Carcere di Modena: Violenze e torture da “macelleria messicana”

Nelle testimonianze raccolte dalla Procura si parla di detenuti ammassati in uno stanzone, ammanettati, presi a manganellate e alcuni denudati. Tra loro persone semi coscienti per l’abuso di metadone. Era l’8 marzo 2020

di Damiano Aliprandi

Ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno.

Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro – com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci.

Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito – trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri – morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione.

E l’agente minacciò: «Adesso facciamo un altro G8!»

Ma dagli atti della vicenda Piscitelli emergono altri dettagli che, se confermati dalle indagini tuttora in corso, dipingono un vero e proprio “sistema” di abusi e torture attuato da alcuni agenti penitenziari di almeno tre istituti penitenziari diversi: oltre a quelli di Modena, anche di Bologna e di Reggio Emilia giunti come rinforzo.

E questo, sottolineiamo, riguarda la presunta mattanza avvenuta nel carcere Sant’Anna a fine rivolta. Il Dubbio ha potuto visionare in esclusiva gli atti. Sono diverse testimonianze di detenuti raccolte dalle Pm della procura modenese e tutte convergono su una vera e propria “macelleria messicana”, tanto che – come testimonia un detenuto – c’è stato un agente penitenziario, una volta entrato nella stanza del casermone, che avrebbe urlato: «Adesso facciamo un altro G8!». Il ricordo va inevitabilmente ai terribili fatti della scuola Diaz avvenuti a Genova nel 2001, quando la polizia fece irruzione e al grido «Adesso vi ammazziamo», picchiò i ragazzi del coordinamento del Genoa Social Forum.

Dopo la rivolta le violenze inaudite su circa ottanta detenuti

Ritorniamo ai fatti di Modena emersi dalla ricostruzione delle testimonianze raccolte dalla procura. L’8 marzo 2020 scoppia una violenta rivolta, prendono fuoco alcune sezioni, compreso l’ufficio di comando. Scene apocalittiche. Alcuni detenuti riescono a prendere le chiavi lasciate dagli agenti, mettendo così in salvo altri reclusi rimasti chiusi in cella. Man mano gli agenti hanno indirizzato i detenuti nel campo dicendo loro di rimanere lì, tranquillizzandoli perché non sarebbe successo niente. Dopodiché, man mano, sarebbero stati ammanettati e costretti a rimanere con la testa abbassata. Hanno attraversato due porte carraie, fino a giungere in un specie di casermone e ammassati dentro una stanza.

Dalle testimonianze raccolte in atti emerge che diversi detenuti sarebbero stati manganellati, insultati e riempiti di sputi lungo il corridoio che portava al locale. Alcuni detenuti, soprattutto stranieri, entravano nello stanzone già con la testa sanguinante. All’interno c’erano agenti penitenziari che provenivano sia da Bologna che da Reggio Emilia. Alcuni testimoni li hanno riconosciuti perché precedentemente erano stati reclusi in quei penitenziari. A tutti i detenuti ammassati nello stanzone, circa una ottantina, sono state fatte togliere le scarpe e costretti a rimanere seduti per terra.

Ed è in quel momento che diversi reclusi avrebbero ricevuto ulteriori manganellate in faccia, nei fianchi, sulle gambe. «Ad esempio c’era un ragazzo straniero – racconta alle Pm un testimone -, non so se tunisino o marocchino. Si vedeva che era in condizioni pietose, al livello di… non so cosa avesse assunto, e gli hanno dato un sacco di manganellate a questo qua, in faccia, in testa, questo ha fatto uno, due, tre, quattro metri e si è accasciato a terra».

Salvatore Piscitelli stava già male ed è stato manganellato

Altri detenuti, come dicono più testimoni ascoltati, sono stati fatti completamente spogliare con la scusa della perquisizione. In quella caserma giunse anche Salvatore Piscitelli. Secondo un altro testimone sentito dalle Pm, era già in condizioni particolari. «Quando lui è entrato già nella stanza lui tremava, tremava – racconta il detenuto –, io l’ho guardato e lui mi fa: “Mi hanno picchiato”». Testimonia che tremava così tanto, che un agente ha chiamato un’infermiera dell’ambulanza, che gli ha dato delle gocce. Un altro testimone racconta che avrebbero manganellato Piscitelli anche dentro quella famigerata stanza.

Nel trasferimento uno di loro è stato lasciato a Rimini e rianimato

Non sarebbe finita lì. Nella notte diversi detenuti sono stati fatti salire nei pullman per trasferirli nel carcere di Ascoli Piceno. Durante il tragitto, un detenuto testimonia di aver visto agenti manganellare alcuni reclusi. Diversi di loro si sentivano male, uno in particolare gli usciva la schiuma dalla bocca e per questo motivo è stato portato al carcere di Rimini, quello più vicino. Giunti sul posto lo hanno messo sull’asfalto, è venuta l’ambulanza, gli hanno fatto una siringa e lo hanno rianimato con il defibrillatore. Ricordiamo che nel tragitto c’era anche Piscitelli che, a detta di alcuni testimoni, stava già visibilmente male.

Giunti al carcere di Ascoli Piceno, l’inferno non sarebbe finito

Sempre tutti i testimoni ascoltati convergono con il fatto che la visita medica effettuata appena sono entrati, sarebbe stata fatta superficialmente. Non solo. Un detenuto testimonia che, nonostante fosse visibilmente pieno di segni dovute dalle percosse, il medico di guardia gli avrebbe soltanto chiesto: «Hai qualche patologia? Prendi farmaci particolari?». A riposta negativa, «A posto, vai!». Tutto qui. Anche Piscitelli stava male, tanto è vero – come raccontano i detenuti -, gli agenti l’avrebbero fatto scendere dal pullman prendendolo per i capelli, perché lui non riusciva a camminare da solo. Un testimone racconta che alla visita medica, Piscitelli ha lasciato bisogni fisiologici sulla sedia. Scene indegne per un Paese civile.

Le violenze sarebbero proseguite anche nel carcere di Ascoli Piceno

Come risulta dalle testimonianze raccolte dalle Pm di Modena, al carcere di Ascoli sarebbero proseguite le violenze da parte degli agenti. Nella notte, i detenuti trasferiti hanno infatti avuto il sentore che potesse accadere di nuovo. Un testimone racconta di come il suo compagno di cella, un serbo, gli ha detto di ripararsi dietro di lui nel caso di una spedizione punitiva. Tutto tace. Ma è stata la quiete prima della tempesta. Il mattino seguente, una squadra di agenti sarebbero entrati nelle celle a manganellare. In seguito, per quasi 15 giorni, avrebbero proseguito la violenza senza manganelli, ma con gli schiaffi. Per quasi un mese sono rimasti scalzi e con gli stessi vestiti e biancheria intima. Emerge una omertà che avrebbe coinvolto non solo gli agenti, ma anche altre figure penitenziarie. Solo grazie all’esposto fatto da sette detenuti, è emerso tutto questo Sistema di torture e lesioni aggravate.

Resta il dubbio: tra i morti c’era qualcuno di quelli picchiati?

Attualmente il fascicolo sulle violenze al carcere di Modena è ancora aperto. Alcuni agenti sarebbero stati identificati grazie al riconoscimento dei detenuti. Nove però sono le morti archiviate. Molti sono detenuti stranieri deceduti per overdose. Rimane il dubbio atroce: alcuni di loro sono quelli picchiati nella caserma del carcere Sant’Anna? Sappiamo che Piscitelli, per la cui morte Antigone ha fatto opposizione all’archiviazione, era tra quelli come dicono più testimoni. Su queste morti sarà investita la Corte Europea dei Diritti umani. Sulle violenze, ancora si attende l’esito delle indagini. Sullo sfondo c’è la commissione ispettiva del Dap istituita per le rivolte del 2020, ed è composta da un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti. Darà risposte su questa ennesima mattanza che emerge dagli atti?

da il dubbio

NO alla repressione degli antimperialisti a Taranto – NO armi da Taranto/Puglia che alimentano la guerra in Ucraina

Mentre continuano le esercitazioni per la guerra nei nostri mari e la preparazione di invio di armi, cacciabombardieri, soldati in Ucraina; mentre il governo aumenta in maniera mai come prima le spese militari, impedendo anche al parlamento di esprimersi, e lo fa raccattando soldi da ogni dove, dai fondi sociali, dal lavoro, dalla sanita’, dalla scuola, dai sussidi per i poveri e disoccupati, anche dai fondi gia’ miseri degli altri profughi/immigrati (di pelle nera) con un evidente razzismo, mentre solo elemosine vengono stanziate per il carovita e bollette,

l’unica “attenzione” verso i tanti lavoratori, giovani, donne che si oppongono a questa maledetta guerra interimperialista è la REPRESSIONE!

A Taranto e in Puglia vogliono denunciare giovani, compagni e compagne antimperialisti che giustamente hanno protestato e continueranno a protestare, perchè TARANTO NON E’ CITTA’ DI GUERRA – LAVORO NON SPESE MILITARI!

Guerra e repressione per questo Stato imperialista vanno insieme (come in Russia, come in Ucraina).

Ma più sollevano vento e più risponderemo con la lotta, giusta, per fermare questa guerra

La denuncia portata anche alla manifestazione di Firenze
(contenuta nel foglio speciale di proletari comunisti)

31 attivisti rinviati a processo per avere manifestato contro il 41 bis

Da Contropiano

Alla fine sono iniziate ad arrivare le notifiche dal Tribunale de L’Aquila, a firma della Giudice Guendalina Buccella, i rinvii a giudizio a 31 attivisti politici di varie associazioni e gruppi di diverse parti d’Italia che, il 24 novembre 2017, avevano con numerosi altri solidali manifestato con fermezza contro la tortura del 41 bis.

In particolare contro le ulteriori vessazioni che la prigioniera politica Nadia Lioce, in regime di isolamento speciale dal 2003, subiva da parte della direzione del carcere speciale aquilano.

Quel giorno della manifestazione la detenuta Lioce doveva presenziare in video conferenza, alla terza udienza di un processo penale perché avrebbe, attraverso una “battitura” (unico mezzo possibile per richiamare un minimo di attenzione in una condizione di detenzione durissima) “disturbato la quiete ed il riposo delle persone”.

La denuncia giudiziaria alla prigioniera era partita naturalmente dai suoi carcerieri. La protesta sacrosanta della detenuta risaliva al 2014, allorquando una circolare del DAP e la pronuncia della Cassazione, avevano stabilito l’impossibilità, per chi è recluso in regime di 41 bis, ovvero seppellito vivo dal mondo (sono diverse centinaia in Italia i detenuti a 41 bis), di detenere libri o riviste in cella o di riceverne dall’esterno. Se questa non è tortura…

Va ricordato che già diversi Tribunali e Corti sovranazionali hanno richiamato i governi italiani a dismettere questa atroce misura detentiva. Invece, i governi del Bel Paese – di destra e “di sinistra” – che anche su questo non si differenziano, hanno proseguito in questi ultimi decenni a mantenere questo regime carcerario che viola platealmente i diritti basilari umani. Ulteriori informazioni le troviamo su questo stesso giornale.

Le denunce contro i solidali erano scattate il giorno stesso della manifestazione, perché l’allora questore de L’Aquila, Antonio Maiorano, aveva disposto in modo del tutto immotivato un divieto di manifestare per ragioni di ordine pubblico.

Una decisione a dir poco bislacca visto che non c’erano state da nessuna parte minacce di fare di quella giornata di denuncia e solidarietà, un momento di azioni eclatanti tali da mettere in pericolo la sicurezza pubblica.

La decisione di vietare il diritto democratico di esercitare la libertà di espressione, di manifestazione del dissenso contro il 41 bis in quanto tortura, in realtà era semplicemente un modo per tenere silenziata una vicenda che era a dir poco vergognosa per uno “stato di diritto”.

Per questa ragione, tutto sommato rispettosa del dettame costituzionale, fu deciso dai promotori di quella giornata di lotta di non rinunciare a manifestare la solidarietà alla prigioniera Lioce sotto processo per avere rivendicato un suo diritto.

Fu così, dopo un anno da quell’evento, che i 31 denunciati ricevettero una condanna pecuniaria di 500 euro. Ma per le stesse ragioni legittime di non rinunciare al diritto di manifestare, questa condanna pecuniaria priva di fondamento fu da molti destinatari impugnata legalmente.

Non è un caso che sul 41 bis si preferisca censurare. D’altra parte sul tema del carcere e delle condizioni generali di migliaia di detenuti rinchiusi in stato di sovraffollamento, di scarsa igiene, di carenza di servizi sanitari, di mancanza di presidi atti ad un vero recupero riabilitativo sociale e culturale, la tendenza in voga nello Stato è quella di tacere, di mettere la sordina a fatti e comportamenti gravi che avvengono dentro gli istituti di pena, ma non solo.

Sappiamo che sempre più le carceri sono delle vere discariche sociali, specie in questi ultimi decenni caratterizzati dalla crisi generale economica e sociale di un sistema in decadenza. In questi ultimi due anni di pandemia le contraddizioni si sono acutizzate.

Come sappiamo, le rivolte carcerarie che sono state sedate con una dura e brutale repressione che ha causato decine di detenuti torturati e pestati. E parecchi uccisi.

I fatti del 2020, nel carcere S. Anna di Modena e in quello di Santa Maria Capua Vetere, sotto amministrazione dell’allora governo “Conte 1” e con Bonafede ministro della giustizia, stanno lì a testimoniare le responsabilità della politica.

Il processo contro i 31 manifestanti de L’Aquila del 24 novembre 2017, si baserà sulla violazione dell’articolo 18 comma V de RD del 18 giugno 1931, e si terrà il 18 maggio prossimo.

Questo processo potrà  diventare occasione per riprendere la parola e la critica contro un sistema politico che fa della repressione poliziesca e della barbarie del carcere, allo stesso tempo “duro” e fatiscente, gli strumenti principali per il controllo sociale.

Torino – carcere tortura/carcere assassino. Intensificare denuncia e mobilitazione

Torino – carcere tortura/carcere assassino

Torino, torture in carcere. Il pm: «Tra gli agenti c’era un clima di omertà»

Chiesto il rinvio a giudizio per 22 imputati

Tra gli agenti in servizio nel carcere di Torino c’era un clima di «omertà» come quello che si respira in un «contesto criminale». Ha usato questo paragone il pm Francesco Pelosi per descrivere la reticenza degli uomini della polizia penitenziaria coinvolti nell’inchiesta sulle presunte torture e umiliazioni a cui venivano sottoposti i detenuti. Un trattamento riservato soprattutto a coloro che stavano scontando pene per reati a sfondo sessuale. Il magistrato ha chiesto il rinvio a giudizio per 22 dei 25 imputati. In tre hanno scelto il rito abbreviato: l’ex direttore del Lorusso e Cutugno Domenico Minervini, l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza (entrambi avrebbero ignorato le segnalazioni sui maltrattamenti) e un agente. Le loro posizioni verranno discusse il 31 maggio.

Gli episodi raccontati negli atti dell’inchiesta sarebbero avvenuti tra il 2017 e il 2019. Secondo la Procura, alcuni detenuti avrebbero subito «trattamenti degradanti» e «brutali vessazioni» da parte di una «squadretta» di agenti. Nella discussione, il pm ha rimarcato: «Tranne un paio di agenti, tutti gli altri imputati hanno detto di non aver mai visto né sentito di violenze sui detenuti. È chiaro che mentono». Poi ha aggiunto: «Anche coloro che hanno rotto il silenzio e hanno ammesso di essere a conoscenza di alcuni fatti, hanno spiegato di avere paura». Adesso sarà il gup Maria Francesca Abenavoli a decidere se disporre il giudizio.

A processo per aver contestato Salvini, solidarietà ai compagni di Genova

contestare Salvini è sempre giusto e necessario – difenderlo con la polizia invece non lo e’

Contestarono un comizio di Salvini a Genova nel 2015, a processo dopo 7 anni

Il corteo dei centri sociali era arrivato fino accanto al Carlo Felice. Da lì un gruppo aveva cercato di avvicinarsi al palco tra lanci di oggetti, fumogeni e cariche di alleggerimento della polizia

Genova. Dieci manifestanti considerati responsabili degli scontri con la polizia in occasione di un comizio elettorale del leader della Carroccio Matteo Salvini che si tenne in Largo Pertini a Genova il 26 maggio 2015 saranno processati a distanza di sette anni dai fatti. L’udienza preliminare che si è tenuta nei giorni scorsi, ha infatti fissato l’inizio del processo per il prossimo 8 giugno.

I reati ipotizzati sono a vario titolo resistenza aggravata, imbrattamento, getto di cose pericolose e travisamento. E se gli ultimi tre reati saranno sicuramente prescritti prima della fine del processo, la resistenza ha una prescrizione molto lunga, ben 15 anni, e pene molto pesanti, teoricamente fino a 15 anni di reclusione.

Gli scontri di quel lontano maggio, in cui Salvini venne a Genova a chiudere la prima campagna elettorale dell’attuale governatore Giovanni Toti, nacquero dopo che dal corteo dei centri sociali, che si era avvicinato fino allo sbarramento delle forze dell’ordine nei pressi del teatro Carlo Felice, un folto gruppo di manifestanti aveva cercato di avvicinarsi al palco dove parlava il leader della Lega dopo aver lanciato petardi e uova all’indirizzo delle forze dell’ordine.

Rigettata la richiesta di sorveglianza speciale per i due attivisti cosentini Jessica e Simone

Da Osservatorio repressione

Il tribunale di Catanzaro ha rigettato la richiesta di sorveglianza speciale avanzata nei confronti di Jessica e Simone, ritenendole assolutamente infondate. Ancor prima della sentenza, finanche la PM aveva richiesto in sede di udienza il rigetto della richiesta. Una decisione chiara che sbugiarda clamorosamente i vertici della questura di Cosenza.

L’attacco si conferma essere stato mosso da una chiara volontà politica di fermare le battaglie sociali presenti nel nostro territorio e coloro che le animano. Silenziare il dissenso, infatti, rappresenta a tutti gli effetti una priorità per la questura di Cosenza e una necessità per tutti quei potentati politico-affartistici che, operando con la connivenza della locale Procura, in Calabria detengono il potere grazie allo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, alla attenta distruzione del servizio sanitario pubblico e di tutto il welfare regionale.

Il teorema partorito dalla Questora  Petrocca e dal Capo della DIGOS De Marco è semplice: nulla in questa terra deve cambiare e gli interessi criminali dei soliti noti vanno tutelati a costo di soffocare le libertà democratiche di chi denuncia le terribili condizioni in cui siamo costretti a vivere.

Questa vicenda ci costringe a porci alcune domande urgenti:

E’ accettabile tollerare che il denaro pubblico venga così utilizzato da chi teoricamente dovrebbe fare gli interessi della collettività, mentre di fatto si adopera per architettare questi assurdi procedimenti giudiziari?

Possiamo sopportare che questi pseudo funzionari rimangano indisturbati a capo di una questura della Repubblica? Le conclusioni non possono che essere le dimissioni del Capo della DIGOS De Marco e della Questora Petrocca, reazionari e nemici della democrazia.

Se c’è qualcuno di socialmente pericoloso, dopo questa storia i cosentini e le cosentine sanno dove trovarli: in alcune stanze di via Palatucci 8.

Negli ultimi mesi, la città non ha esitato a sollevarsi schierandosi con convinzione dalla parte delle lotte sociali, dalla parte di chi si impegna ogni giorno per costruire un reale cambiamento, di cui questo territorio ha vitale bisogno. I pochi che, invece, non hanno preso posizione, sperando in un esito differente, al netto dei proclami, si sono confermati essere parte del sistema di cui dobbiamo urgentemente liberarci.

Contro la nuova inquisizione, Cosenza ha risposto in maniera chiara e inequivocabile, svelando il suo volto migliore e questo nessuno potrà dimenticarlo.

Questa vittoria, ci indica la necessità di continuare nella costruzione collettiva di una città più giusta con chi in questi mesi è stato al nostro fianco, perché si restituisca a tutti e a tutte diritti e dignità.

Questa vittoria, ci indica la necessità di continuare nella costruzione collettiva di una città più giusta con chi in questi mesi è stato al nostro fianco, perché si restituisca a tutti e a tutte diritti e dignità.” A Radio Onda d’Urto  Simone di Prendocasa Cosenza. Ascolta o Scarica

Speciale Sorveglianza