una petizione piattaforma dei detenuti – info

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa petizione dei detenuti al Ministro Cartabia. L’appello raccoglie i bisogni dei detenuti di fronte al sovraffollamento, alla mancanza di affettività e all’utilizzo di strumenti detentivi inutilmente crudeli che negli ultimi anni sono stati ampiamente applicati nel diritto penale e penitenziario.

Petizione dei detenuti al Ministro Cartabia

Al Ministro della Giustizia

Dott.ssa Marta Cartabia

OGGETTO: petizione ad opera dei detenuti firmatari della C.C.-C.R. di richiesta di interpellanza parlamentare volta a vagliare le seguenti richieste:

A) Abolizione ergastolo ostativo;

B) Abolizione e/o eventuale riforma art. 41bis;

C) Abolizione recidiva specifica infra-quinquennale ex art.99 – Legge Cirielli;

D) Inserimento, ampliamento corsi professionali interni;

E) Ripristino gg.75 di liberazione anticipata per tutte le fasce, 4 bis compreso;

F) Concessione permanente n.10 telefonate mensili;

G) Elezione di un detenuto ad opera di altri detenuti che vada a ricoprire il ruolo di “garante interno”;

H) Pieno reinserimento del detenuto in ambito lavorativo e sociale dopo l’espiazione della pena;

I) Introduzione colloquio intimo con il proprio coniuge.

Ecc.mo Ministro, siamo tutti coscienti della crisi che ha esacerbato il nostro paese negli ultimi anni. L’Italia si trova ad affrontare un periodo storico di cambiamento, una rivoluzione interiore che ha cambiato le dinamiche quotidiane. Lei come altri è stata chiamata a far parte di questo percorso di cambiamento, fautrice di una giustizia più celere e garantista si è adoperata affinché ciò avvenisse. Credendo in questo momento La invitiamo ad un confronto aperto su tematiche a noi care. Convinti che si possa andare verso una riforma nuova, che tuteli l’individuo, Le chiediamo di portare la nostra petizione in Parlamento, facendovi portavoce di richieste di giustizia ed umanità.

CAPO A) ABOLIZIONE ERGASTOLO OSTATIVO

La legge del 26 luglio 1975 n.354 sull’Ordinamento Penitenziario pone come elemento fondamentale l’obiettivo di rendere esecutivo il principio rieducativo della pena. Tale principio perde la sua funzione davanti a quella che di fatto è una pena perpetua. L’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario esclude dai benefici alcune categorie di reato:

  1. Reati di particolare pericolosità
  2. Reati commessi all’interno di Organizzazioni Criminali o Terroristiche
  3. Che presuppongono il rifiuto del condannato a collaborare con la giustizia. Tale esclusione “osta” alla concessione delle misure alternative, rendendo di fatto inammissibile ogni richiesta del detenuto, a meno che il detenuto non chieda l’applicazione dell’art.58 ter O.P. Al di là di quelle che sono le norme giuridiche è nostro intento mettere in risalto l’aspetto civico. A fine ‘800 in Italia venne abolita la pena “capitale”, succesivamente ripristinata nel 1926, nel 1944 fu nuovamente abolita a seguito di un “referendum popolare”. Nel nostro paese, sino al 2018 ultimi dati da noi raccolti, si contavano 1700 detenuti condannati a vita o condannati a morte, il che non è solo anticostituzionale, ma è l’antitesi stessa del principio della pena. Oggi non vogliamo porre l’accento sul reato in sé, che porta a una condanna all’ergastolo ostativo. Siamo consapevoli che chi commette degli errori dovrà assumersene la responsabilità dinanzi alla legge. Quello che chiediamo non è l’impunità, ma la speranza nell’individuo e nel cambiamento. Condannare un essere umano ad una lenta ed inesorabile pena di morte, dare per scontato che per alcune persone non vi sia spazio per un recupero, per un “vero” reinserimento, anche quando non vi sia nulla da offrire o da barattare, significa il fallimento stesso della società in cui viviamo. Tra gli esseri viventi siamo l’unica specie in grado di rinchiudere i propri simili […] “L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante”, F. Dostoevskij. Nessun cittadino si vorrebbe macchiare di questo delitto, ma in molti chiedono allo Stato di perpetrarlo. Una giustizia sana non può punire chi ha ucciso con l’uccisione, in una logica più di vendetta che di giustizia. Avallare un delitto ci rende tacitamente partecipi del delitto stesso.

Pertanto chiediamo l’abolizione dell’ergastolo ostativo adeguandoci a molti Paesi dell’Unione Europea.

CAPO B) ABOLIZIONE E/O RIFORMA ART. 41 BIS

Legge 10/10/1986 n.633, la riforma Gozzini introduce l’art. 41 bis O.P. Tale articolo venne inzialmente studiato per i detenuti con reati di terrorismo e coloro che organizzavano rivolte carcerarie, sino al 1992, anno in cui venne esteso ai detenuti indagati o condannati per reati di criminalità organizzata, quindi per reati esterni al contesto carcerario. Ciò che era nato come un isolamento totale, sospendendo il trattamento al fine di annichilire i più facinorosi e rivoltosi, diventa di fatto uno strumento dello Stato per abbattere la criminalità organizzata puntando ad una vera e propria destrutturazione della mente umana. Più volte la Corte Europea dei Diritti Umani ha riscontrato le violazioni della norma che vieta trattamenti inumani e degradanti nella misura in cui il regime di 41 bis veniva applicato. Più volte tale regime è stato considerato alle soglie della tortura. Chi ne è sottoposto vive costrizioni e restrizioni perenni. La restrizione della corrispondenza dà agli agenti ampia discrezionalità nella valutazione dei contenuti, ossia nel decidere quale frase o parola può apparire “pericolosa”. Restrizioni sulle telefonate, si fa presente a codesto Ecc.mo Parlamento, che i famigliari dei detenuti reclusi al regime del 41 bis, devono recarsi nel carcere più vicino alla propria abitazione per effettuare la telefonata con il proprio famigliare qualora venisse accettata. Ciò crea una limitazione non da poco per i detenuti con le famiglie residenti all’estero. Poiché anche le telefonate ricevute dal detenuto sono ascoltate e registrate dall’Amministrazione il bisogno di far recare il famigliare in un istituto non sussiste. Restrizioni dei colloqui. I colloqui visivi per i detenuti al 41 bis sono nella misura di uno o due colloqui mensili, a seconda delle disposizioni. Vorremmo portare all’attenzione di questo Parlamento che i detenuti sottoposti al regime di 41 bis sono sottoposti ad una completa separazione dai famigliari, a mezzo vetro alto sino al soffitto o gabbiotto isolato, i contatti fisici sono assolutamente vietati, il controllo audio-visivo è costante e gli standard di sicurezza sono altissimi. A questo punto ci chiediamo a cosa serve la restrizione del numero dei colloqui se non ad incidere sui già flebili rapporti famigliari, dove si colloca la rieducazione? Decurtare i colloqui consiste più in una punizione che in un contesto di recupero sociale. Anche il non potersi cucinare un semplice piatto di pasta, le limitazioni del vestiario fini a se stesse, le limitazioni dei canali televisivi assumono una veste prettamente punitiva. Pertanto sembra doveroso chiedere l’abolizione di tale regime o la sua riforma. Chiediamo che vengano fissati dei canoni per la valutazione della corrispondenza. Che venga ampliato il numero delle telefonate e dei colloqui mensili, la concessione del fornellino in cella come previsto anche per i detenuti in regime di A.S. e la concessione di un maggior numero di ore destinate ai passeggi, migliorando di fatto le condizioni di vita del condannato.

CAPO C) ABOLIZIONE DELLA RECIDIVA SPECIFICA INFRA-QUINQUENNALE EX ART.49

Altra causa del sovraffollamento è da sempre l’applicazione della legge ex Cirielli, ex art.99. Entrata in vigore nel 2005 collocava il soggetto all’interno di un gruppo identitario tracciando vari tipi d’autore: “il terrorista, l’affiliato, il recidivo, ecc.”, aumentando di fatto la pena del condannato da un terzo fino a due terzi e portando l’accesso ai benefici di legge sino a tre quarti della pena per i recidivi già reduci di tale applicazione. Tale norma non si limita a valutare una singola incriminazione condannandone il “reo”, ma si estende al contesto e allo storico del detenuto, valutando non il reato in sé ma tutta la sua backstory in un’ottica di diritto d’autore. Questo approccio oscura le garanzie del diritto penale diventando l’antitesi del garantismo, valutando la persona non per ciò che ha commesso, ma per chi è stato. La legge Cirielli ha di fatto contribuito in maniera perspicua al sovraffollamento carcerario raggiungendo livelli catastrofici. Pertanto ne chiediamo la revoca in virtù di una massima forma di garantismo.

CAPO D) AMPLIAMENTO CORSI PROFESSIONALI ALL’INTERNO DEGLI ISTITUTI DI PENA

Non possiamo non portare come problematica concreta la carenza di corsi con qualifiche professionali all’interno degli stituti di pena italiani. Sebbene nell’ultimo ventennio tali corsi siano aumentati, ad oggi il sistema presenta ancora grandi lacune nell’offrire gli strumenti necessari affinché il detenuto possa intraprendere un proficuo percorso di reinserimento. Spesso si parla di principio rieducativo della pena come punto cardine per abbattere la recidiva. Noi crediamo che sia doveroso aiutare il detenuto a costruirsi una seconda opportunità. In Italia sono pochi gli istituti di pena che offrono un lavoro e una crescita professionale durante il percorso detentivo. Un detenuto che si trova a scontare una condanna, lunga o breve che sia, se lasciato a se stesso e non motivato avrà un’alta probabilità di tornare a fare esattamente quello che faceva prima del suo ingresso. Offrire un percorso professionale interno e seguire il detenuto durante le fasi del reinserimento, offrirgli una collocazione lavorativa, di fatto può incidere sulla recidiva abbassandone il tasso. In consulto chiediamo un aumento dei corsi professionali interni agli Istituti; un aumento delle collocazioni lavorative interne ove sia possibile con un ingresso di un’azienda; seguire il detenuto in un percorso lavorativo che lo conduca dall’interno all’esterno.

CAPO E) RIPRISTINO GG.75 DI LIBERAZIONE ANTICIPATA PER TUTTE LE FASCE

Tutti siamo consapevoli di come il sovraffollamento carcerario sia stato una tematica ricorrente nell’ultimo ventennio. Più volte sono state adottate misure emergenziali per fronteggiare il problema. Più volte siamo stati invitati dalla Corte Europea a fornire soluzioni efficaci affinché tale problema venisse risolto. In Italia l’articolo 54 C.P. prevede che il detenuto che serbi un buon comportamento possa accedere al beneficio della liberazione anticipata nella misura di giorni 45 per ogni semestre maturato. In realtà non è propriamente esatto. Per maturare il semestre il detenuto deve aspettare il compimento dei sei mesi prima di inoltrare la richiesta, tale richiesta verrà correlata di relazione comportamentale e inoltrata al magistrato competente per la valutazione. Così facendo l’ultimo semestre viene quasi sempre perso in automatico. Portiamo un esempio a sostegno della nostra tesi: il detenuto che si trova a scontare un anno di condanna potrà chiedere, allo scadere del primo semestre, giorni 45 di liberazione anticipata, dovrà in seguito attendere lo scadere dei successivi sei mesi per richiedere il nuovo semestre che di fatto “perderà” perché giunto a fine pena. Così strutturato, il beneficio consentirà a chi deve scontare un anno di carcere di accedere ad un solo semestre nonostante egli abbia serbato un buon comportamento. Ripristinare i 75 giorni di liberazione anticipata garantirebbe a chi sta scontando la pena di recuperare quasi del tutto l’ultimo semestre. Questo beneficio e introdotto all’interno dell’Ordinamento Penitenziario avrebbe una funzione complementare, andando ad incidere sul sovraffollamento da sempre presente nelle carceri. Ciò troverà la sua efficacia solo se il beneficio verrà esteso a tutte le fasce.

CAPO F) CONCESSIONE PERMANENTE DI 10 TELEFONATE MENSILI

Durante la prima fase emergenziale dovuta al Covid-19 che ha portato le direzioni delle carceri ad applicare delle restrizioni in termini di colloqui visivi, restrizioni ancora in vigore, il Dipartimento ha ampliato il numero di video colloqui e telefonate al fine di garantire una maggiore comunicazione con i propri famigliari. Fermo restando che ci auspichiamo di tornare alacremente alla normalità, ripristinando i colloqui in presenza chiediamo: che le dieci telefonate mensili, già in vigore dall’inzio della pandemia, diventino effettive, inserendole a pieno titolo nell’Ordinamento Penitenziario migliorando di fatto la comunicazione detenuto-famiglia.

CAPO G) ELEZIONE DI UN DETENUTO AD OPERA DI ALTRI DETENUTI CHE VADA A RICOPRIRE IL RUOLO DI GARANTE INTERNO

Da molti anni a questa parte lo Stato ha inserito a tutela del detenuto la figura del “garante delle persone  sottoposte a limitazioni della libertà personale”. Ad ogni istituto fa capo un Garante, i vari Garanti in ordine piramidale fanno capo al Garante Regionale, il quale fa capo al Garante Nazionale. Ci duole dire che, da informazioni ricevute dai vari compagni collocati in vari istituti tale figura è a volte latente. Non sempre la figura del garante riesce ad imporre la propria presenza, inoltre non vivendo personalmente la realtà quotidiana interna all’istituto, la sua prospettiva e il criterio di valutazione sarà generato tramite le informazioni ricevute, sia da parte dei detenuti che del Corpo della Penitenziaria. Al fine di fornire una maggiore forma di tutela del detenuto, la nostra proposta è quella di inserire la figura complementare del Garante Interno in supporto a quella già esistente. Ossia, un detenuto eletto dai detenuti stessi dell’Istituto in totale democrazia. Tale detenuto dovrà sicuramente avere dei requisiti, dalla conoscenza dell’ordinamento al fine pena on imminente, al fine di garantirne la presenza. Dovrà essere autorizzato a spostarsi per i vari reparti, rapportandosi con gli altri detenuti, verificando quali siano le problematiche e vagliando le loro istanze. Dovrà relazionare e comunicare con il Garante esterno fungendo da trait d’union tra il detenuto e l’esterno. Potrà, in caso di assenza o inadempienza del Garante di ruolo, rivolgere formale reclamo al Garante Regionale al fine di dipanare eventuali problematiche causa di nocumento. Tale figura non si va assolutamente a sostituire a quella già in vigore. I Garanti interni degli Istituti dovrebbero poter comunicare tra di loro in ambito regionale a mezzo video-colloquio, al fine di valutare e protare all’attenzione problematiche comuni. Tale figura dovrà essere inquadrata e retribuita a “norma di legge” in maniera “eguale” per ogni Istituto. Questo obbiettivo consente un approccio più garantista che sicuramente si affaccia ad una vera riformabilità del sistema.

CAPO H) PIENO REINSERIMENTO DEL DETENUTO IN AMBITO LAVORATIVO E SOCIALE AD ESPIAZIONE PENA

Ci teniamo ad un’ulteriore osservazione per noi fondamentale, sulla quale non possiamo non cercare un confronto. Considerato quanto citato al capo D, è importante fornire a chi è stato detenuto una seconda possibilità, come già avviene in molti Paesi della Comunità Europea, al termine della pena il detenuto viene completamente riabilitato e reinserito all’interno del tessuto sociale. Ciò in Italia non avviene. In base ai precedenti e alla tipologia di reato viene applicata un’interdizione ai pubblici uffici che varia da un minimo di cinque a un massimo di dieci anni. Un pregiudicato, in quanto tale, non può accedere a molti albi professionali, né ad alcune tipologie di lavoro. Portiamo un esempio ad avvalorare la nostra tesi: un ex detenuto, gravato da diversi precedenti penali, anche solo contro il patrimonio, escludendo “mafia e terrorismo”, nonostante abbia conseguito una laurea durante il percorso detentivo, che sia in giurisprudenza piuttosto che in architettura, nonostante un ottimo percorso, espiata la pena non potrà di fatto iscriversi all’albo professionale ed esercitare, causa precedenti. Di fatto qualora una persona cercasse di riprendere in mano la propria vita verrebbe comunque ghettizato e relegato in una sorta di girone dei marchiati. Noi crediamo che in un Paese “garantista”, fautore della “libertà”, terminare la pena significh aver pagato il proprio debito e rientrare a pieno titolo nella società. Significa una rinascita, senza dover anteporre il passato al presente.

CAPO I) INTRODUZIONE COLLOQUIO INTIMO CON PROPRIO CONIUGE

In consunto, vogliamo chiudere questa petizione, ricordando ai membri di codesto Parlamento come in molti Paesi della Comunità Europea sia già in vigore da molti anni il colloquio intimo con il proprio coniuge. E’ acclarato come una lunga detenzione abbia effetti devastanti sia sul condannato che sui propri famigliari. Psichiatri, psicologi, medici e studiosi, hanno più volte dimostrato come una lunga detenzione porti ad una destrutturazione e disumanizzazione dell’individuo, producendo effetti negativi sullo stato psico-fisico del detenuto, i quali si ripercuotono sui famigliari. La “violenza” della pena si estende così a tutti i famigliari, la lontananza, la mancanza di rapporto intimo tra coniugi, porta spesso a decisioni dolorose come quella di cessare i rapporti, causando a volta dei gravi stati depressivi nel condannato che, nei casi più estremi, vede nei gesti come il suicidio “l’estrema ratio” della sofferenza. Pertanto crediamo sia fondamentale per chi è sottoposto a lunghe carcerazioni coltivare i rapporti intimi con il proprio partner.

Osserviamo come sia importante una riforma epocale dell’Ordinamento Penitenziario. Vi chiediamo un approccio non di diniego, bensì un’apertura verso un contesto molte volte messo ai margini. Chiediamo che il nostro Paese sia pronto ad assicurarsi la responsabilità di un sistema penitenziario garantista, volto ad un vero reinseriemento del condannato.

Sperando nel dialogo porgiamo cordiali saluti.

I detenuti

preparano lo sgombero di Askatasuna cominciando a vietare i concerti

seminano vento raccoglieranno tempesta – soccorso rosso proletario

Africa Unite, Willie Peyote, Bluebeaters e altri sul palco di Askatasuna, ma la Questura vieta il concerto

Maratona musicale dal vivo al centro sociale di Torino dalle 17 a difesa dello spazio occupato da oltre 26 anni ma la questura contesta l’inottemperanza alle norme che regolano eventi di questo tipo

 

C

Venti avvocati denunciano l’accanimento penale contro gli anarchici

documento redatto dagli avvocati difensori in sette diverse città italiane.

6 luglio scorso la Corte di Cassazione ha deciso di riqualificare da strage contro la pubblica incolumità (art 422 c.p.) a strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 c.p.) un duplice attentato contro la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, avvenuto nel giugno 2006 (due esplosioni in orario notturno, che non avevano causato nessun ferito) e attribuito a due imputati anarchici.

L’originaria qualificazione di strage prevede l’applicazione della pena non inferiore a 15 anni di reclusione, l’attuale, invece, la pena dell’ergastolo. Sembra paradossale che il più grave reato previsto dal nostro ordinamento giuridico sia stato ritenuto sussistente in tale episodio e non nelle tante gravissime vicende accadute in Italia negli ultimi decenni, dalla strage di Piazza Fontana a quella della stazione di Bologna, da Capaci a Via D’Amelio e Via dei Georgofili ecc.

Nel mese di aprile 2022 uno dei due imputati era stato inoltre destinatario di un decreto applicativo del cd. carcere duro, ai sensi dell’art. 41 bis comma 2 O.P. (introdotto nel nostro sistema penitenziario per combattere le associazioni mafiose e che presuppone la necessità di impedire collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno per fini criminosi), altra vicenda singolare essendo notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e/o forma organizzata, tanto da far emergere il serio sospetto che con il decreto ministeriale si voglia impedire l’interlocuzione politica di un militante politico con la sua area di appartenenza piuttosto che la relazione di un associato con i sodali in libertà.

Sempre nel mese di luglio u.s. è stata pronunciata una ulteriore aspra condanna in primo grado, a 28 anni di reclusione, contro un altro militante anarchico per un attentato alla sede della Lega Nord, denominata K3, anche per tale episodio nessuno ha riportato conseguenze lesive. Inoltre, nell’estate del 2020 altri cinque militanti anarchici sono stati raggiunti da una ordinanza di custodia cautelare in carcere per reati di terrorismo, trascorrendo circa un anno in AS2 (Alta Sorveglianza, altro regime carcerario “duro”), nonostante i fatti a loro concretamente attribuiti fossero bagatellari, quali manifestazioni non preavvisate, imbrattamenti, ecc.

Altri processi contro attivisti anarchici sono intentati per reati di opinione, ad esempio due a Perugia, qualificati come istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo, in quanto i rei avrebbero diffuso slogan violenti anarchici; quegli stessi slogan e idee che soltanto alcuni anni or sono sarebbero stati ricondotti alla fattispecie di cui all’art. 272 cp, propaganda sovversiva, fattispecie abrogata nel 2006, sulla base dell’assunto che la 2 propaganda, anche di ideologie di sovversione violenta, debba essere tollerata da uno Stato che si dica democratico, pena la negazione del suo stesso carattere fondante.

Altre iniziative giudiziarie per reati associativi sono state intentate a Trento, nuovamente a Torino, a Bologna a Firenze, contro altri militanti anarchici, con diffusa quanto incomprensibile applicazione di misure cautelari in carcere.

La narrazione mediatica sempre degli ultimi due anni, costruita sulla scorta di dichiarazioni qualificate del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, vede inoltre gli anarchici responsabili, istigatori, delle rivolte in carcere del mese di marzo 2020, salva recente successiva smentita da parte della commissione ad hoc istituita per stabilire le cause dell’insorgenza dei detenuti.

Più in generale, in epoca recente, all’indistinta area anarchica è stata attribuita una enfatica pericolosità sociale da parte delle relazioni semestrali dei servizi segreti.

E’ lecito domandarsi cosa stia avvenendo in questo paese e se gli anarchici rappresentino effettivamente un pericolo per l’incolumità pubblica meritevole di essere affrontato in termini muscolari e talvolta spregiudicati oppure se, in coerenza con il passato, rappresentino gli apripista per una ristrutturazione e/o un rafforzamento in chiave autoritaria degli spazi di agibilità politica e democratica nel paese.

Chi scrive svolge la professione di avvocato ed è direttamente impegnato nella difesa di numerosi anarchici in altrettante vicende penali ed è così che riscontra la sempre più diffusa e disinvolta sottrazione delle garanzie processuali a questa tipologia di imputati: in primo luogo in tema di valutazione delle prove in ordine alla riconducibilità soggettiva dei fatti contestati; oppure di abbandono del diritto penale del fatto, a vantaggio del diritto penale del tipo d’autore, realizzato attraverso l’esaltazione della pericolosità dell’ideologia a cui il reo appartiene.

Siamo consapevoli che la genesi di un possibile diritto penale del nemico si radica nella storia recente di questo paese nel contrasto giudiziario alle organizzazioni combattenti, nel corso dei processi degli anni 70/80 del secolo scorso, e che poi le continue emergenze susseguitesi negli anni hanno permesso di condividere ed estendere ad altre categorie di imputati (ad esempio ai migranti, ma non solo) l’atteggiamento giudiziario tenuto ieri nei confronti dei militanti della lotta armata. Atteggiamento che oggi viene riproposto verso gli anarchici, rei soprattutto di manifestare una alterità irriducibile all’ordine costituito.

Da avvocati e avvocate ci troviamo ad essere spettatori di una deriva giustizialista che rischia di contrapporre ad un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i 3 diritti tipici degli stati democratici, uno riservato ai soggetti ritenuti pericolosi, destinatari di provvedimenti e misure rigidissimi, nonché di circuiti di differenziazione penitenziaria.

Tutto ciò ci preoccupa perché comporta un progressivo allontanamento dai principi del garantismo giuridico, da quello di legalità (per cui si punisce per ciò che si è fatto e non per chi si è) a quello di offensività, sino ad un pericoloso slittamento verso funzioni meramente preventive e neutralizzatrici degli strumenti sanzionatori, come gli esempi sopra richiamati dimostrano.

Da Roma: Avv. Flavio Rossi Albertini, Avv. Caterina Calia, Avv. Simonetta Crisci, Avv. Ludovica Formoso Avv. Ivonne Panfilo; Avv. Marco Grilli; Avv. Pamela Donnarumma; Avv. Gregorio Moneti; Avv. Leonardo Pompili.

Da Torino: Avv. Gianluca Vitale, Avv. Claudio Novaro, Avv. Gianmario Ramondini.

Da Bologna: Avv. Ettore Grenci, Avv. Daria Mosini,Avv. Danilo Camplese

Da Milano: Avv. Margherita Pelazza, Avv. Eugenio Losco, Avv.Benedetto Ciccaroni, Avv.Tania Bassini

 Da Firenze: Avv. Sauro Poli

Da La Spezia: Avv. Fabio Sommovigo

Da Napoli: Avv. Alfonso Tatarano

 

Prigionieri palestinesi in sciopero della fame contro l’uso della detenzione amministrativa – info e sostegno

Trenta prigionieri politici palestinesi in detenzione amministrativa nelle carceri dell’occupazione israeliana sono ancora in sciopero della fame a tempo indeterminato per il 15° giorno, per protestare contro la loro ingiusta detenzione senza accuse né processo, lo riferisce la Palestinian Prisoner’s Society.

L’Associazione dei Prigionieri Palestinesi, un gruppo di difesa dei prigionieri, ha dichiarato che 28 dei 30 detenuti in sciopero della fame sono stati messi in isolamento nella prigione israeliana di Ofer da quando hanno iniziato lo sciopero della fame.

Il gruppo ha dichiarato la scorsa settimana che, nel caso in cui Israele esegua altri ordini di detenzione amministrativa, si prevede che altri prigionieri si uniranno allo sciopero.

Il mese scorso, i detenuti amministrativi nelle carceri israeliane hanno inviato un messaggio in cui affermavano che la lotta contro la detenzione amministrativa continuerà e che le pratiche dei Servizi penitenziari israeliani “non sono più governate dall’ossessione per la sicurezza come effettivo motore dell’occupazione, ma piuttosto sono atti di vendetta dovuti al loro passato”.

Israele ha intensificato la sua politica di detenzione amministrativa contro i palestinesi, dato che il numero di detenuti amministrativi supera attualmente i 760, compresi minori, donne e anziani. Secondo la Commissione per gli Affari dei Prigionieri, l’80% dei detenuti amministrativi sono ex prigionieri che hanno trascorso anni nelle carceri, la maggior parte dei quali erano proprio in detenzione amministrativa, un modello ereditato dall’occupazione coloniale britannica e da questa applicata in tutte le sue colonie imperiali, Irlanda del Nord inclusa.

La politica di detenzione amministrativa di Israele, ampiamente condannata, consente la detenzione di palestinesi senza accuse o processo per intervalli rinnovabili che di solito vanno dai tre ai sei mesi, sulla base di prove non rivelate che persino l’avvocato del detenuto non può visionare.

Amnesty International ha descritto la politica di detenzione amministrativa di Israele come una “pratica crudele e ingiusta che contribuisce a mantenere il sistema di apartheid di Israele contro i palestinesi”.

 

 

sulla manifestazione di milano contro la repressione – un commento

Abbiamo partecipato alla manifestazione per Vincenzo Vecchi a Milano come sempre solidali con i compagni colpiti dalla repressione

Una buona presenza di diverse centinaia di compagni in maggioranza area anticarcerario-41 bis (nord-nazionale) che hanno diretto la manifestazione con il loro stile comunicativo ma al solito autoreferenziale e settario, con vari spikeraggi lungo il corteo centrati sul loro punto di vista sulle tematiche e con il loro approccio – distante dai proletari in lotta realmente

Altre presenze minoritarie al corteo ma visibili con striscione dell’area milanese con transiti, anarchici e panetteria Questi ultimi sono stati gli unici interventi programmati durante il corteo, leggendo articoli attraverso il “comitato palestina” e la “rete più salute per tutti”, che fanno riferimento a panetteria presenti manifesti: no al 41 bis-carcere e tortura,

. Non sono mancati volantini sulle posizioni reazionarie e confuse e ultra datate – No green pass

Presenza massiccia della polizia e carabinieri in assetto antisommossa (visibili avanti e dietro almeno 6 + 6 camionette) e anche ai lati del corteo stile Germania che fiancheggiavano sui marciapiedi entrando per quasi metà del corteo, oltre alla digos assai numerosa che ha provocato sin da subito alla partenza e poi varie volte durante il corteo fino anche al carcere continue provocazioni prontamente respinte fisicamente nonostante anche il sopraggiungere delle squadre celeri…

La nostra partecipazione è stata quella di portare la bandiera di proletari comunisti (unica bandiera oltre a 2 della palestina e di transiti con 1 autonomia contro potere e 1 lotta casa),e 50 di volantini per Vincenzo Vecchi guardando in particolare a compagni studenti proletari che avevano bisogno di un altro riferimento in un corteo giusto contro la repression oltre che intervenire direttamente nei momenti di tensione ai lati del corteo giovani, immigrati e mamme con bambini che assistevano incuriosite al passaggio del corteo.

Infatti dopo aver spiegato la questione e il legame Genova repressione governo dal nostro punto di vista hanno preso con interesse il volantino, e alcuni immigrati hanno poi seguito lo stesso…

segno che la comunicazione degli organizzatori non era molto popolare e proletaria…

Comunque è necessario imparare anche da manifestazioni come questa che serve una presenza determinata in piazza e una efficace propaganda durante i cortei che possono avere una potenzialità politica molto forte e che diretta da una linea proletaria e comunista avrebbe avuto come obbiettivo quanto meno l’assedio della prefettura e al centro lo stato borghese ma anche il governo e non appiattita e ridotta come fanno gli anarchici all’unico obbiettivo del carcere come simbolo dell’autorità….

Un compagno di proletari comunisti presente alla manifestazione

info – un forum contro l’imperialismo che parla della libertà di tutti i prigionieri politici rivoluzionari del mondo – info srp

Si conclude oggi l’importante simposio internazionale per il 20° anniversario del Fronte antimperialista, tenutosi all’Università di Atene dal 7 al 9 ottobre. Vi hanno partecipato antimperialisti, ex prigionieri politici e associazioni per la libertà dei prigionieri rivoluzionari da tutto il mondo, dall’America Latina alla Corea del Sud, dalla Siria alla Turchia, dagli Stati Uniti all’Irlanda, dall’India, all’Italia.

Su tv.antiimperialistfront è in corso la diretta in lingua originale e sono disponibili alcune registrazioni della diretta del 7 e 8 ottobre. Qui potete seguire la diretta tradotta in italiano.

Dall’Italia pubblichiamo di seguito l’intervento degli avvocati Caterina Calia e Flavio Rossi Albertini:

Intervento sulla detenzione politica in Italia per il simposio antimperialista di Atene.

Come avvocati che da tantissimi anni si occupano della difesa di numerosi prigionieri politici in Italia abbiamo accolto con piacere l’invito a questa importantissima iniziativa del fronte antimperialista, consapevoli che solo con l’unità delle lotte in tutti i settori dove si sviluppa lo scontro di classe sarà possibile opporsi alle strategie controrivoluzionarie che gli Stati mettono in campo per continuare a tenere in vita il sistema di sfruttamento e di dominio e che raggiungono il più alto livello di brutalità e barbarie proprio all’interno delle carceri.

Condividiamo lo spirito del convegno e riteniamo molto importante la costruzione di iniziative sulla prigionia politica perché queste rappresentano un livello di confronto non solo sullo stato e le condizioni dei prigionieri a livello internazionale, ma sulle sfide che dobbiamo affrontare oggi per ottenere la loro liberazione.

A partire dagli anni 70, a fronte della crisi del sistema capitalistico e dello svilupparsi di un forte e radicale movimento di classe e rivoluzionario, si è affermata una unitarietà delle strategie repressive e di politica penitenziaria comune in tutti i paesi europei e non solo. Il “nemico interno” è stato affrontato dagli Stati come un problema strategico. A fare da apripista, come sempre, sono stati gli USA che fin dagli anni 60 del secolo scorso, istituirono le “Control Units”, unità di massima sicurezza all’interno delle quali furono imprigionati numerosi militanti di organizzazioni di guerriglia antimperialiste, come ad esempio i membri del Black Panther Party, ma che sono ancora oggi operative anche nei confronti dei detenuti comuni. Negli anni 70 l’esempio statunitense fu seguito da altre due potenze imperialiste, la Germania (che sperimentò nel nuovo carcere di Stammheim le più terribili pratiche di annientamento psico-fisico nei confronti dei prigionieri della RAF, culminato con l’assassinio di tre militanti in lotta contro l’isolamento) e la Gran Bretagna che, nel 1976, introdusse nel carcere di Long Kesh (Irlanda del Nord) i cosiddetti Blocchi H, edifici di cemento armato a forma di H dove furono detenuti i militanti repubblicani appartenenti all’IRA, dieci dei quali nel 1981 morirono a seguito dello sciopero della fame contro l’isolamento.

In quegli stessi anni anche lo stato italiano farà la sua parte; tutto il circuito carcerario nazionale a metà degli anni 70 sarà ristrutturato ed ammodernato seguendo le direttive di detenzione basate, a partire dalle strutture murarie, sulla differenziazione del trattamento e sull’isolamento.

Nel corso degli anni 90 le più sottili forme scientificamente avanzate di tortura bianca, ampiamente sperimentate negli USA, in Germania, in Irlanda e negli altri paesi a capitalismo avanzato verranno estese ad altri Stati che fino ad allora non applicavano queste forme di isolamento, ad esempio Perù, Spagna, Turchia, solo per citarne alcuni.

Insomma il trattamento differenziato, il sistema premio-punizione ed il massimo isolamento come livello di tortura e di annientamento psico-fisico verrà da allora imposto in tutti i paesi che registravano un ampio e diffuso conflitto socio-politico ed una forte presenza di organizzazioni rivoluzionarie.

Centinaia e centinaia di prigionieri politici nel mondo hanno perso la vita nella lotta contro tali strategie di annientamento. Non potrà mai essere dimenticato il massacro con i lanciafiamme ed i gas tossici compiuto dall’esercito turco il 19 dicembre 2000 (con l’operazione beffardamente chiamata “ritorno alla vita”) per spezzare la resistenza dei prigionieri e delle prigioniere in sciopero della fame contro la deportazione nelle celle di tipo F, imposte e pianificate dal regime fascista turco insieme agli Stati Uniti e all’Unione Europea.

Perché ciò non accada mai più, perché neanche un solo prigioniero perda la vita, perché tutti possano avere un processo giusto e spazi di agibilità e socialità in carcere è necessario dare loro voce e forza, rompere l’isolamento, rendere trasparenti le loro condizioni di vita, costruire unità e solidarietà.

Venendo al tema del nostro intervento sulla situazione della prigionia politica in Italia dobbiamo necessariamente tornare un po’ indietro nel tempo.

Come voi tutti saprete in Italia, dalla fine degli anni 60 e per tutti gli anni 70 del secolo scorso si è sviluppato un forte movimento di massa che ha dato vita anche a numerose organizzazioni combattenti.

Gli anni 70 furono anni di grandi trasformazioni sociali, culturali, mentali che rompevano ogni ruolo istituzionalmente assegnato, all’interno delle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, che costruivano dal basso e concretamente autorganizzazione, nuove forme di relazioni sociali, mettendo profondamente in discussione il marciume delle relazioni borghesi ed il sistema economico e di potere che le teneva in vita. Proprio per distruggere e disarmare questo movimento di massa nel suo insieme lo stato ha messo in campo una strategia complessa ed articolata fatta di leggi speciali e di misure tese all’annientamento di tutte le avanguardie di lotta, arrivando anche alla tortura sistematica sui prigionieri. L’Italia, non era certo la dittatura dei paesi latino americani e nemmeno il regime reazionario dello stato turco, ma quanto accaduto in questo paese negli anni 70 e 80 dimostra che quando la lotta di classe mette in discussione i poteri costituiti anche lo stato democratico svela il suo vero volto. La legislazione speciale varata in Italia negli anni ‘70 non era finalizzata solo a fronteggiare le organizzazioni combattenti, ma era un vero progetto politico finalizzato a distruggere ed annientare un movimento rivoluzionario articolato in mille forme diverse che nel suo insieme metteva in discussione l’intero assetto economico e politico dello stato borghese. La repressione agiva capillarmente attraverso “le istituzioni democratiche” schedando operai, tossicodipendenti, disoccupati, senza casa, ed espellendo dai luoghi di lavoro ed in particolare dai consigli di fabbrica i delegati che non condannavano esplicitamente ogni forma di lotta violenta. Il progressivo aumento delle spese militari verrà in parte destinato all’ordine interno (modernizzazione di armi e mezzi tecnici di controllo, creazione di corpi speciali, ampliamento delle funzioni di polizia a corpi fino ad allora amministrativi, come i vigili urbani. Le leggi antiterrorismo nei fatti hanno significato perquisizioni senza mandato, fermo di polizia, interrogatori senza avvocato, carcerazioni preventive fino a 10 anni e 8 mesi, aumento di tutte le pene anche per reati minori (attraverso l’aggravante della finalità di terrorismo) militarizzazione delle aule dei processi con schedatura di tutti i partecipanti all’udienza, negazione del diritto di parola per gli imputati e addirittura arresti degli avvocati per impedire qualsiasi linea di difesa diversa da quella voluta e imposta dallo stato, cioè quella della dissociazione e del pentimento. Le galere si sono riempite di migliaia di compagni e avanguardie di lotta (operai, disoccupati, studenti) e nei confronti dei prigionieri e delle prigioniere rivoluzionarie sono state sperimentate le pratiche più avanzate di controrivoluzione. L’apertura delle carceri speciali (1977), la sistematica applicazione del trattamento differenziato nell’intero circuito carcerario con l’applicazione dell’art. 90* ai prigionieri cosiddetti irriducibili (dal 1980 al 1986), l’introduzione di nuovi reati come l’art. 270 bis (associazione con finalità di terrorismo), 280 c.p. (attentato per finalità terroristiche e di eversione), gli aumenti di pena per tutti i reati commessi “con finalità di terrorismo” (1980, Legge Cossiga), la tortura, come strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata dal 1978 al 1983), la conseguente legge sui pentiti (1982) e infine la legge sulla dissociazione rappresentano l’ampio ventaglio di strumenti repressivi utilizzati per distruggere le organizzazioni rivoluzionarie degli anni 70 e 80, ma che furono abbondantemente utilizzati anche per reprimere i movimenti di massa. La dissociazione in particolare, il cui concetto giuridico fu introdotto in un arco di tempo abbastanza lungo (dal 1978 al 1987) da strumento di ricatto e premialità rivolta ai singoli prigionieri, finirà per permeare il modo stesso di fare politica stabilendo rigidi confini al dissenso. Dalla metà degli anni 70 ai primi anni 80 finirono in carcere almeno 4000 compagni e compagne. Gli inquisiti furono circa 20.000. L’utilizzo della tortura e delle leggi sulla dissociazione spezzarono la resistenza di tantissimi di loro che, dal 1982 alla fine degli anni 80 uscirono con le cosiddette leggi premiali. Centinaia di compagni e decine di compagne (condannati/e a pene altissime, da 20 a 30 anni o alla pena dell’ergastolo) riuscirono tuttavia a resistere alle durissime condizioni di segregazione e di annientamento imposte.

Furono abbozzate alcune proposte di soluzione politica, ma lo Stato non ha mai riconosciuto lo scontro di quegli anni e l’esistenza di quella che potremo definire una guerra a bassa intensità. Tanti di questi compagni sono usciti per fine pena negli anni 90-2000, mentre quelli condannati all’ergastolo sono in gran parte usciti dopo aver trascorso almeno 26 anni in carcere, accedendo ai benefici previsti dalle leggi ordinarie (liberazione condizionale) senza mai pentirsi o dissociarsi. Del ciclo di lotte degli anni 70-80 rimangono attualmente in carcere undici compagni e cinque compagne, con carcerazioni effettive che variano da 35 anni a 41 anni. Tutti questi prigionieri avevano militato nell’organizzazione denominata Brigate Rosse. Attualmente son detenuti in braccetti speciali e non hanno alcun contatto con altri prigionieri. Che la legislazione di emergenza non abbia rappresentato una deroga provvisoria allo stato di diritto, circoscritta ad un determinato periodo storico, lo dimostrano gli sviluppi degli anni successivi e dell’oggi. Ogni qualvolta lo stato democratico si misura con le espressioni più avanzate del conflitto sociale utilizza gli strumenti repressivi forgiati proprio negli anni 70-80: la tortura quando è necessario (vedasi la macelleria messicana di Diaz e Bolzaneto nel 2001 per il G8 a Genova) e a seguire, sempre e comunque, la politica della dissociazione, ossia la pretesa di una presa di distanza dalle forme più radicali di lotta. Insomma la democrazia borghese non smantella assolutamente nulla: né l’ insieme delle “leggi speciali” né le norme penali di chiara matrice fascista del codice Rocco**. Le une e le altre risultano infatti funzionali e assolutamente adattabili alle necessità repressive e preventive che si pongono nei vari momenti storici. Basta volgere lo sguardo all’oggi! Analizzando l’elevatissimo numero di denunce e di condanne che hanno interessato diverse centinaia di compagni (decine di procedimenti per reati associativi, imputazioni e condanne per i reati di devastazione e saccheggio con pene fino a 15 anni ( per qualche cassonetto bruciato e qualche vetrina infranta nel corso di cortei e manifestazioni) , migliaia di denunce per reati minori che però in concreto si tramutano anch’essi in anni di galera) si potrebbe pensare di vivere anni di conflitto sociale non dissimili dagli anni ’70. Insomma lo stato attraverso i suoi apparati giuridico-militari, mettendo in campo una forza assolutamente sproporzionata rispetto al livello del conflitto, agisce in maniera preventiva al fine di impedire che lotte settoriali e di resistenza sfocino in un conflitto generalizzato e di critica all’intero sistema capitalistico. Le misure repressive varate dal ‘77 all’82 vengono riutilizzate e calibrate per affrontare in modo autoritario le nuove emergenze e per arginare il dissenso dentro steccati di compatibilità. In quest’ottica non si può non parlare del cosiddetto art. 41 bis che diventa operativo negli anni novanta, dopo le stragi mafiose contro i giudici Falcone e Borsellino, ma che ha come suo antesignano l’articolo 90 citato prima. Nel 1992 all’art. 41 bis, già introdotto nel 1986, fu aggiunto un secondo comma che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell’ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni mafiose. Nel 2002, a seguito di due attentati mortali posti in essere da un piccolo gruppo armato delle Brigate Rosse, veniva estesa l’applicabilità del regime del 41-bis, ai detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione”. Infine nel 2009 l’art. 41 bis, secondo comma è stato definitivamente istituzionalizzato entrando a far parte dell’ordinamento penitenziario. La prima applicazione è prevista per 4 anni, con successive e perenni proroghe di due anni. Con la versione definitiva sono stati introdotti limiti anche alle visite degli avvocati (limite poi abrogato perché dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale) e si è stabilito che sui reclami di questa categoria di detenuti non decide più il giudice naturale precostituito per legge (cioè il Tribunale del luogo di detenzione), ma un unico tribunale nazionale speciale (quello di Roma). Il regime del 41 bis è attualmente applicato a circa 730 detenuti. Dal 2005 viene applicato anche a tre prigionieri politici arrestati nel 2003 e condannati per appartenenza alle cosiddette nuove brigate rosse: Nadia Lioce, Marco Mezzasalma, Roberto Morandi. L’altra detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni si chiamava Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. Abbandonata a se stessa Diana “si è suicidata” in carcere il 31 ottobre del 2009. La finalità del 41 bis è secondo la norma quella di recidere i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, ma la vera funzione è quella dell’annientamento psicofisico dei prigionieri. Riguardo ai due prigionieri e alla prigioniera politica in 41 bis dal 2005 è ancora più evidente come la finalità delle condizioni di vita imposte sia quella di distruggere la loro identità politica ed intellettuale e di interrompere i legami, non con una organizzazione che non esiste dal 2003, ma più in generale con quei settori di classe che ancora resistono e si oppongono allo stato di cose presenti. Negare loro la possibilità di leggere, di scrivere, di tenersi informati su ciò che accade al mondo per questi prigionieri è una condanna a morte. Tutte le tecniche di deprivazione sensoriale e sociale, ossia di tortura bianca, applicate negli anni 70 ed 80 ai prigionieri rivoluzionari per perseguirne l’annientamento gli vengono applicate da oltre diciassette anni. Siamo di fronte ad una tortura di lungo periodo: totale assenza di socialità, impossibilità di incontrare altri compagni/e, una sola ora d’aria al giorno, una sola ora di colloquio al mese con il vetro con i prossimi congiunti, divieto di ricevere libri o stampati anche dalla famiglia, limitazione nel possesso dei libri (non più di tre in cella), controllo e blocco continuo della corrispondenza, sia con i pochi amici e parenti che con gli altri prigionieri rivoluzionari. Questi prigionieri vivono una condizione completamente diversa da quella vissuta dai detenuti politici del ciclo di lotte degli anni ’70-80. In 19 anni di detenzione non hanno mai incontrato altri compagni, non hanno mai potuto discutere, confrontarsi, commentare una semplice notizia, vivere un barlume di quotidianità insieme. Tutte le forze politiche sono compatte nel ritenere necessaria questa forma di tortura legalizzata (e anche questo richiama l’unanimità con cui furono votate le cosiddette leggi antiterrorismo): il 41 bis è ormai un presidio della cosiddetta legalità da cui non si torna indietro. Ci sono solo due modi per uscire dal circuito del regime cosiddetto speciale: la morte (come è avvenuto per Diana) o la scelta di rinnegare la propria identità politica e collaborare con la giustizia.

Oggi, come nel periodo fascista, come nel periodo dell’emergenza mai finita degli anni 70 e 80, per quanto riguarda i prigionieri politici uno degli imperativi degli apparati di repressione e controllo è quello di impedire il flusso di comunicazioni e di scambi culturali, umani, politici e solidali con l’esterno e tra prigionieri per annichilire e distruggere questi ultimi, ma anche per impedire che si tessano fili che ricongiungano esperienze di ieri e di oggi e che la memoria storica venga anche per tale via ricostruita.

Venendo agli anni più recenti non è possibile non affrontare anche l’accanimento repressivo che lo stato in Italia esercita su una diversa e mai doma area politica ovvero sull’anarchismo di azione. Seppur non diffusamente rappresentata nel paese e ordinariamente non partecipe ai movimenti di lotta sociale, gli anarchici cd insurrezionalisti hanno mantenuto con costanza una pratica di azione antiautoritaria e anticapitalista che le articolazioni repressive dell’antiterrorismo hanno individuato come nemico sistemico da disarticolare definitivamente. Ciò anche in assenza di effervescenza delle diverse aree politiche, marxista in primis, che avevano ottenuto in passato una particolare attenzione in considerazione della maggiore capacità di agire in maniera organizzata.

Sono ormai alcuni anni che gli anarchici sono stati individuati come il soggetto politico privilegiato nel campo della repressione; vanno quindi colpiti ed intimoriti con gli strumenti più elevati a disposizione nel codice penale. Cosicché, ad esempio, il 6 luglio u.s. la II Sezione della Corte di Cassazione ha riqualificato in strage politica ex art 285 c.p. un duplice attentato attribuito a due imputati anarchici contro la scuola allievi carabinieri a Fossano (To) stabilendo quale unico esito giudiziario possibile la pena dell’ergastolo. Condanna per strage politica nonostante l’episodio in parola non abbia prodotto alcuna vittima e neppure feriti. Risultando pertanto evidente il significato della condanna quando il più grave reato previsto dall’ordinamento giuridico nazionale è comminato per un reato senza vittime mentre in nessuno dei numerosi fatti stragisti con decine di morti è stato mai riconosciuto (basta ricordare la strage di Piazza Fontana, la stazione di Bologna, Capaci, Via D’Amelio, Via dei Georgofili ecc). Sempre quest’anno uno dei due imputati di strage, Alfredo Cospito, è stato sottoposto al cd. carcere duro, all’art. 41 bis comma 2 o.p., nonostante sia notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e/o forma organizzata. Sempre nel mese di luglio u.s. è stata pronunciata una ulteriore condanna a 28 anni di reclusione, contro un altro militante anarchico per un attentato alla sede della Lega Nord, anche per tale episodio alcuna persona ha riportato conseguenze lesive. Nell’estate del 2020 altri cinque militanti anarchici vennero raggiunti da una ordinanza di custodia cautelare in carcere per reati di terrorismo, trascorrendo circa un anno in AS2, nonostante i fatti concretamente attribuiti agli stessi fossero di minima rilevanza. Altri processi contro attivisti anarchici sono intentati per reati di opinione, pensare anarchico ed esprimersi da anarchici costituisce reato. Altre inchieste fondate su fantomatiche ipotesi associative terroristiche sono state intraprese contro gli anarchici a Trento, a Torino, a Bologna, a Firenze, con diffusa applicazione di misure cautelari in carcere. Sempre negli ultimi due anni gli anarchici sono stati accusati di essere i responsabili, istigatori, delle rivolte in carcere del mese di marzo 2020***, sulla scorta di dichiarazioni del Procuratore Nazionale Antiterrorismo. Ed in generale, in epoca recente, all’indistinta area anarchica è stata attribuita una enfatica pericolosità sociale da parte delle relazioni semestrali dei servizi segreti. Risulta chiaro il tentativo di seppellire sotto una coltre di repressione il movimento anarchico italiano?

Per concludere – riguardo alla situazione attuale in Italia – possiamo dire che l’armamentario antiterrorismo ed antimafia, costruito ed affinato nel corso di decenni, viene oggi capillarmente rovesciato oltre che sugli anarchici, sulla dimensione sociale delle lotte.

Lo Stato, incapace di dare risposte ai bisogni di fette sempre più consistenti di settori popolari investiti dalla crisi tratta le forme di povertà e di emarginazione come un problema di ordine pubblico. Di pari passo si assiste ad una sistematica applicazione di misure di prevenzione (fogli di via preventivi se si è in procinto di partecipare ad una manifestazione, obblighi di soggiorno o divieti a frequentare determinati quartieri anche della città in cui si vive o si lavora etc.) nei confronti dei militanti delle lotte sociali (lotte dei disoccupati, per il diritto alla casa, per la difesa dell’ambiente e dei territori, lotte dei sindacati conflittuali ecc)… Si tratta di misure di prevenzione capillari, sganciate dalla materialità dei comportamenti e delle condotte e legate invece al concetto di pericolosità sociale (non si viene puniti per ciò che si fa, ma per ciò che si è).

Di fronte alla generica accusa di essere pericoloso per la sicurezza e la tranquillità pubblica non c’è difesa possibile se non l’abiura, la presa di distanza, la dissociazione. La portata antisociale e antidemocratica di queste misure è evidente, cosi come è evidente la lesione dei principi basilari di uno stato di diritto, primi fra tutti i principi di uguaglianza e di legalità. Il filo conduttore che lega tali misure al 41 bis (ad oggi la misura di prevenzione più avanzata sperimentata ed applicata in Italia sui prigionieri politici e su altre 700 persone accusate di appartenere alla criminalità organizzata) consente di cogliere l’unitarietà del sistema repressivo e la finalizzazione delle stesse al controllo sociale.

Riconoscere l’unitarietà di questo processo repressivo consente di capire anche le ragioni per cui lo stato continua a mantenere in carcere i prigionieri rivoluzionari dopo oltre 40 anni di detenzione: non certo per quello che hanno fatto in passato o per la loro pericolosità attuale, ma per la storia che rappresentano e come monito e deterrenza per chi continua a lottare oggi. Riconoscere l’unitarietà di questa complessa strategia repressiva e controrivoluzionaria ci fa capire come la battaglia per la liberazione dei prigionieri politici debba essere un punto irrinunciabile, sempre e comunque (a prescindere dalle differenze politiche-ideologiche), della lotta contro la repressione, perché la prigionia politica è l’esemplificazione del rapporto di potere tra Stato e Classe.

Le questioni accennate meritano indubbiamente maggiore approfondimento e necessità di confronto, crediamo però si possa intanto affermare che le misure repressive contro i movimenti di lotta, i disoccupati organizzati, i lavoratori della logistica ecc., oggi come ieri, così come le condizioni imposte ai prigionieri rivoluzionari sono -in ogni parte del mondo- una scelta obbligata finalizzata a mantenere in vita un sistema di potere che nel divenire della crisi non può che accentuare la propria vocazione autoritaria e reazionaria. Per questo riteniamo molto importante l’incontro organizzato ad Atene tendente a ricostruire e mettere in connessione le diverse realtà a livello internazionale, con l’auspicio che si possano costruire momenti concreti di lotta comune perché solo uniti possiamo vincere!

Caterina Calia e Flavio Rossi Albertini

* prevedeva la sospensione delle regole dell’ordinamento penitenziario, limitando il numero dei colloqui con i familiari che avvenivano attraverso vetro e citofono, vietando i rapporti epistolari tra prigionieri, limitando l’accesso alle attività ricreative, sportive o scolastiche e istituendo delle sezioni speciali per i prigionieri politici

** codice emanato nel 1930 durante il ventennio fascista e ancora oggi in vigore.

*** Nel marzo del 2020 in considerazione della scellerata gestione del covid all’interno delle carceri, e contro le misure restrittive volute dall’Amministrazione Penitenziaria, 79 carceri per 7517 detenuti hanno inscenato proteste diffuse, 22 carceri sono state interessate da rivolte di massa, devastazione di sezioni e evasioni, alle quali sono seguite azioni repressive violentissime con 13 morti e centinaia di feriti tra i detenuti nonché centinaia di trasferimenti punitivi.