Soccorso Rosso Proletario

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La lotta non si arresta! Dichiarazione in tribunale durante il processo sui fatti del 18 febbraio 2022 davanti alla sede di Confindustria a Torino

Da Cambiare Rotta

Pubblichiamo di seguito la dichiarazione del nostro compagno Niccolò letta in aula questa mattina in occasione della terza udienza del processo che lo vede imputato, assieme ad altri 9 studenti e studentesse, per i fatti del 18 febbraio 2022 davanti alla sede di Confindustria a Torino, nella giornata nazionale di sciopero studentesco a seguito della morte di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci durante lo svolgimento di progetti PCTO (ex alternanza scuola lavoro).

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Nel 2021, circa 110 mila studenti hanno abbandonato la scuola prima del diploma.

I NEET, ovvero i giovani tra i 18 e i 29 anni che sono disoccupati e che non sono inseriti in nessun percorso di formazione sono il 24%. Circa 3 milioni di giovani di questo paese.

38 giovani diplomati ogni 100 non hanno alcun tipo di lavoro.

In Italia, secondo i sindacati, nella scuola pubblica mancano 210mila docenti e 38mila lavoratori del personale ATA.

Tra settembre 2021 e Agosto 2022  si sono verificati 45 crolli scolastici, e ad oggi il 56% degli edifici scolastici di tutto il paese richiede interventi infrastrutturali urgenti.

Il 22 febbraio di quest’anno crolla il tetto dell’Università di Cagliari, per fortuna di notte, quando il plesso era vuoto. Una tragedia annunciata, che solo per puro caso non ha fatto vittime.

Dal 2017 ad oggi, si contano circa 300 mila infortuni e almeno tre morti nei percorsi di PCTO e di Alternanza Scuola-Lavoro. Tra questi, solo nell’ultimo anno, Lorenzo Parelli, 18 anni; Giuseppe Lenoci, 16 anni; e Giuliano De Seta, 18 anni.

Il sistema della formazione pubblica, dalle scuole alle università, da anni versa in uno stato di crisi irreversibile, e questo è sotto gli occhi di tutti.

Senza andare troppo indietro nel tempo: la riforma Moratti del 2003, quella Gelmini del 2010, la Buona Scuola di Renzi. Governi di centro-destra e di centro-sinistra hanno contribuito in egual modo a trasformare la scuola pubblica fino ad arrivare a questa situazione; fino ad arrivare ai dati drammatici che citavo prima. E non è un segreto che ogni legge, ogni riforma, ogni trasformazione che ha subito il sistema formativo italiano in questi anni, è passato sotto l’égida di Confindustria che allo stesso modo è responsabile e complice della situazione che milioni di studenti vivono tutt’oggi.

 Il  21 gennaio del 2022, durante il suo ultimo giorno di PCTO, una putrella di acciaio travolge Lorenzo Parelli, che aveva da poco compiuto 18 anni, e lo uccide.

Ci sono esatti responsabili, con nomi e cognomi, del motivo per cui Lorenzo quel giorno non era a scuola con i suoi compagni, ma anziché studiare, e imparare nella classe della sua scuola, si trovava a lavorare in una ditta di carpenteria metallica.

Anche questo è sotto gli occhi di tutti. È sotto gli occhi dei sindacati, è sotto gli occhi dei professori, sotto gli occhi della società civile, e sotto gli occhi delle istituzioni che hanno permesso che questa tragedia si compisse, ma soprattutto è sotto gli occhi degli studenti di tutta Italia, che da quel momento hanno deciso che non possono più rimanere in silenzio.

A Roma l’attivazione degli studenti e l’occupazione delle scuole contro la gestione del sistema formativo durante la pandemia parte ad Ottobre. A Gennaio del 2022 decine e decine di scuole sono state occupate in tutta la capitale.

Poi Lorenzo viene ucciso, e la rabbia di decine di migliaia di studenti per due anni di gestione scellerata della pandemia, esplode in tutto il paese.

Da questo momento il problema non è solo la gestione della Didattica a Distanza, dei rientri in classe scandagliati, dei problemi di edilizia, delle classi sovraffollate e dell’aumento esponenziale del disagio psicologico; ma il problema è l’intero sistema della scuola pubblica, della sua trasformazione negli ultimi decenni, fino all’ultima riforma scritta da Renzi e Confindustria per cui si permette che gli studenti debbano imparare a essere sfruttati sin dal proprio percorso scolastico. E se durante questi tirocini di sfruttamento qualche studente viene schiacciato da una putrella, o lascia la vita in un incidente sul lavoro, anche questo fa parte della loro formazione perché questo è quello che spetterà loro una volta finiti gli studi: precarietà, sfruttamento e nel peggiore dei casi la morte sul posto di lavoro, come è successo pochi mesi prima a Luana, giovanissima morta in fabbrica e a molti altri, troppi altri come lei.

Tutto questo, a vari livelli, diventa chiaro, diventa evidente per tutti gli studenti delle scuole superiori, in tutto il paese.

La morte di un ragazzo, di quello che poteva essere un nostro compagno di banco, un nostro amico o un nostro fratello, non può passare in silenzio. E allo stesso modo è chiaro agli studenti di tutto il paese che quella morte ha precisi responsabili.

Nelle scuole di tutta Italia gli studenti si organizzano perché tragedie come questa non debbano più accadere, perché il percorso di alternanza scuola-lavoro venga abolito immediatamente.

A Torino, così come a Roma e in molte altre città d’Italia, in questo periodo vengono occupate circa 50 scuole, e allo stesso modo si contano decine di picchetti e di scioperi studenteschi.

Il 28 gennaio viene chiamata una prima piazza studentesca nella nostra città, una settimana dopo la morte di Lorenzo.

E qui arriviamo al motivo che ci vede oggi in quest’aula. Perché il motivo per cui ci troviamo in questa aula oggi non è solo quanto successo il 18 febbraio davanti la sede dell’Unione degli Industriali, che poi ha assunto le caratteristiche che tutti conosciamo; ma come hanno riportato in modo netto ed evidente due giorni fa i testimoni in quest’aula, il motivo è la gestione che le Istituzioni e le forze dell’ordine hanno deciso di mettere in atto di fronte la morte di uno studente e di fronte a una delle più importanti mobilitazioni di studenti degli ultimi anni.

Perché di fronte a una crisi di questa portata nel sistema della scuola pubblica, di fronte alla morte di Lorenzo Parelli, di fronte alla partecipazione attiva e democratica di migliaia di studenti che rivendicano una scuola migliore, una scuola che non uccida, la risposta delle istituzioni è stata quella di additarci e di trattarci come criminali e come delinquenti.

Ricordiamo tutti il discorso dell’allora Ministro degli Interni Lamorgese che giustifica la repressione e le cariche della polizia nelle numerose manifestazioni a Roma, e durante la manifestazione del 28 gennaio in Piazza Arbarello, dicendo che a portare avanti queste manifestazioni non fossero gli studenti ma bensì i centri sociali e le organizzazioni studentesche.

Questa è stata la risposta più facile che il governo Draghi ha saputo dare a migliaia di persone che sono scese in piazza per manifestare la propria rabbia e la propria indignazione: i manganelli della polizia, oltre il tentativo di ridurre un intero movimento che rivendicava una scuola migliore, in un gruppetto di violenti che manovravano le manifestazioni ad arte, per cercare solamente lo scontro con la polizia.

Perché la verità, anche questa sotto gli occhi di tutti, è che in questo paese la morte di uno studente e la voce e la rabbia di migliaia di suoi coetanei non vengono trattate come una questione da risolvere per cambiare qualcosa, ma vengono trattati come un problema di ordine pubblico affinché nulla cambi.

Il 23 gennaio a Roma, due giorni dopo la morte di Lorenzo, un corteo di studenti viene caricato ferocemente al Pantheon. Lo stesso copione si presenta a Torino 5 giorni dopo.

Nessuno degli studenti presenti in Piazza Arbarello il 28 gennaio stava cercando lo scontro con la polizia quando il presidio è stato caricato più volte, quando sono state rotte teste e braccia dagli scudi e dai manganelli.

Tutto questo solamente perché si voleva manifestare per le strade della città, anche a dispetto dell’ordinanza che lo vietava, perché ritenevamo giusto che ci fosse consentito di manifestare il nostro dolore e la nostra indignazione per l’omicidio di un nostro coetaneo, così come in quegli stessi giorni a Torino erano state consentite molte altre manifestazioni che sfilavano senza problemi per la città.

Perché personalmente trovo assurdo che sin dall’inizio della pandemia migliaia di lavoratori, anche non dei settori strettamente essenziali, fossero costretti ogni giorno a rischiare di morire di Covid per andare a lavorare e per mantenere adeguati gli standard produttivi, come Confindustria aveva imposto al nostro governo; mentre invece a diverse centinaia di studenti non fosse consentito di sfilare per le strade della città.

In quella decisione e in quelle cariche non c’era e non c’è mai stata nessuna esigenza di sicurezza sanitaria ma solamente un problema di ordine pubblico da gestire.

Questo ci porta alla manifestazione del 18 febbraio convocata in Piazza XVIII Dicembre.

Il 14 febbraio, sempre durante le ore di alternanza scuola-lavoro, muore in un incidente stradale Giuseppe Lenoci, 16 anni, giovanissimo.

L’unico indagato per quel drammatico incidente è l’autista che guidava il furgone. Ancora una volta nessuna parola sulla reale responsabilità di una vita così giovane spezzata, nessuna parola sul perché Giuseppe, a 16 anni, quella mattina si trovasse a bordo di un furgone anziché essere a scuola con i suoi compagni.

A quel punto  la rabbia diventa tanta e attraversa tutta la settimana prima della manifestazione.

La manifestazione del 18 febbraio, a differenza di quella di Piazza Arbarello, è molto numerosa, si contano diverse migliaia di studenti, ma non solo. Sono in tanti, come me, ad essere indignati per la morte di due giovanissimi studenti nel giro di pochi giorni, nonché del trattamento scellerato che la Questura di Torino ci aveva riservato per la manifestazione del 28 gennaio.

Quando il corteo passa davanti all’Unione degli Industriali, e vedo le sbarre del cancello aprirsi mi avvicino velocemente nelle prime file. Non era un’azione studiata e non avevo nessuna intenzione prima di quell’esatto momento. Ma quando si apre il cancello, per la prima volta mi trovo di fronte la possibilità di esprimere tutta la mia rabbia e il mio dolore proprio in faccia ad alcuni dei responsabili della morte di Lorenzo, della morte pochi giorni dopo di Giuseppe, e della morte e degli incidenti di tanti altri studenti durante i percorsi di Alternanza Scuola-Lavoro. Quando il varco viene sbarrato dai carabinieri in tenuta antisommossa, come molti altri mi trovo davanti per esprimere nuovamente la mia rabbia, colpiti nuovamente dai manganelli come in Piazza Arbarello.

Non c’era nessun intento criminoso o violento in tutto questo, volevamo contestare in maniera simbolica il palazzo dell’Unione degli Industriali perché questi erano coloro che ritenevamo in parte responsabili di quello che è successo. Non avevamo intenzione di entrare. Non avevamo intenzione di spaccare o bruciare tutto, ma avremmo semplicemente, e finalmente, espresso la nostra rabbia per tutto quanto, ma come sempre, anche in questo caso la voce e la rabbia di migliaia di studenti è stata trattata come un problema di ordine pubblico, da gestire e da reprimere.

 Mentre noi ci troviamo a processo oggi per quei fatti, la morte di Lorenzo, di Giuseppe e di Giuliano, la cui morte, sempre in Alternanza Scuola-Lavoro, si è aggiunta pochi mesi dopo, ancora non hanno trovato colpevoli. Nonostante sia sotto gli occhi di tutti chi siano i responsabili per questi crimini.

È di ieri la notizia che il ministro Valditara stia attuando un fondo di 10 milioni di euro per gli studenti morti in Alternanza Scuola-Lavoro. Mentre dopo tutte queste morti, dopo tutte queste tragedie, dopo una mobilitazione di studenti che si attiva per cambiare e trasformare il nostro sistema scolastico in declino, questo governo ancora torna a discutere di ripensare e riformare l’alternanza scuola-lavoro, senza mettere nemmeno in dubbio la possibilità di abolirla.

Per concludere, la giornata del 18 febbraio, per me e per altri 9 ragazzi è costata con misure cautelari pesantissime, che perdurano tutt’ora. Perfino il carcere per tre studenti giovanissimi, di cui uno aveva appena 19 anni.

Ragazzi che come me hanno espresso la loro rabbia per una tragedia accaduta ad un loro coetaneo e che sono stati trattati, e continuano a essere trattati, come criminali e delinquenti.

Il trattamento che abbiamo ricevuto, così come questo processo, è il chiaro segnale che questo governo, come quelli precedenti, anche a fronte di tragedie come queste, non hanno nessuna intenzione di cambiare le cose, e non hanno nessuna intenzione di fare passi indietro. L’unico modo in cui sanno reagire è colpire, incarcerare e reprimere chiunque provi a farlo.

Per Lorenzo, Giuseppe, Giuliano, e per tutti i morti di scuola.

Ministro Nordio, che fine ha fatto l’istanza di Cospito?

Da Il Dubbio

Dopo il silenzio di Via Arenula, la difesa dell’anarchico al 41bis presenta un’istanza al Tribunale di Sorveglianza di Roma: “Via la misura del carcere duro, ci sono le condizioni”

 

Sono giorni che chiediamo al Ministero della Giustizia se il Guardasigilli intenda dare una risposta all’istanza di revoca del 41 bis per Alfredo Cospito. Nessuno ci dà informazioni: “chiedo”, “non so”, oppure leggono i messaggi e li ignorano semplicemente.

Noi più di questo non possiamo fare ma intanto gli avvocati di Cospito, Flavio Rossi Albertini e Margherita Pelazza, il 28 aprile hanno inviato una istanza al Tribunale di Sorveglianza di Roma «avverso il silenzio/rifiuto del Ministro della Giustizia sull’istanza di revoca anticipata del regime detentivo speciale maturata in data 22 aprile 2023, in relazione alla mancata risposta all’istanza di revoca anticipata avanzata in data 23 marzo 2023». Si ricorda nella istanza come «si sia in presenza di una vicenda caratterizzata da un profondo ostruzionismo governativo di natura politica» pertanto «l’attribuzione al Ministro della giustizia, che fa istituzionalmente parte del governo, della competenza in materia crea il rischio molto concreto che la decisione circa la revoca del regime differenziato sia influenzata da considerazioni che esulano dalla valutazione giuridica relativa alla sussistenza dei presupposti applicativi».

Andando nel merito sono diversi gli elementi di novità addotti dalla difesa per chiedere la revoca del carcere duro. «Al fine di appalesare l’illegittimità dell’inerzia mantenuta dal Ministro a fronte della natura scardinante degli elementi di novità presentati dalla difesa, preme evidenziare come lo stesso – per quanto concerne la paventata necessità di impedire che il Cospito comunichi con l’esterno, al fine di contrastarne la presunta attività istigatoria – nel decreto applicativo» « ha stigmatizzato l’attività comunicativa del detenuto veicolata tramite gli scritti “Quale Internazionale”, “Contributo per l’assemblea del 9 giugno 2019 a Bologna”, “Contributo giornate anti-carcerarie a Bure”, e l’ “Autismo degli Insorti”». Eppure a marzo 2023 il Tribunale della Libertà di Perugia ha revocato l’ordinanza di custodia cautelare per Cospito e altri cinque indagati per, a vario titolo, istigazione a delinquere, anche aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico in relazione ad alcuni articoli pubblicati sulla rivista Vetriolo.

Il Tribunale per ben due volte ritenne che le esternazioni del Cospito non fossero idonee ad istigare in quanto « l’impiego di un linguaggio violento e, a tratti, truce non costituisce un elemento, di per sè solo, valorizzabile nella valutazione della carica istigatoria dei contenuti pubblicati». A ciò si aggiunge il fatto che la Corte Costituzionale lo scorso 18 aprile ha compiuto «una dichiarazione di incostituzionalità del divieto di prevalenza di tutte le attenuanti, nei confronti della recidiva reiterata, per tutti i reati la cui pena edittale sia fissa e contempli il solo ergastolo». Pertanto, «anche il predetto secondo elemento avrebbe dovuto rafforzare il Ministro sulla necessità di una rivisitazione del regime differenziato, nella misura in cui lo stesso ridimensiona, depotenziandola notevolmente, l’enfatizzazione della figura del Cospito, rectius dello spessore e della caratura criminale dello stesso – non potendo in alcun modo la predetta enfatizzazione prescindere dalla valutazione compiuta dalla Corte di Assise di Appello in termini di lieve entità del fatto di reato ascritto al Cospito e di quella in diritto compiuta dalla Corte Costituzionale per come tratteggiata nel decreto applicativo, nonché nella precedente decisione di rigetto del Ministro stesso».

Infine, ad avviso della difesa, Via Arenula avrebbe dovuto prendere in considerazione che nel processo relativo all’operazione Bialystok, che riguardava cinque persone accusate di aver fatto parte di una cellula eversiva anarco-insurrezionalista a Roma, con base il centro sociale Bencivenga Occupato, a Batteria Nomentana, la Corte di Assise di Roma ha assolto il 28 settembre 2022 gli imputati e accertato che non vi era alcuna associazione anarchica di cui Cospito sarebbe stato l’ispiratore. Ragion per cui, «risulta incontestabile come il Ministro avrebbe dovuto procedere ad una lettura sinottica degli elementi addotti dalla difesa nell’ultima istanza di revoca anticipata con quello oggetto dell’istanza antecedente», proprio perché prima le motivazioni della sentenza rese con riguardo all’indagine Byalistock, e poi il secondo annullamento da parte del Tribunale della Libertà di Perugia, nonché infine il dispositivo emesso dalla Consulta, «rappresentano tre elementi i quali, seppur isolatamente considerati potrebbero non determinare la deflagrazione dell’apparato giustificativo del decreto applicativo, diversamente, se valutati in maniera combinata, assumono una valenza demolitoria». Infine «risulta incontestabile l’illegittimità del silenzio rifiuto serbato dal Ministro rispetto agli elementi di novità addotti dalla difesa – la quale ha compiutamente assolto all’onere di dimostrare il venir meno delle condizioni legittimanti il mantenimento del regime detentivo speciale».

 

Movimento di lotta disoccupati “7 novembre”, caduta l’associazione a delinquere per Eddy, Maria, Marco e Dario!

“Non sussistono gli estremi del delitto ex art- 416 c.p., in quanto il gruppo “7 Novembre”, non può in alcun modo qualificarsi quale associazione finalizzata alla commissione di reati (ipotizzati dalla P.G.) ma costituisce espressione del diritto di associarsi liberamente costituzionalmente garantito, associazione, nella specie, finalizzata alla soluzione di problemi economico/sociali”
Queste la parole della Procura con cui ieri abbiamo appreso la notizia dell’annullamento del procedimento per associazione a delinquere ai danni di Eddy, Maria, Marco e Dario.
L’impianto della P.G. si fondava su una serie di episodi già separatamente denunciati, in occasioni di manifestazioni che avevano visto protagonisti diversi compagni e compagne desumendo l’esistenza di una struttura associativa finalizzata ad esercitare pressioni sulle istituzioni pubbliche al fine di conseguire l’accoglimento di richieste come assunzioni di disoccupati, assegnazione di alloggi pubblici, ristori ai commercianti individuando Eddy al vertice dell’organizzazione che aveva ampliato la platea di disoccupati (definiti proseliti aderenti al gruppo di lotta denominato “7 Novembre”) ai fini dell’attività ritenuta in prospettiva pericolosa per la gestione dell’ordine pubblico, in quanto i protagonisti con le varie iniziative rendevano difficoltosa la circolazione stradale, dei mezzi pubblici di trasporto ecc…
Innanzitutto un ringraziamento ai compagni/e che da subito collettivamente hanno messo in campo molteplici iniziative di solidarietà con cui provare a rispondere accuse.
Ringraziamo chi sta continuando ad esprimere solidarietà. Il nostro pensiero va ai tanti che invece continuano a pagare il prezzo della repressione che chiaramente anche per noi non finisce qui.
Era il giugno del 2021 quando i nostri legali ci informavano della indagine per associazione a delinquere in corso per alcuni/e protagonisti/e delle lotte per il lavoro e quelle territoriali.
Si Cobas Lavoratori Autorganizzati, movimento NoTav, attivist* ambientali di Ultima Generazione, portuali di Genova, movimento per il diritto all’abitare di Cosenza: l’utilizzo di questa fattispecie di reato viene utilizzata per provare a distruggere esperienze di lotta collettive, un monito chiaro per chiunque avverta la necessità di mobilitarsi in difesa del diritto ad un salario o per un miglioramento delle condizioni lavorative, contro le opere inutili e dannose e la devastazione ambientale, per il diritto all’abitare totalmente assente nell’Italia dei palazzinari e degli affitti alle stelle.
A Napoli poi, puntale come un orologio svizzero, l’associazione a delinquere viene stata utilizzata contro i disoccupati e le disoccupate. Un teorema accompagnato da una valanga di denunce, multe, fogli di via.
Dopo 10 anni di lotta instancabile in tanti e tante dentro al movimento si stanno domandando esattamente cosa dovrebbe fare chi, provenendo da quartieri popolari o periferici, sta provando ad emanciparsi dalla marginalità sociale e dalle reti facili della criminalità presenti in quegli stessi quartieri; cosa dovrebbe fare chi, in una città con tassi di disoccupazione storicamente altissimi, si attiva in prima persona per poter campare dignitosamente.
Molte disoccupate e disoccupati hanno conosciuto la realtà del carcere, con la sua violenza disumanizzante, e hanno deciso di mettersi in gioco.
Se ci fossimo arresi dinanzi alle mille difficoltà incontrate in questo lungo percorso, avremo finito per accettare la situazione la condizione per cui, chiunque nasca nei quartieri popolari o periferici, sia condannato ad una vita già scritta, imposta e non modificabile: se nasci a Rione Traiano o a Scampia, a Soccavo o nella Sanità, devi vivere nella povertà, mettere in conto che puoi finire carcerato, stare senza un lavoro, ringraziando pure quando lo trovi sfruttato e senza tutele. Devi campare in case fatiscenti e senza alcun diritto per i tuoi figli; devi accettare in silenzio tutto ciò, consolandoti magari con le fictrion che parlando dei problemi che vivi in prima persona o ascoltando le belle parole con cui le istituzioni dicono di voler combattere la marginalità, l’abbandono scolastico, le difficoltà dei quartieri più poveri senza poi dare risposte concrete a chi scende in piazza per ognuno di questi motivi.
Ma noi non ci siamo mai arresi: fin dalla sua nascita, questo movimento di disoccupati e disoccupate ha avuto il merito di denunciare come le molteplici emergenze che affliggono il territorio partenopeo- ambiente, rifiuti, messa in sicurezza delle aree a rischio idrogeologico e vulcanico, decoro urbano, tutela del patrimonio artistico, assistenza sociale e sanitaria, evasione scolastica- richiederebbero un vero e proprio piano straordinario di investimenti pubblici e di assunzioni finalizzate ad attività socialmente utili e necessarie e/o al ricambio degli organici attuali, in larga parte composto da lavoratori prossimi all’età pensionabile.
Gli stessi disoccupati e le disoccupate poi, si impegnano quotidianamente per sviluppare forme di solidarietà e di socialità senza scopo di lucro, in territori abbandonati al degrado ed alla speculazione.
La storia del Movimento “Disoccupati 7 Novembre” e del Cantiere 167 Scampia è la storia di una lotta condotta da sempre alla luce del sole e senza “scheletri nell’armadio”. Essa è diventata un presidio di democrazia diretta per l’accesso al lavoro, uno spazio di crescita per molti disoccupati e molte disoccupate e per chi ha sempre vissuto combattendo contro la miseria, in una città che ha fatto del clientelismo, del mercimonio e del voto di scambio le uniche vie per ottenere un’occupazione stabile.
Ogni incontro istituzionale, ogni momento di piazza, ogni proposta, è stato discusso/ragionato/comunicato collettivamente in assemblee, dibattiti, aggiornamenti, pubblici e interni al movimento.
Abbiamo dimostrato che è possibile costruire un’alternativa alla violenza, all’isolamento, alla precarietà, ai destini segnati di migliaia di senza-lavoro ed è questo che fa tremendamente paura alle istituzioni: il fatto che gli sfruttati e le sfruttate stiano provando ad organizzarsi a più livelli e in maniera sempre più convinta non fa dormire sonni tranquilli ai padroni la cui unica esigenza diventa quella di prevenire e poi reprimere ogni tentativo di lotta che metta in discussione questo sistema sociale ed economico.
Per evitare che ciò possa accadere stato e sfruttatori ricorrono ai tanti strumenti repressivi in loro possesso e affinati nel corso di decenni di controrivoluzione, colpendo soprattutto le avanguardie di lotta più combattive e centinaia di proletari e proletarie che si sono stancati/e di subire in silenzio un destino scritto da qualcun altro. C’è ancora tanta strada da fare ne siamo ben consapevoli.
Viviamo nell’epoca storica scandita dalla guerra imperialista, dal disastro ambientale, dallo sviluppo capitalistico che moltiplica le sue contraddizioni economiche, sociali e politiche, dalla precarietà delle nostre vite, dall’imbarbarimento sociale.
Non è più tempo per la rassegnazione: uniamo le forze e facciamo sentire la nostra voce.
Per rispondere agli ultimi attacchi repressivi che stiamo subendo, Laboratorio Politico Iskra e SI Cobas Napoli hanno preparato un nuovo appello di solidarietà.
Per chiunque lo volesse sottoscrivere può inviare la propria adesione a questi indirizzi :
– Alle pagine fb “Laboratorio Politico Iskra” e “Si cobas Napoli”
– Alla pagina Instagram “Laboratorio politico Iskra”
– Inviando una mail all’indirizzo di posta elettronica “mov7nov@gmail.com”
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona, folla e il seguente testo "L'ASSOCIAZIONE DENWOUED L'ASSOCIAZIONE A A DELINQUERE L'ASSOCIAZIONE A DELINQUERE"

Dal presidio di ieri al carcere dell’Aquila. Info SRP

 

Un presidio non molto numeroso da un punto di vista numerico, ma combattivo, determinato e importante da un punto di vista qualitativo, si è svolto ieri davanti al carcere dell’Aquila, “emblema” del regime di tortura bianca del 41 bis e l’unico ad avere anche una sezione femminile in cui è reclusa, già da 18 anni, la prigioniera comunista Nadia Lioce.

Al presidio erano presenti una quarantina di compagne e compagni, provenienti principalmente da Roma e da varie realtà abruzzesi, soprattutto anarchiche; c’è stato un collegamento con Radio Onda Rossa in staffetta radiofonica con altre radio indipendenti.

Due ragazze, per la prima volta di fronte a un carcere di massima sicurezza, sono rimaste colpite, nonostante ne avessero sentito parlare, vedendo i pannelli in plexiglass, oltre le sbarre, ad impedire la vista del cielo. Ma da quei pannelli qualcuno è riuscito a sventolare qualcosa in segno di saluto.

Alla musica si sono alternati vari interventi al microfono da parte delle compagne di ROR, Cassa di solidarietà La Lima, Soccorso rosso proletario-MFPR, e di un compagno del Soccorso Rosso Internazionale.

E’ stata ripercorsa la lotta contro il 41 bis, il carcere tortura e assassino, sin da metà degli anni 2000, con la manifestazione a L’Aquila del 2007, la campagna “pagine contro la tortura”, la protesta di Nadia Lioce contro le vessazioni continue di questo regime, lo sciopero della fame delle compagne anarchiche recluse nella sezione AS2 dell’Aquila, dove di fatto vigeva il regime di 41 bis, e le battiture di solidarietà che ne seguirono e che, insieme ai presidi fuori di quel carcere, portarono alla chiusura di quella sezione.
Una lotta che è proseguita e si è estesa alla denuncia di tutto il sistema carcerario, della repressione e il razzismo istituzionale con la strage del marzo 2020, le torture e i pestaggi dei detenuti in rivolta.
Una lotta a cui lo sciopero della fame di 182 giorni di Alfredo Cospito ha dato maggior respiro, estendendola su tutti i fronti, rendendola popolare e internazionale, facendola conoscere e fare propria da ampi settori di movimento, da quello degli studenti delle scuole e delle Università, a quello dei lavoratori, delle donne, degli immigrati, fino ad arrivare ad infrangere il tabù persino all’interno delle istituzioni e dei media. Una lotta che ha aperto una breccia nella cappa di silenzio intorno agli abomini repressivi del 41 bis e dell’ergastolo ostativo che non si richiuderà, soprattutto ora, con una guerra esterna molto vicina e una guerra interna con cui questo governo fascista promette di governare la crisi, reprimendo ogni forma di dissenso.
Se la lotta di Alfredo ha ottenuto, sul piano giuridico, dei piccoli ma importanti risultati, dopo i quali ha interrotto lo sciopero della fame, a livello sociale e di opinione pubblica ha ottenuto una vittoria ancora più importante, denunciando la mostruosità del regime di 41 bis e dell’ergastolo ostativo, facendo emergere con forza la vera finalità di questi strumenti repressivi: avere in mano un forte deterrente contro le resistenze, le opposizioni sociali e politiche.
Ma il 41 bis e l’ergastolo ostativo sono finalmente diventati obiettivi da abbattere grazie anche alla solidarietà, alle azioni e alla lotta di tanti compagni e compagne che sono stati al suo fianco. Questa lotta deve ora proseguire fino al raggiungimento degli obiettivi, estendendola a tutte e tutti i prigionieri politici richiusi nelle galere, facendo crescere la consapevolezza che per una vera liberazione sociale non ci sono altre strade da percorrere se non quella della solidarietà di classe e della lotta rivoluzionaria. E il presidio di ieri a L’Aquila è stato una tappa di questo percorso.
E’ stato ricordato più volte come tanti giovani e giovanissimi hanno animato ed animano questo movimento di solidarietà, il suo carattere internazionale e internazionalista, la mobilitazione ampia di altri prigionieri politici e comuni, come sia entrato anche nelle lotte dei lavoratori. In particolare il Soccorso Rosso Internazionale ha citato una lotta dei lavoratori della logistica a Modena, che hanno messo, tra i punti di rivendicazione dello sciopero, l’uscita di Alfredo Cospito dal 41 bis.
Il Soccorso rosso proletario è tornato sulla natura aberrante del 41 bis, una forma di tortura, perché non può definirsi altrimenti un regime che sopprime il più elementare diritto, quello della parola, di esplicazione di un pensiero, una violenza della stessa natura umana. E la sua applicazione ai detenuti politici rivoluzionari ne disvela sempre più la sua reale funzione, quella di una misura massima che grava su tutto l’apparato repressivo e si estende a cascata, come una minaccia che incombe sempre più verso l’esterno. Un esterno di cui si vuole impedire anche la manifestazione del pensiero antagonista, del dissenso, perché da questo può nascere una scintilla che brucerà la prateria, e di questo ha paura lo Stato borghese. Il suo timore, ora come ora, non è tanto e non è solo del collegamento dei detenuti con le manifestazioni esterne e di un loro presunto ruolo di “incitatori” della lotta sociale e politica – questa, per dirla con Cospito, ha ben altri “istigatori”, e la Francia, ancora oggi, lo dimostra – quanto piuttosto l’inverso: il collegamento dell’esterno con l’interno.
Un collegamento innescato dalla lotta di Alfredo e che la solidarietà di classe ha reso possibile, portando la denuncia e la lotta nelle piazze, nelle Università, nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nelle assemblee, facendo crescere la consapevolezza di ciò che rappresenta e ciò che è in gioco con il regime del 41 bis, come testimonia la lettera di un operaio dell’ex Ilva di Taranto ad Alfredo Cospito,  di cui è stata data lettura a conclusione dell’intervento.

Contro la repressione del governo Meloni, contro ogni discriminazione, contro la guerra… street parade ieri sera a Palermo

 PALERMO STREET PARADE CONTRO LA REPRESSIONE  22 aprile

Una partecipata parata con carri, musica e slogans promossa da centri sociali e altre organizzazioni sociali e militanti si è snodata lungo il centro storico di Palermo ieri sera contro il governo della repressione, il governo omofobo, razzista e guerrafondaio di Giorgia Meloni e i suoi ministri.
Contro le politiche guerrafondaie e di aumento delle spese militari propugnate da Crosetto e Salvini, per reclamare il diritto alla casa, al reddito, alla salute di tutti e tutte.

La parata, partita da piazza Sant’Anna, animata da diversi carri con striscioni, musica e slogan, è arrivata fino al tribunale, “simbolo del potere giudiziario e dell’utilizzo di misure sempre più punitive per colpire il dissenso sociale… per la riappropriazione della propria città e delle proprie strade – simbolicamente – contro abusi di potere e metodi repressivi dal decreto anti rave, agli sgomberi coatti in città, fino all’utilizzo improprio della repressione per la risoluzione delle emergenze sociali, relegate a materia di ordine pubblico”.
Sanzionata la Banca d’Italia con uova di vernice, in uno striscione “Insorgiamo! Cambia il sistema non il clima” per protestare contro i finanziamenti al fossile e la speculazione sull’ambiente.

Le nuove Brigate Rosse non esistono più ma Lioce, Morandi e Mezzasalma restano al 41bis

Vendette di Stato. Comminare il carcere duro anche a coloro le cui organizzazioni di appartenenza siano state sgominate o siano inesistenti è un controsenso in termini di legge. È la condizione che vivono Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi. Subiscono questo trattamento dal 2003

di David Romoli

Sulla carta il regime di carcere duro ai sensi dell’art. 41 bis serve a impedire contatti tra i boss detenuti con le loro organizzazioni criminali. Per considerare “boss” tutti i 728 detenuti in regime di carcere duro bisogna interpretare il termine in modo un bel po’ estensivo ma tant’è. Secondo logica, dunque, l’esistenza di dette organizzazioni dovrebbe essere condizione imprescindibile per dispensare le delizie del 41 bis. Anche qualora dalla carta si passi alla sostanza, in soldoni all’uso del massimo rigore carcerario come forma di pressione, o meglio di tortura, al fine di estorcere “pentimenti”, cioè denunce, il discorso non cambia. Per denunciare i complici bisogna che quelli esistano.

Comminare il 41 bis a detenuti le cui organizzazioni di appartenenza siano state nel frattempo sgominate e non esistano più da lustri è di conseguenza un controsenso anche in termini di legge. Il carcere duro si configura in questi casi neppure più come forma di tortura finalizzata a un obiettivo ma come pura e semplice persecuzione. Una persecuzione alla quale i sepolti vivi in questione non hanno alcun modo per sottrarsi.

È precisamente la situazione assurda in cui si trovano Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi, i militanti delle Nuove Brigate Rosse condannati per gli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi, il 20 maggio 1999 e il 19 marzo 2002, e del sovrintendente di polizia Emanuele Petri, ucciso il 2 marzo 2003 in un uno scontro a fuoco sul treno Roma-Firenze in cui perse la vita anche il brigatista Mario Galesi e fu arrestata Nadia Lioce. Gli altri componenti del gruppo, tra cui Mezzasalma e Morandi, vennero arrestati il 24 ottobre dello stesso anno. Da allora sono sempre stati sottoposti al 41 bis.

Un’altra militante delle Nuove Br, Diana Blefari Melazzi, fu arrestata il 22 dicembre 2003 e condannata in primo e secondo grado all’ergastolo. La sua salute mentale non resse al carcere duro, tanto che la Cassazione annullò la sentenza chiedendo che venisse verificata la sua condizione psichiatrica. Fu diagnosticata una condizione di stress post traumatico dovuto alla detenzione col 41 bis ma, nonostante le sue condizioni fossero ulteriormente peggiorate, il 27 ottobre 2009 la condanna fu confermata.

I giudici considerarono “i suoi atteggiamenti apparentemente paranoici come il rifiuto del cibo” come una “reazione coerente al suo modo di porsi e conseguenza di un forte impatto dell’ideologia Br sulla sua personalità”. Diana Blefari Melazzi si impiccò tre giorni dopo la sentenza.

Dal 2003 , Lioce, Mezzasalma e Morandi, tutti condannati a diversi ergastoli per i tre omicidi delle Nuove Br, non sono mai usciti dal regime di 41 bis. Una settimana fa la Cassazione ha respinto il ricorso di Nadia Lioce per la decisione del Tribunale di sorveglianza di non consegnarle una lettera. Secondo la Cassazione il Tribunale di Sorveglianza ha solo “bilanciato i diritti della detenuta in regime speciale con la necessità di tutelare l’ordine pubblico”. Non che sia una novità: sia il Tribunale di Sorveglianza che la Cassazione hanno sempre respinto i ricorsi della brigatista anche se dell’organizzazione con cui non dovrebbe comunicare non c’è traccia dal 25 settembre 2006, data di un fallito attentato contro la caserma della Folgore a Livorno. È significativo che i responsabili di quel attentato siano stati accusati di “cospirazione politica mediante accordo” e non di banda armata. La banda armata nel 2006 non c’era già più. Inutili però ricorsi e proteste, e Nadia Lioce è stata una delle prime a protestare rumorosamente contro il 41 bis, con una prolungata battitura delle sbarre che le è costata un ennesimo processo, nel quale però è stata assolta. La risposta a ogni richiesta di tornare alle normali condizioni di detenzione è stata sempre negativa.

Che le Br, vecchie o nuove, esistano o no non importa. Nel respingere il ricorso contro l’ultima proroga biennale del 41 bis decisa dal ministero della Giustizia il 5 settembre 2019 e già respinto dal Tribunale di Sorveglianza, la prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Monica Boni, confermava nel maggio dell’anno scorso “l’approdo ormai pacifico della giurisprudenza costituzionale” secondo cui il 41bis mira a impedire i collegamenti con i membri delle organizzazioni criminali in libertà. Specificando però che si tratta di “un accertamento prognostico” finalizzato alla prevenzione. Pertanto che l’organizzazione criminale esista o meno è secondario, perché il fatto che non ci sia oggi non esclude che possa ricostituirsi domani. “Il mero decorso del tempo non costituisce elemento sufficiente a escludere o attenuare il pericolo di collegamenti con l’esterno”, scrivevano infatti i giudici. Neppure incide il fatto che l’organizzazione sia palesemente inesistente. Bisogna infatti evitare i contatti dei tre detenuti anche in assenza “di pieno accertamento della condizione di affiliato”.

Lioce, Mezzasalma e Morandi hanno passato in carcere a tempo pieno, senza permessi o misure alternative e anzi in regime di massimo isolamento, più decenni della stragrande maggioranza degli ex terroristi, inclusi i vecchi capi delle Br e dei Nar, mai formalmente dissociatisi. Quegli ex terroristi, pur senza dissociazione, avevano però dichiarato chiusa l’esperienza armata. Ma anche considerando gli irriducibili non solo di nome, come i capi delle Br-Partito guerriglia, la differenza di trattamento è evidente. Natalia Ligas, arrestata nel 1982, fu spedita al carcere duro in condizioni di estremo rigore a Messina nel 1992. Quattro anni dopo a protestare contro quell’isolamento furono il magistrato Ferdinando Imposimato e il giurista futuro sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Nel 1998 le furono concessi i primi permessi e due anni dopo le misure alternative alla detenzione. Giovanni Senzani, leader delle Br-Partito guerriglia, ottenne la semilibertà nel gennaio 1999, a 17 anni dall’arresto. Erano tempi più civili. Lo stesso Imposimato, a lotta armata sconfitta, si diceva stupito per “i trattamenti differenziati, oggi, tra politici dissociati e irriducibili”. Le cose sono cambiate: se tre persone vengono sepolte vive senza alcun motivo ragionevole non se ne stupisce più nessuno.

Peggio: non se ne accorge più nessuno.

da il Riformista