazioni. L’uso di presunti “nuovi elementi” forniti dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre 2023 configura una sorta di “clima di emergenza interpretativa” che travolge i principi di legalità e certezza del diritto, agendo retroattivamente su condotte nate come solidarietà lecita.

Ciò che si delinea è un caso paradigmatico di lawfare: l’uso del diritto penale come proiezione di una strategia politica e militare esterna, in cui l’intelligence di uno Stato accusato di genocidio finisce per orientare le valutazioni di un tribunale della Repubblica Italiana. È un corto circuito istituzionale che compromette la sovranità della funzione giurisdizionale.

Il CRED richiama la magistratura al rispetto rigoroso dei principi di autonomia e indipendenza. L’accertamento penale non può fondarsi su prove prodotte da un apparato militare in guerra, né su etichette politiche. In gioco non vi è soltanto la posizione degli indagati, ma la tenuta dello Stato di diritto e il confine, sempre più fragile, tra giustizia e guerra giuridica.

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L’inchiesta sui presunti finanziamenti ad Hamas vuole criminalizzare chi si oppone al sionismo e all’imperialismo genocida

Non ci siamo mai lasciati davvero alle spalle gli spettri del Novecento. Negli anni Settanta, in Italia, il cosiddetto “teorema Calogero” trasformò il dissenso sociale in un’ipotesi criminale: un’equazione giudiziaria che stabiliva un nesso implicito tra conflitto politico, lotta di classe e insurrezione armata. Un dispositivo interpretativo tanto elastico da consentire indagini, arresti e processi non su prove, ma su possibilità: bastava condividere assemblee, riviste, slogan, frequentazioni, per essere risucchiati nel cono d’ombra del sospetto.

Cinquant’anni dopo, quella logica non è scomparsa: ha cambiato linguaggio, bersagli e strumenti, ma non la sua funzione. Oggi il “solidale” diventa pericoloso, il dissenso destabilizzante, la critica radicale delegittimazione. L’inchiesta sui presunti finanziamenti ProPal ripropone lo stesso meccanismo a catena: qualsiasi sostegno umanitario o politico a un popolo sotto attacco rischia di essere decodificato non come atto di solidarietà, ma come indizio di complicità con il “terrorismo”. Un clima che non nasce nelle aule dei tribunali, ma nei dogmi geopolitici dell’impero, dove la paura non è un effetto collaterale: è un metodo di governo delle coscienze.

La guerra nella Striscia di Gaza ha amplificato un dibattito globale senza precedenti sul peso delle parole e sulle responsabilità del potere. Organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International parlano apertamente di atti riconducibili alla definizione giuridica di genocidio: accuse respinte con fermezza dalle autorità israeliane, ma che segnano un punto di frattura nel racconto pubblico occidentale, un tempo quasi monolitico. In Italia, questa tensione si è abbattuta anche sull’accademia.

Il professor Luciano Vasapollo, economista marxista e fino a novembre decano di Economia alla Sapienza di Roma, ha subito una campagna di delegittimazione mediatica violentissima per aver denunciato in un’assemblea studentesca il «genocidio a Gaza» e definito Israele uno «Stato terrorista». Non era un intervento didattico, ma un atto politico, pronunciato in un’assemblea pubblica: eppure tanto è bastato per scatenare attacchi frontali, richieste di licenziamento da parte di esponenti del governo – tra cui Matteo Salvini – e servizi televisivi che, denunciano il docente e i suoi legali, hanno travisato i fatti fino alla calunnia.

Ne sono nate querele per diffamazione. Ma ne è nata anche un’ondata di solidarietà trasversale da parte di docenti, sindacati di base, movimenti sociali e studenti: un argine, fragile ma reale, a un riflesso repressivo che si pensava  confinato ai libri di storia.

Oggi, l’arresto di Mohammad Hannoun – attivista palestinese molto noto per il suo impegno umanitario – ha riaperto il vaso di Pandora della criminalizzazione del dissenso internazionalista e della critica al sionismo. Ne abbiamo parlato con il professor Vasapollo, che non si sottrae alle parole forti, ma le inserisce in un quadro teorico e storico più ampio, che va ben oltre il singolo caso giudiziario.

Professore, cosa sta accadendo oggi in Italia sul piano della repressione del dissenso?

Stiamo assistendo a un salto di paradigma. Negli anni Settanta si criminalizzava l’idea di rivoluzione; oggi si criminalizza l’idea di autonomia critica. Non si tratta più soltanto di colpire un’ideologia politica: si vuole spegnere la possibilità stessa di una voce alternativa, non allineata. È un’operazione culturale prima ancora che penale.

Il potere non vuole convincerti: vuole farti sentire isolato. E per farlo usa etichette assolute, come “Stato canaglia”, “regime terrorista”, “studente estremista”, “movimento violento”. Il messaggio è intimidatorio: non donare, non sostenere, non schierarti, perché un gesto di umanità potrebbe essere trasformato in indizio penale.

È la pedagogia della paura: un dispositivo che frantuma la comunità, isola l’individuo e lo riduce a ingranaggio economico, merce tra le merci. La repressione non agisce più solo sulle piazze: agisce sui legami, sulle parole, sui sentimenti collettivi. È un maccartismo liquido, compatibile con la società dei consumi, dove il nemico non va confutato: va reso impensabile.

I media hanno preso di mira movimenti, sindacati e realtà sociali. Qual è il disegno?

È il disegno della deterrenza sociale. Guardate come vengono descritti sindacati come USB, collettivi come OSA, reti come la Rete dei Comunisti, spazi sociali come il Leoncavallo: non vengono criticati per ciò che fanno, ma per ciò che rappresentano. Sfide al pensiero unico, al dogma dell’Occidente come “unico orizzonte possibile”. Se una petroliera porta energia a Cina o Cuba scatta l’accusa di “pirateria” o “sostegno al nemico”.

Non importa il diritto internazionale: importa solo chi ha la forza di farsi rispettare. Uno Stato che si autoproclama polizia del mondo non garantisce la pace: la sostituisce con l’interesse economico dell’impero. E quando questo modello entra in crisi, chi prova a dire una parola diversa diventa una minaccia interna da neutralizzare. I media preparano il terreno: poi la magistratura, in un clima già avvelenato, trova sponda culturale per l’intervento repressivo. È un circuito perfetto, come nel Novecento, ma con i “like”, la pubblicità e l’indignazione algoritmica al posto delle adunate di massa.

Professore, Faro di Roma parla di una corrispondenza tra il teorema Calogero degli anni ’70 e le logiche repressive odierne. Che cosa le unisce?

Le unisce il metodo della colpa preventiva. Negli anni ’70 si diceva che “il dissenso prepara le armi”, oggi si sostiene che “i solidali finanziano il terrorismo”. In entrambi i casi non si colpiscono prove, ma possibilità, frequentazioni, parole. È una costruzione di nemici simbolici che serve a isolare chiunque sfidi il paradigma dominante.

All’epoca io stesso fui colpito in modo durissimo. Venni tradotto nelle carceri speciali, con mandati di cattura a catena basati sulla parola dei pentiti, spesso indiretta, fondata sul “sentito dire”. Mi fu applicato l’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario, un regime molto peggiore del 41-bis: isolamento estremo, trasferimento a oltre 700 km da Roma, a 600–700 km dalla mia città, colloqui a vetro, censura, stigmatizzazione sociale. E non colpiva solo me, ma i miei legami familiari: i miei familiari subirono trattamenti umilianti, controlli, viaggi estenuanti, ostacoli burocratici, un impatto punitivo sugli affetti, non solo sull’imputato.

Oggi, a distanza di cinquant’anni, in che forma questa logica si ripresenta?

Si ripresenta come un teorema del potere costituito. La solidarietà internazionale diventa indizio, l’aiuto umanitario sospetto, la critica politica “odio”, l’incompatibilità al pensiero unico un pericolo sociale. È lo stesso schema: costruzione del nemico, criminalizzazione preventiva, intimidazione delle coscienze.

La criminalizzazione della solidarietà a chi serve davvero?

Serve a isolare, intimidire, neutralizzare. A impedire che una sola scintilla accenda la prateria, come diceva Mao. E invece la scintilla può ancora incendiare le coscienze. Ribellarsi è giusto! Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria. Il capitalismo teme l’individuo pensante, non quello che consuma. Il consumismo è il catechismo laico del capitalismo.

Dopo gli orrori del Novecento, il controllo totale non è scomparso: si è esternalizzato nel mercato. Non servono più soltanto leggi speciali: basta programmare i desideri, modellare i bisogni, saturare l’orizzonte dell’immaginazione. Un popolo che consuma senza pensare non si ribella, non solidarizza, non immagina alternative. E chi prova a farlo – un movimento studentesco, un centro sociale, un sindacato di base, un internazionalista – viene raccontato come minaccia all’ordine, alla “sicurezza”, alla “governabilità”.

La libertà di espressione è tollerata solo se non produce conseguenze reali. Ma la critica a un potere che fa la guerra, occupa territori o pratica pulizie etniche non è mai neutra: genera scelte, legami, azione collettiva. Ed è questo che il mercato e la politica di sistema temono davvero: non la piazza in sé, ma l’individuo pensante che ritrova la comunità e smette di riconoscersi come merce.

Lei parla di “incompatibili” che oggi sono a rischio. Chi sono nell’Italia in cui viviamo gli incompatibili?

Sono tutti coloro che non rientrano nel recinto della compatibilità sistemica. Il perimetro del “legittimo” arriva al massimo al PD, ad AVS, al Movimento 5 Stelle e a Rifondazione Comunista quando si piegano alla governabilità. Tutto ciò che eccede – i sindacati conflittuali, i centri sociali, le reti internazionaliste, i movimenti studenteschi radicali, chi denuncia l’imperialismo come sistema di guerra permanente – viene spinto fuori dal campo del legittimo. E ciò che è fuori dal legittimo diventa minaccia. Allora eri “eversore”, oggi diventi potenziale terrorista. La vera colpa non è un atto, è l’incompatibilità all’obbedienza preventiva.

Professore, lei cita spesso il grido dei nativi americani “Hoka Hey”. Che valore ha oggi?

“Hoka Hey” non è un inno alla morte, come spesso viene travisato, ma al coraggio radicale. Per i nativi significava “È un buon giorno per combattere”, l’affermazione suprema della dignità in battaglia, il rifiuto dell’assoggettamento. I Klingon lo ripresero come metafora cinematografica della gloria nella lotta; Mao lo tradusse nel linguaggio della rivoluzione popolare: «una scintilla può incendiare la prateria».

Oggi quella scintilla non è soltanto l’insurrezione fisica: è la rottura del dispositivo della paura. È il rifiuto dell’etichetta come destino, della merce come identità, dell’omologazione come unica via. È il gesto minuscolo ma irriducibile di chi dice: io non mi lascio dissuadere dall’umano. Anche se fosse l’ultimo giorno, sarebbe un buon giorno per lottare: non per morire, ma per svegliarsi. Perché lottare non significa scegliere la fine, ma scegliere l’inizio: la possibilità di essere comunità, popolo, storia, e non solo mercato.

In questa battaglia, qual è l’orizzonte politico?

Il socialismo come liberazione dell’umano, non come marchio geopolitico. Un’idea di decolonizzazione delle relazioni, delle coscienze e dei diritti, che include tutte le esperienze che sfidano l’impero della merce: Cuba, Nicaragua, Venezuela, Vietnam, Laos, e soprattutto la Palestina autodeterminata. Hamas, al di là della sua cornice religiosa, nasce come movimento di resistenza, eletto nel 2006 in un voto libero che l’Occidente ha poi preferito rimuovere.

Oggi la solidarietà internazionale viene trasformata in ipotesi criminale per dissuadere la gente dal mettere anche solo un euro per chi muore sotto le bombe. Ma il punto di non ritorno non è l’arresto: è il tentativo di spezzare la solidarietà come categoria politica e umana. Se la repressione vuole rendere impensabile la scintilla, il nostro compito è opposto: riaccendere le coscienze. Perché senza coscienza non c’è liberazione, e senza liberazione non c’è solidarietà. E la solidarietà di classe non è terrorismo: è autodifesa dell’umano contro l’impero della merce.

Insomma, professore: il vero terrorismo del nostro tempo?

Non è un movimento, ma un metodo di potere. È il terrorismo di Stato che si fa norma geopolitica, l’imperialismo armato che pretende obbedienza preventiva, il capitalismo che ammette la critica solo se non produce alternative. A me non interessa il catechismo religioso dell’imperialismo: interessa la libertà concreta, quella che si misura nella possibilità di pensare, scegliere, donare, solidarizzare, lottare. Anche con un euro, anche con una parola. Soprattutto con una parola.

Qual è allora l’orizzonte di questa “battaglia delle coscienze”?

Socialismo, qui e ora. Non come brand geopolitico, ma come orizzonte di liberazione e decolonizzazione. Un sogno di battaglia che include Cuba, Nicaragua, Venezuela, Cina, Vietnam, Corea, Laos, e soprattutto l’autodeterminazione della Palestina e di tutti i popoli che lottano contro l’imperialismo. Lottare per vivere – qui e ora – significa vivere senza se e senza ma: Socialismo.

Lo slogan di Mao esalta il potere di mobilitazione delle masse e l’importanza delle insurrezioni popolari. Sottolinea come un piccolo atto di ribellione possa innescare un vasto movimento rivoluzionario, come evidenziato in documenti e pubblicazioni dedicate al pensiero rivoluzionario e marxista. Mao si riferiva alle insurrezioni contadine nel Kiangsi, vedendo in esse una grande potenzialità rivoluzionaria contrapposta all’influenza imperialista di Hong Kong. La frase vuole comunicare che anche un piccolo gruppo di combattenti o un singolo atto rivoluzionario (“la scintilla”) può accendere la “prateria” (il popolo), portando a una rivoluzione su larga scala.

Un messaggio che invita a non sottovalutare i movimenti di base, ma a considerarli come il seme di una rivoluzione più ampia, un concetto centrale nel pensiero politico di Mao. Celebra il potenziale rivoluzionario del popolo e l’efficacia dell’azione diretta per innescare il cambiamento.

“Ribellarsi è giusto!” è anche un pamphlet di Jean-Paul Sartre, in cui l’intellettuale francese riflette provocatoriamente sulle ingiustizie e il perbenismo della società occidentale. Scritto negli anni Settanta, in un periodo di militanza politico-intellettuale, Sartre si avvicina ai gruppi di estrema sinistra, assume la responsabilità giuridica del periodico La Cause du Peuple e contribuisce alla fondazione del quotidiano Libération. Le sue pagine restano attuali di fronte alla crisi sistemica del Capitale.

Rita Martufi e Salvatore Izzo

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Nel caso dell’arresto di Mohamed Hannoun e degli altri fratelli, la tesi investigativa appare francamente grottesca. Si sostiene che il terrorismo si finanzierebbe tramite bonifici bancari ordinari, completamente tracciati, intestati a una persona pubblica, costantemente esposta, attiva da anni alla luce del sole e sottoposta a controlli continui. È una ricostruzione che fa sorridere per quanto è poco credibile.

Le presunte “indagini in Palestina” non risultano tali: non emergono accertamenti autonomi, ma solo informazioni fornite da fonti israeliane, non verificabili e già più volte rivelatesi false o strumentali. Su questa base si costruisce un impianto accusatorio che arriva a criminalizzare persino il sostegno umanitario, come dare da mangiare agli orfani o aiutare famiglie colpite dalla guerra.

Il paradosso è evidente: mentre si partecipa politicamente e diplomaticamente a un genocidio, si criminalizza chi svolge lavoro umanitario. Chi soccorre viene trattato come un criminale, mentre chi sostiene l’oppressione viene normalizzato. Un rovesciamento morale e giuridico inquietante.

Ancora più grave è il ruolo di una magistratura che, in questa vicenda, sembra oltrepassare il proprio perimetro, erigendosi a giudice della politica internazionale e improvvisandosi esperta di Medio Oriente, conflitto israelo-palestinese e diritto internazionale, sulla base di narrative politiche esterne.

Il tutto si inserisce in un quadro di evidente sudditanza dell’Italia verso Israele, che compromette l’autonomia delle istituzioni e la credibilità dello Stato di diritto. Questa vicenda non riguarda solo Hannoun: riguarda lo spazio democratico, la libertà di azione umanitaria e il diritto di dissentire.

La resa dei conti non sarà giudiziaria, ma storica, politica e morale.

Davide Piccardo