Escalation di violenze poliziesche sui migranti in mare, arresti e deportazioni di massa.

Iniziano a vedersi i primi effetti della visita della Meloni in Tunisia e del nuovo accordo con la Libia

Da Alarm Phone:

Escalation della violenza al confine in Sfax, Tunisia!

Abbiamo ricevuto segnalazioni secondo cui forze tunisine mascherate stanno picchiando violentemente i migranti dopo averli intercettati in mare. Un testimone ha riferito: “Stanno usando bastoni e scosse elettriche. La gente grida aiuto”.

Da la Repubblica:

“Fermatevi, moriamo”: le bastonate ai profughi dei guardacoste tunisini

I video pubblicati dai migranti testimoniano le violenze in mare degli agenti agli ordini del presidente Kais Saied

Manganelli, bastoni, mezzi marinai usati come randelli. E poi le voci concitate, le urla di terrore sul barchino stracarico di gente che si stringe alle vecchie camere d’aria usate come artigianale giubbotto di salvataggio. “Fermatevi, fermatevi ci fate ribaltare”. Ma il militare sul gommone della Garde nationale tunisina continua a picchiare.

Da il manifesto:

L’Onu: «In Libia migliaia di arresti»

Le autorità libiche hanno arrestato migliaia di uomini, donne e bambini nelle strade o case oppure in seguito a raid in campi e magazzini di presunti trafficanti», denuncia la missione di supporto in Libia delle Nazioni Unite. L’Unsmil, questa la sigla, esprime preoccupazione per quanto sta avvenendo e parla apertamente di «campagna di arresti arbitrari e deportazioni accompagnata da un inquietante aumento dell’incitamento all’odio razzista contro gli stranieri». La missione Onu chiede alle autorità di fermare queste azioni, trattare i migranti con dignità e garantire l’accesso a Nazioni Unite e Ong nei centri di detenzione.

Tutti e tutte alla manifestazione nazionale di Parigi per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah – 18 giugno Parigi

A Parigi dall’Italia per George Ibrahim Abdallah il 17 e 18 giugno – iniziative in Italia a Milano e Taranto 19 giugno info srpitalia@gmail.

L’appello

La campagna unitaria per la liberazione di Georges Abdallah prevede una massiccia manifestazione il 18 giugno a Parigi. Nell’appello è anche sottolineata la necessità di campagne di solidarietà nazionali e internazionali per liberare il palestinese rivoluzionario, imprigionato da 39 anni.Unisciti alla manifestazione nazionale per la liberazione di Georges Abdallah! Métro Ménilmontat, Parigi, domenica 18 giugno alle 14:00.

Il 18 giugno, alla vigilia della Giornata Internazionale dei Prigionieri Rivoluzionari, convochiamo un’altra grande manifestazione cittadina per la liberazione di uno dei nostri prigionieri: Georges Abdallah, da sempre un combattente per una Palestina libera dall’occupazione sionista, un rivoluzionario il cui sostegno alle lotte dei popoli contro l’imperialismo, il capitalismo, il fascismo e tutte le forme di reazione resta incrollabile.

Georges Abdallah è parte della nostra lotta e noi siamo parte della sua lotta: oggi non passa una sola manifestazione senza che l’effigie del nostro compagno, e attraverso di lui la sua lotta, sia presente negli stendardi e nei cartelli mostrati, negli slogan scanditi, nei volantini distribuiti e nelle dichiarazioni rilasciate.

Il movimento di solidarietà a suo favore, di rispetto per il suo impegno e la sua resistenza, di sostegno alla sua visione del mondo, e di rabbia per l’ergastolo che sconta da 39 anni, continua a crescere giorno dopo giorno.

Georges Abdallah fa parte della nostra lotta, e la nostra determinazione è che venga liberato. Questa determinazione di tutti quelli che sostengono il nostro compagno e la sua liberazione non può rimanere isolata qua e là. Dobbiamo anche mostrarlo e farlo vedere e sentire alle grandi manifestazioni incentrandosi esclusivamente sulla richiesta della liberazione del nostro compagno, e a unire tutte le forze presenti per sostenerlo, perché come dice Georges Abdallah in ogni sua dichiarazione: “Conoscere che siate uniti mi dà una grande forza e mi scalda il cuore. Chiunque siano coloro che guardano e spiano questo incontro possono pensare che non importa, invece il calore della vostra mobilitazione e l’entusiasmo del vostro impegno attraversano questi muri abominevoli, questi fili spinati e torri di guardia, trafiggono la morte quotidiana delle celle e ci danno una scorcio di vittoria all’orizzonte”.

Per dire forte e chiaro, davanti allo Stato francese e al mondo, la nostra ferma determinazione a salvare il nostro compagno dalle grinfie del nemico, per manifestare la nostra fattiva solidarietà a quanti sono stati imprigionati per tanti anni, per mostrare la “risposta sferzante a chi scommetteva sull’esaurimento della vostra mobilitazione”, che sta certamente avvenendo a Lannemezan – e il 22 ottobre ha dimostrato questa amplificazione del sostegno da parte di tutti i presenti – ma altri eventi importanti possono anche fare di questa determinazione, una parte dell’agenda delle nostre lotte.

La manifestazione nazionale di Parigi, organizzata dal 2016, è uno dei tanti focolai da creare a livello nazionale e internazionale, ed è in questa prospettiva che ci rivolgiamo a tutti coloro che sono coinvolti nel sostenere Georges Abdallah, a moltiplicare le iniziative durante la settimana d’azione dal 12 al 19 giugno e ad essere presente a Parigi il 18 giugno 2023, al grido di “Georges Abdallah, i tuoi compagni sono qui!”.

“Certamente, oggi come ieri, la liberazione dei prigionieri rivoluzionari è un dovere prioritario (…) Siamo, compagni, viviamo all’altezza di questo dovere” (Georges Abdallah).

Parigi, 21 maggio 2023

Campagna Unitaria per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah

Contatti: campagne.unitaire.gabdallah@gmail.com

Facebook: pour la libération de Georges Abdallah

Instagram: cuplgia

Twitter: CUpLGIAPrst

Campagne Unitaire pour la libération de Georges Abdallah

Collectif pour la Libération de Georges Ibrahim Abdallah

Le CRI Rouge pour la défense des prisonniers révolutionnaires

Comité d’actions et de soutien aux luttes du peuple marocain

Secours Rouge arabe

Association Nationale des Communistes (A.N.C)

UL CGT Paris 18e

CGT énergie

Cercle Manouchian

The Party of Communists USA (PCUSA)

Ligue de la Jeunesse Révolutionnaire

League of Young Communists USA (LYCUSA)

American Student Union (ASU)

Movement for People’s Democracy

Asso Terre et Liberté pour Arauco – Wallmapu

Le média Paroles d’honneur

Droits devant

Front Anti-impérialiste

CAPJPO-EuroPalestine

Collectif 65 pour la libération de Georges Ibrahim Abdallah (Collectif 65 GIA)

Comité Poitevin Palestine

Soccorso Rosso Proletario (Italia)

Bureau d’information Alba Granada North Africa (Tunis)

Collectif pour la Libération de Georges Abdallah 74 (CLGA 74)

Union syndicale Solidaires

Union Prolétarienne Marxiste-Léniniste (UPML)

Coordination internationale des partis et organisations révolutionnaires (ICOR)

La Cause du Peuple

Les Jeunes Révolutionnaires

Union locale CGT Annecy-Rumilly

Collectif Palestine Vaincra

Nouvelle Epoque

Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA)

Rete dei Comunisti (Italie)

Front Uni des immigrations et des quartiers populaires (FUIQP)

Parti des Travailleurs de Turquie (DIP)

Les Amis de la Palestine contre l’impérialisme et le sionisme

Réseau international de soutien aux prisonniers politiques au Chili (RIAPPECH)

Collectif 69 de soutien au peuple palestinien

La Fosse aux Lyons

Compagnie Jolie Môme

Alliance Palestine Hambourg

Pôle de Renaissance communiste en France (PRCF)

Collectif de soutien à la résistance palestinienne (CSRP59)

Comité solidarité Georges Abdallah (Lille)

Comité tunisien de solidarité pour la libération de Georges Ibrahim Abdallah

Parti des Indigènes de la République (PIR)

OCML Voie Prolétarienne

Secours Rouge International Madrid (SRI Madrid)

Secours Rouge International Belgique (SRI Belgique)

Collectif “Bassin minier” pour la libération de Georges Ibrahim Abdallah

Campagne nationale pour la Libération de Georges Abdallah (Liban)

Association Médicale Franco-Palestinienne (A.M.F.P) Aubagne

Samidoun Paris Banlieue

Révolution Permanente

Union Juive Française pour la Paix (UJFP)

GRUP YORUM INTERNATIONAL

Fédération syndicale étudiante (FSE)

Parti Communiste Révolutionnaire de France (PCRF

Ultima generazione: condanna in primo grado per l’incollamento ai musei vaticani

Da Osservatorio Repressione

I giudici vaticani del Tribunale di Prima Istanza hanno condannato Ester e Guido a 9 mesi, con pena sospesa e una multa di 1.620€. Ultima Generazione presenterà ricorso alla Corte di Appello contro questa sentenza spropositata e ingiusta.

di Ultima Generazione

Ieri, lunedì 12 giugno alle 14:30 si è tenuta in Vaticano la terza udienza del processo nei confronti di Guido ed Ester, i due cittadini aderenti a Ultima Generazione che la scorsa estate si sono incollati al basamento della statua di Laocoonte presso i Musei Vaticani, e di Laura, che era di supporto per documentare con un video (alla quale è stato preso il cellulare, da cui sono stati cancellati tutti i contenuti prima della restituzione). I giudici vaticani del Tribunale di Prima Istanza hanno condannato Ester e Guido a 9 mesi, con pena sospesa e una multa di 1.620€. A questo è stato aggiunto il risarcimento del danno di oltre 28.000 €. A Laura è toccata invece un’ammenda di 120 euro per il reato di trasgressione “a un ordine legalmente dato dall’autorità competente”. Ultima Generazione presenterà ricorso alla Corte di Appello contro la sentenza di oggi.

IL COMMENTO DI ULTIMA GENERAZIONE

Il Vaticano, una delle ultime monarchie assolute del mondo, dimostra tutta la propria ipocrisia con questa pena. È spropositata e assurda una condanna a nove mesi di carcere per due persone che hanno semplicemente voluto accendere i riflettori su quello che il Papa scrive e predica, più di 3. 000 euro di multa in totale, una richiesta di 28.000 euro di danni per poche gocce di colla su un blocco di marmo messo sotto i piedi del Laocoonte nel 1815. Vorremmo sentire ora la voce del mondo cattolico, quello che non si è nemmeno presentato al presidio a sostegno di Ultima Generazione, per capire se oltre alle parole c’è qualche intenzione concreta.

Nella prima udienza, convocata per il 9 marzo scorsole tre persone coinvolte hanno deciso di non presentarsi mentre, nell’udienza del 24 maggio scorso, sono stati ascoltati Ester e Guido sui fatti di agosto, gli avvocati difensori e i testimoni oculari: un responsabile dei restauratori vaticani, un gendarme e una guardia museale.

CENTO AVVOCATI CONTRO LA CRIMINALIZZAZIONE DI CHI MANIFESTA PER L’AMBIENTE

A favore di Ultima Generazione si sono schierati oltre 100 avvocati, che hanno sottoscritto un appello contro la criminalizzazione di chi manifesta per denunciare la crisi ecoclimatica. Questo atto significativo avviene in seguito alla decisione della procura di Padova di indagare 5 persone della coalizione con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti di interruzione di pubblico servizio, di deturpamento e contro la libera circolazione stradale. Una scelta che arriva a meno di un anno dall’introduzione del reato di danneggiamento di beni culturali.

LA RICOSTRUZIONE DEI FATTI 

Erano le 10:30 del 18 agosto 2022 quando Guido ed Ester hanno incollato le proprie mani al basamento della statua di Laocoonte all’interno dei Musei Vaticani per lanciare l’allarme sull’emergenza climatica e sui rischi che comporta per l’umanità intera. Dopo pochi minuti dall’inizio dell’azione, l’intera sezione del museo è stata evacuata e alle persone presenti in supporto agli attivisti è stato sequestrato il cellulare, unico strumento capace di garantire che il processo si svolga in totale sicurezza.

Sono Guido e ho 61 anni. Ho partecipato all’iniziativa di Ultima Generazione perché da anni vedo un mondo in rovina a causa dell’insaziabile avidità umana, che vede nel mondo solo una risorsa da sfruttare senza limiti. L’economia estrattivista, in nome di una illusoria crescita infinita, sta portando al collasso ecologico e climatico. La nostra casa è in grave pericolo e il genere umano con essa. La scissione tra uomo e natura ha fatto sì che non ci siano limiti, neanche morali, allo sfruttamento, oltre che dell’uomo sull’uomo anche dell’uomo sulla natura. Se non capiamo questo possiamo credere di poter fare come nulla fosse, ed è quello che stanno facendo i governi, che attuano politiche energetiche e ambientali suicide tra le quali il sovvenzionamento dei combustibili fossili” spiega Guido, uno dei tre imputati.

LE NOSTRE AZIONI ED I NOSTRI CORPI COERENTI CON IL GRIDO DI PAPA FRANCESCO

“Alziamo la voce per fermare questa ingiustizia verso i poveri e verso i nostri figli, che subiranno gli impatti peggiori del cambiamento climatico. Faccio appello a tutte le persone di buona volontà affinché agiscano in base a questi orientamenti sulla società e sulla natura”. Questo l’appello che il Pontefice ha rinnovato nel recente messaggio pubblicato il 13 maggio in occasione della prossima “Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato”, il 1 settembre.

La nostra richiesta per l’interruzione immediata dell’enorme flusso di denaro pubblico dai combustibili fossili (41,8 miliardi nel 2021 in Italia) è lo stesso tema di molte organizzazioni cattoliche, parrocchie e Chiese che in Italia e nel Mondo, che hanno intrapreso da mesi la scelta di disinvestire dal fossile (https://laudatosimovement.org/divestment/), tra cui già oltre 15 tra Diocesi e Parrocchie italiane. Da mesi, i nostri corpi sono il solo strumento che in maniera nonviolenta abbiamo scelto utilizzare per richiamare alle loro responsabilità la politica ed il Governo italiano che, insieme alle Istituzioni internazionali, come scrive Papa Francesco nel Messaggio del 23 maggio “devono ascoltare la scienza e iniziare una transizione rapida ed equa per porre fine all’era dei combustibili fossili. Secondo gli impegni dell’Accordo di Parigi per frenare il rischio del riscaldamento globale, è un controsenso consentire la continua esplorazione ed espansione delle infrastrutture per i combustibili fossili”.

Anche alla luce dell’evoluzione del processo di oggi, però il clima repressivo a danno delle persone che resistono all’approccio scellerato dei governi nel fronteggiare la crisi sociale e eco-climatica in atto, non sembra provenire soltanto dal Governo Meloni. L’accanimento della Città del Vaticano nei confronti degli attivisti climatici è senza dubbio una sorpresa per i cittadini e le cittadine di Ultima Generazioneche comunque continuano a riconoscere nel ruolo di Papa Francesco una delle voci più coraggiose e fuori dal coro per quanto riguarda la sensibilizzazione delle persone rispetto all’emergenza climatica.

La polizia italiana e gli aguzzini carcerieri sono vigliacchi in divisa, da Verona a Poggioreale

Napoli: Detenuto massacrato di botte nel carcere di Poggioreale

Aniello Arvonio è ricoperto di lividi e ha i denti spaccati: riscontrato un versamento alla milza.

Da Osservatorio repressione

“Nostro fratello Aniello è uscito di casa con le sue gambe e non aveva problemi fisici, adesso è in un letto d’ospedale ricoperto di lividi, con i denti spaccati e il volto tumefatto. Trovate il colpevole”.


da Il Mattino

Hanno salutato il fratello il 2 giugno, lo stavano portando a Poggioreale per una breve detenzione di sei mesi, quattro giorni dopo hanno ricevuto una chiamata dai carabinieri: “È in ospedale, al Cardarelli, per un problema cardiaco”. Quando sono riusciti a raggiungerlo in ospedale hanno scoperto che era stato massacrato di botte, aveva ferite e lividi su ogni parte del corpo, e non era nemmeno in grado di parlare.

Antonietta e Giuseppe Arvonio sono immediatamente andati alla Procura della Repubblica per denunciare l’accaduto: nostro fratello Aniello è uscito di casa con le sue gambe e non aveva problemi fisici, adesso è in un letto d’ospedale ricoperto di lividi, con i denti spaccati e il volto tumefatto. Trovate il colpevole”.

La vicenda viene raccontata a due voci proprio da Antonietta e Giuseppe che vivono con angoscia queste drammatiche ore. È una famiglia di persone perbene che non ha mai avuto nulla a che fare con tribunali e carcere, come in tante famiglie anche nella loro casa s’è presentato il demone dell’alcolismo che ha aggredito il fratello Aniello. Qualche tempo fa, in preda all’alcol, Aniello ha commesso una sciocchezza, s’è avventato contro un uomo in divisa: “E per quel gesto è stato giustamente processato e condannato”, dicono con lealtà i fratelli.

Alle difficoltà della quotidiana lotta con l’alcolismo di Aniello, s’è aggiunta, di recente, anche una battaglia decisamente più dura, quella contro un tumore che ha aggredito la mamma dei tre fratelli. Quando il magistrato ha comunicato che i sei mesi di detenzione di Aniello potevano essere scontati ai domiciliari, in casa hanno pensato che sarebbe stato troppo difficile gestire la situazione: così Aniello è stato condotto a Poggioreale. “Dal giorno in cui ci siamo salutati non abbiamo saputo più nulla. Solo la laconica chiamata dei carabinieri che ci avvisava del ricovero”, dice Antonietta.

Non avvezzi alle questioni carcerarie, i fratelli Arvonio si sono mossi a tentoni. Il primo istinto è stato quello di raggiungere l’ospedale dove è stato possibile parlare con la dottoressa di turno: “Mi ha detto che mio fratello è giunto in ospedale in stato confusionale e con una spiccata tachicardia. Era quello che mi aspettavo – dice Antonietta – poi la dottoressa mi ha anche chiarito che Aniello aveva il corpo ricoperto di lividi e che gli è stato riscontrato un versamento alla milza che potrebbe anche richiedere un intervento chirurgico”.

Alla donna è caduto il mondo addosso, è rimasta in ospedale finché non ha potuto incontrare, fortuitamente, il fratello che veniva trasportato dalla sezione detentiva del nosocomio verso le sale per gli esami specialistici: “Ho visto mio fratello, aveva entrambe le sopracciglia spaccate, con punti di sutura per chiudere le ferite. Gli occhi erano tumefatti e aveva un vistoso ematoma sulla destra del volto. Le labbra erano spaccate e aveva un dente spezzato – sono stata presa dalla disperazione, ho sollevato il lenzuolo che lo copriva e ho visto le braccia e le gambe completamente ricoperte da lividi”.

La sorella non ha potuto parlare con Aniello perché l’uomo non è ancora in grado di parlare, “è come se fosse in uno stato precomatoso”, dicono i parenti che aspettano di sapere dalla viva voce del detenuto cosa è accaduto all’interno del carcere. La questione è finita anche all’attenzione del garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, il quale è stato in ospedale a visitare tutti i detenuti che sono ricoverati e ha avuto modo di incontrare anche Aniello: “Raramente ho visto una persona ridotta in quello stato – dice Ciambriello – ho tentato anche di chiedergli cosa fosse accaduto ma lui non era in grado di parlare.

Comunque presto incontrerò la famiglia (incontro previsto per oggi ndr) che merita tutto il sostegno in questa vicenda della quale bisognerà chiarire, al più presto, tutti i contorni”. Sulla questione il direttore di Poggioreale, Carlo Berdini, ha spiega di aver saputo che c’è attenzione da parte della Procura “ovviamente vogliamo anche noi che ci sia piena chiarezza e siamo a disposizione”, ha chiosato, laconico.

Dalla pagina fb del garante dei detenuti-Campania:

Nel 2022 sono arrivate agli uffici di Sorveglianza italiani 7.643 istanze di risarcimento per trattamenti inumani e degradanti. E di queste,  4.514 sono state accolte. In sostanza, l’Italia viene sistematicamente condannata, dai suoi stessi tribunali, per violazione dell’art. 3 della CEDU, quello che  tutela il diritto di ciascun individuo a non subire una violazione dell’integrità fisica e psichica -a causa di tortura o trattamento o pena disumana o degradante

Senegal. Morti e feriti nelle proteste, la deriva autoritaria di Macky Sall

SENEGAL – Morti e feriti nelle proteste, la deriva autoritaria di Macky Sall

Domenica a Genova centinaia di senegalesi sono scesi in piazza per protestare contro la violenta repressione del governo del Senegal contro l’opposizione. La situazione nel paese, dopo l’arresto del leader dell’opposizione Ousmane Sonko, continua ad essere esplosiva. Pubblichiamo qui di seguito un interessante articolo di Valeria Cagnazzo da Pagine Esteri che ricostruisce bene la situazione in Senegal.

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Senegal. Morti e feriti nelle proteste, la deriva autoritaria di Macky Sall

di Valeria Cagnazzo

E’ solo apparente la calma che regna nelle ultime ore in Senegal, a una settimana dagli scontri che hanno infiammato le strade di Dakar e delle più importanti città del Paese provocando morti, almeno 390 feriti e decine di arresti.

Secondo le fonti ufficiali del governo, le vittime delle rivolte di inizio giugno sarebbero 16, almeno 19 secondo l’opposizione, e Amnesty International parla addirittura di 23 persone uccise.

Adesso che i roghi di pneumatici sono spenti e la rabbia dei più giovani è momentaneamente arginata, è

tempo di fare i conti con il sangue versato in questi giorni in una violenza senza precedenti per un Paese baluardo di stabilità nel continente e dalla lunga tradizione democratica. Basterebbe poco, d’altronde, come una dichiarazione del Presidente Macky Sall, per far esplodere di nuovo gli scontri.

Le proteste erano scoppiate l’1 giugno scorso, quando il tribunale di Dakar aveva emesso la sua condanna nei confronti di Ousmane Sonko, leader del partito Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fratellanza) particolarmente amato dai più giovani e fermo oppositore del Presidente in carica, Macky Sall.

La sentenza, due anni di carcere per il politico quarantottenne con l’accusa di aver “favorito la corruzione giovanile”, è arrivata a due anni di distanza dalla prima imputazione del leader dell’opposizione.

Nel marzo 2021, infatti, Sonko, che oltre a guidare il suo partito è anche sindaco della cittadina di Ziguinchor, era stato denunciato per stupro da una dipendente del centro massaggi “Sweet Beauté” che frequentava abitualmente per lombalgia cronica. L’1 giugno, l’accusa di stupro, che gli sarebbe valsa 5 anni di carcere, è di fatto caduta, ma l’ha sostituita una condanna per “corruzione di individui di età inferiore ai 21 anni”.

Il verdetto ha raggiunto Sonko nella sua casa di Ziguinchor e ha generato in poche ore manifestazioni nelle piazze e proteste sempre più violente nelle strade e nelle Università, per quella che è stata definita una “condanna politica” per eliminare l’oppositore più pericoloso di Macky Sall.

Dall’inizio dei suoi problemi giudiziari, Sonko si è sempre dichiarato innocente, puntando il dito contro il Presidente Sall per aver confezionate accuse contro di lui con l’obiettivo di estrometterlo dalle prossime elezioni presidenziali, che si terranno nel febbraio 2024 e che lo vedevano tra i favoriti.

Alle elezioni del 2019, Sonko si era collocato al terzo posto, con oltre il 15% dei voti. Il leader di Partef piace soprattutto ai giovani, perché parla di giustizia sociale e di lavoro in un Paese in cui il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e sono soprattutto loro a dover emigrare.

Parla anche di onestà e di trasparenza, Sonko, accusando l’attuale leadership di corruzione e il Presidente Sall di voler trasformare una democrazia storica in un regime autoritario, soprattutto da quando ha annunciato di volersi candidare alle presidenziali correndo per il suo terzo mandato consecutivo.

Sono proprio le prossime elezioni il nodo principale delle tensioni nel Paese, in cui il malcontento, la crisi economica e la fragilità politica crescente covavano da anni.

Quando Sall ha annunciato di essere pronto a candidarsi di nuovo, Sonko e tutta l’opposizione hanno gridato al rischio di dittatura, come lo stesso Sall avrebbe d’altronde potuto prevedere. A niente è valso il tentativo del Presidente, a fine maggio, di promuovere un progetto di “dialogo nazionale”, completamente boicottato dalle opposizioni.

Salito al potere nel 2012 per un mandato di sette anni, Macky Sall era stato rieletto nel 2019, per restare in carica fino al 2024. Cinque anni per il secondo mandato e non più sette perché nel 2016 una riforma costituzionale aveva modificato la durata della carica presidenziale.

Un altro articolo nella Costituzione vieta chiaramente che un Presidente possa restare in carica per più di due mandati consecutivi. Con un artificio che non dev’essere stato apprezzato dai partiti di opposizione né dalla popolazione senegalese, Sall ha cercato di giustificare il suo desiderio di correre come Presidente per la terza volta utilizzando proprio la riforma del 2016 come espediente: la modifica della durata del mandato rispetto al suo precedente incarico avrebbe azzerato la conta dei suoi mandati a partire da quello durato di cinque anni, ovvero di quello che rispetta la Costituzione attuale.

I primi sette anni di Presidenza sarebbero con questo cavillo, secondo Sall, escludibili dalla conta dei suoi incarichi. Secondo questo ragionamento a detta di molti capzioso, se dovesse vincere le elezioni di febbraio 2024, si ritroverebbe a governare per la seconda, e non la terza volta.

Una motivazione che non deve, però, aver convinto troppo il suo Paese. La condanna al carcere di Sonko ha lanciato nelle strade giovani manifestanti che non chiedevano soltanto l’immediato rilascio del loro leader, ma accusavano anche l’attuale Presidente di voler instaurare un regime dittatoriale e di minacciare con la sua sete di potere la democrazia senegalese.

Le rivolte non hanno riguardato solo il Senegal, ma anche i giovani della diaspora: i consolati di Milano, di New York, di Bordeaux sono stati presi d’assalto dai manifestanti anti-Sall, tanto che Dakar ha dovuto momentaneamente chiudere le sue ambasciate nel mondo per evitare ulteriori violenze.

In Senegal, la repressione delle proteste è stata durissima. In tre giorni, gli scontri hanno provocato almeno venti morti, centinaia sono stati i manifestanti feriti o quelli condotti in carcere. I due poli si accusano a vicenda di aver usato squadroni di uomini armati vestiti in abiti civili per attaccare i manifestanti o le forze di sicurezza, a seconda della provenienza dell’accusa.

Alcuni testimoni hanno raccontato di uomini armati di pistole o coltelli che a decine uscivano dai pick up per compiere attacchi mirati di manifestanti. Nei giorni delle proteste, nel Paese è stato sospeso l’accesso a Facebook, Whatsapp e Twitter: per motivi di sicurezza, secondo quanto dichiarato dal governo, per impedire che i social media venissero utilizzati per incitamento alla violenza.

Solo mercoledì 7 giugno, il Presidente Sall si è pubblicamente pronunciato sulle violenze che avevano investito il suo Paese, condannandole come un “tentativo di seminare il terrore e paralizzare il Paese”, e ha invitato l’opposizione a lavorare insieme per “mantenere il rispetto della legge e il desiderio condiviso di vivere in pace, stabilità e solidarietà”.

Non ha fatto, però, nessun riferimento alle prossime elezioni. Eppure “Basterebbe che un uomo dicesse: rinuncio al terzo mandato, che disonorerebbe la mia parola, il mio Paese e la sua costituzione, perché la collera che si esprime nelle strade si attenuasse. Quest’uomo, è il presidente della Repubblica.”

E’ quanto hanno scritto in questi giorni tre eminenti intellettuali del Paese, Boubacar Boris Diop, Felwine Sarr e Mohamed Mbougar Sarr, in una lettera aperta di denuncia della “deriva autoritaria del Presidente, l’anacronistica limitazione di libertà acquisite e il crescente clima di repressione in cui versa il Paese”. E’ Macky Sall, secondo gli scrittori, il responsabile del sangue versato in Senegal e la più grave minaccia per la sua democrazia.

In realtà siamo tutti, da mesi, testimoni della hubris di un potere che imprigiona o manda in esilio gli opponenti più minacciosi”, si legge nel manifesto, “reprime le libertà (soprattutto quella di stampa) e tira su la sua fazione con una rivoltante impunità. Siamo anche testimoni degli errori di uno Stato desideroso di restare forte a tutti i costi – e il costo è quello del sangue, della dissimulazione, della menzogna – dimenticando che uno Stato forte è uno Stato giusto, e che l’ordine si mantiene con l’equità”.

Già altri oppositori prima di Sonko erano stati, infatti, arrestati e allontanati dalla scena pubblica, e tra maggio e giugno il clima si è fatto ancora più pesante. Aliou Sané, leader di Y’en a Marre, un gruppo di rapper e giornalisti senegalesi, è stato arrestato il 29 maggio mentre si recava a fare visita a Ousmane Sonko, a cui era stato impedito di lasciare la sua casa per evitare tensioni, con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate e di disturbo della quiete pubblica.

Due giorni dopo, Bentaleb Sow prima e Moustapha Diop dopo, membri del gruppo di opposizione FRAPP, sono stati arrestati.

Noi ci teniamo a mettere in allerta sull’uso eccessivo della forza nella repressione della rivolta popolare in corso”, scrivono nel manifesto i tre intellettuali, che puntano il dito contro “la frenesia accumulatrice di una casta che si arricchisce illegalmente, coltiva un egoismo indecente e, quando la si interpella o gliene si chiede conto, risponde con il disprezzo, la forza, o, peggio, con l’indifferenza”, e accusano il governo di “governare con la violenza e con la forza, una cosa che il regime attuale sta metodicamente mettendo in atto da tempo. L’intimidazione delle voci dissidenti, la violenza fisica, la privazione della libertà sono state una tappa importante del saccheggio delle nostre libertà democratiche”.

I firmatari sono Mohamed Mbougar Sarr, classe 1990, premio Goncourt per “La più recondita memoria degli uomini”, Felwine Sarr (1972) accademico, musicista e scrittore, autore, tra gli altri, di “Afrotopia” (2016), saggio sulla decolonizzazione della conoscenza nel continente africano, e Boubakar Boris Diop (1946), vincitore nel 2021 del Neustadt International Prize for Literature, scrittore, autore di teatro e giornalista ex direttore del quotidiano del giornale “Le Matin”.

Anche diverse ONG per i diritti umani hanno denunciato la deriva autoritaria e la violenza della repressione di Macky Sall.

Amnesty International ha sollecitato le autorità senegalesi “ad avviare immediatamente un’indagine indipendente e trasparente sulla morte di almeno 23 persone, tra cui tre bambini, nella repressione delle proteste del 1° e del 2 giugno”. In particolare, anche per Amnesty sarà da chiarire la “presenza di uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate”.

Il 4 giugno scorso le autorità hanno negato il coinvolgimento di forse di sicurezza governative prive di identificativo negli scontri e hanno parlato di “forze occulte” venute dall’estero per infiltrarsi tra i manifestanti, ma le accuse da parte di Amnesty e Human Rights Watch rimangono pesantissime.

Più che pacificata, la situazione in Senegal è solo momentaneamente congelata. Sonko non è ancora in carcere ma non può lasciare il suo domicilio, i suoi collaboratori lo dichiarano “rapito dallo Stato” e i suoi sostenitori aspettano che venga scagionato. Il Paese vigila e sembra pronto a ribellarsi ancora, se necessario.

Dopo la “tempesta”, come hanno definito le proteste i tre scrittori, il primo passo verso una pace sociale sarebbe probabilmente la rinuncia da parte di Macky Sall alle prossime presidenziali. A seguire, si dovrà fare i conti con il malessere profondo che il Paese covava da tempo e che le manifestazioni pro-Sonko hanno portato a galla: la crisi dello stato di diritto e la sete di una maggiore giustizia sociale, prima di tutto.

Nuove atroci testimonianze sulle torture dei poliziotti fascio-razzisti di Verona e sul razzismo di Stato

Se sei immigrato passi dalle torture nelle questure ai lager di Stato che si chiamano Cpr 

Dalla stampa borghese

Verona, il racconto di una delle vittime degli agenti: «Fermato senza un perché, picchiato e lasciato senz’acqua né cibo. Mi gridavano “Arabo di m***»

Adil Tantaoui racconta il suo incubo alla Stampa: «Chiamai la polizia dopo essere stato aggredito, mi portarono in Questura, poi al Cpr di Torino per 35 giorni: la gente lì impazzisce»

È una testimonianza atroce, quella rilasciata da Adil Tantaoui, uno delle decine di persone – quasi sempre straniere – finite nelle grinfie dei poliziotti «deviati» di Verona, ora agli arresti con le accuse di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto e omissione di atti di ufficio e falso ideologico in atto pubblico. Tantaoui è marocchino, ha 37 anni, vive in Italia da sette, è incensurato e sposato con una donna italiana. Lavori precari, certo, guadagni pure. Ma mai alcun problema con la giustizia. Anzi, anni fa era finito sui giornali locali per una storia di buon cuore: trovata una borsa alla stazione di Porta Vescovo, con all’interno un tablet e un pc, l’aveva restituita al suo legittimo proprietario, un docente universitario. E la mattina in cui per lui iniziò l’incubo cercava proprio giustizia, Tantaoui, dopo essere stato egli stesso vittima di un’aggressione. Lo racconta oggi al giornalista Niccolò Zancan sulle pagine de La Stampa. «Erano le otto di mattina del 26 ottobre. Io e mia moglie Elena vivevamo allora in una casa abbandonata, vicino al Bar Bauli, in via Perlar a Verona. Mi ero svegliato presto, stavo camminando nel parco che c’è lì davanti. Un ragazzo italiano mi ha chiesto una sigaretta, ma io non l’avevo. Lui ha preso un bastone e mi ha colpito sulla testa». Il giovane marocchino sanguina alla testa, è incredulo: chiama la polizia. Che arriva poco dopo, come da prassi, insieme a un’ambulanza. Tantaoui viene medicato alla testa. Ma poi, inspiegabilmente, diventa vittima di un nuovo sopruso: questa volta proprio da parte degli agenti. «Hanno lasciato stare il ragazzo italiano, ma hanno portato via me. Non mi hanno chiesto neanche i documenti, non hanno voluto sapere niente. Gli agenti mi hanno caricato in auto e subito uno dei due, quello pelato, ha iniziato a insultarmi: “Arabo di merda! Marocchino te ne devi andare di qua!».

Il sequel delle violenze, da Verona a Torino

È solo l’inizio dell’incubo ad occhi aperti vissuto da Tantaoui, secondo il suo racconto offerto nello studio legale milanese dove è assistito. Una volta arrivato in Questura a Verona, subisce il primo pestaggio, nel tunnel del parcheggio: «Mi hanno preso a calci nelle gambe, poi mi hanno strappato dalla testa le medicazioni». Non è tutto. Arrivato nell’edificio, ancora dolorante e senza alcuna ragione per il fermo, viene abbandonato nudo, senza acqua né cibo. «Stavo male. Mi hanno tolto tutti i vestiti e mi hanno buttato per terra nella stanza degli arrestati in mutande. Senza mangiare, senza niente. Tutto il giorno e tutta la notte. Sono svenuto». Ripresosi, all’indomani Tantaoui viene caricato su un’auto di servizio. La destinazione è il Centro per i rimpatri (Cpr) di Torino. Dove rimarrà rinchiuso – senza poter essere rimpatriato, essendo sposato con una cittadina italiana – per 35 giorni. Un inferno, testimonia l’uomo. «È proprio un carcere. Ti tolgono il telefono. La gente impazzisce. Il cibo è tremendo. È un casino. E poi ti danno delle pastiglie per calmarti e molti le prendono, ma io mi sono rifiutato».

Come ha fatto a non perdere la testa?

Un incubo finito appunto dopo oltre un mese, solo grazie all’apertura dell’inchiesta sugli abusi dello stato di diritto compiuti dagli agenti di Verona. Ma che in Tantaoui hanno lasciato un segno profondo, profondissimo. Ora «cerco di stare bene, ma è difficile – confessa a Zancan. Non ho trovato in Italia quello che cercavo. Mio padre è un giornalista, io ho fatto il cameraman anche per la Rai, ma le cose per me non sono andate come speravo. Ho provato tanti lavori: il magazziniere, le fragole. Ma non ce l’ho mai fatta. Ora i miei genitori mi hanno spedito dei soldi per aiutarmi qualche mese, così ho preso una stanza in affitto alla periferia di Milano». Quanto al giudizio su quei poliziotti deviati che gli hanno rovinato la vita, Tantaoui è perfino pacato: «Ce ne sono anche in Marocco. Dipende sempre dalla persona».

Noi pensiamo invece che non dobbiamo mai stancarci di denunciare quello che sta diventando – e che lo sarà sempre di più – l’apparato repressivo dello Stato.

La violenze dei poliziotti, vili, impuniti, di Verona che utilizzano il loro ruolo per colpire la gente che capita nelle loro mani, sono ormai frequenti.

Ogni tanto viene fuori un’inchiesta come questa di Verona ma, in realtà, in tutti i commissariati di questo paese esiste una consistente minoranza di poliziotti che sono fascisti, che sono legati al processo di fascistizzazione della polizia e, quindi, sostenuti dai ministri che si sono susseguiti – da Salvini a Piantedosi – e coperti dal governo. Chi più di questo governo copre le forze di polizia fasciste?

Sono un bubbone, un cancro e non certo sul piano morale ma proprio sul piano strutturale di quelli che sono gli apparati di Polizia, delle Forze Armate e perfino dei vigili urbani in questo paese. E’ violenza di Stato istituzionalizzata.

Alla violenza di Stato si risponde con la denuncia, con l’appello perché vengano fuori queste cose, che si facciano le inchieste necessarie. Ma è chiaro che la violenza di Stato pone il problema dell’autodifesa, di una risposta uguale e contraria e richiede che tutte le forze di opposizione a questo governo inseriscano l’autodifesa e l’autorganizzazione – sempre al fine di autodifesa, di resistenza per ora – delle masse.

Non si può pensare che questo sia un tema che debba essere estraneo, che debba riguardare i gruppi politici, i rivoluzionari, gli anarchici, come si dice. Bisogna porre all’interno delle organizzazioni sindacali, nelle assemblee dei lavoratori, nelle assemblee degli studenti, dei movimenti, la necessità di come bisogna rispondere a un governo che marcia verso un moderno fascismo, che utilizza la violenza che è parte della guerra interna.

Sfuggire a questo tema significherebbe nascondersi, fare la politica dello struzzo e non, invece, svolgere un ruolo d’avanguardia, di coscienza civile e organizzata, che tocca alle forze che si riferiscono alla classe operaia, ai lavoratori e che ne organizzano le loro lotte.

Piacenza: Inchiesta bis sugli abusi nella caserma Levante, 24 nuovi indagati

Nuovi indagati tra i carabinieri della caserma Levante di Piacenza. Sono 24 le persone coinvolte per violenza in servizio e abusi. Tra questi ci sono quasi tutti i carabinieri condannati in primo e secondo grado dopo la prima indagine del 2020 – quando la stazione dell’Arma finì sotto sequestro e al centro degli accertamenti della Guardia di Finanza per i gravi abusi e reati commessi dai militari -, altri cinque carabinieri e nove civili, accusati di spaccio, e quasi tutti comparsi già nel primo procedimento.

La procura ha dunque chiuso il secondo filone d’inchiesta. Le indagini, come si è potuto apprendere, non si erano mai fermate. E adesso, sotto la lente sono finiti alcuni fatti accaduti negli anni precedenti al 2020 e vicende minori già emerse durante la prima inchiesta ma che non erano state ancora contestate. Nell’inchiesta bis si parla di nuovi episodi di violenza in servizio, come nel caso di Giuseppe Montella, Giacomo Falanga, Angelo Esposito e Salvatore Cappellano, già imputati e accusati di tortura nel primo filone, che l’8 aprile 2020 avevano avvicinato un presunto spacciatore, lo straniero El Sayed, picchiandolo e minacciandolo di consegnare la droga in suo possesso.

Nel filone bis ci sono poi diverse contestazioni supplementari legate a reati già segnalati nella prima fase, una serie di falsi e omissioni di atti di ufficio, detenzione illecita di armi e munizioni. E alcuni casi di peculato: in particolare dalle indagini della Procura di Piacenza è emerso come Montella e Cappellano abbiano utilizzato un’auto di servizio dell’Arma dei Carabinieri per andare al supermercato a fare la spesa. Quanto raccolto dai magistrati titolari delle indagini Matteo Centini e Antonio Colonna, nel corso di questi anni, dal 2020, è confluito in un fascicolo che contiene fatti anche del 2017, 2018 e 2019 per i quali i militari piacentini non erano ancora stati giudicati.

Le nuove accuse vanno dall’omessa denuncia di reato, peculato, falsità materiale in atto pubblico, alla violata consegna, rifiuto o omissione di atti d’ufficio per mancate segnalazioni di assuntori di droga alla Prefettura, falso in atto pubblico in memoriali di servizio e detenzione abusiva di armi. E ancora: arresto illegale, rivelazione di atti d’ufficio, violenza privata, perquisizione arbitraria.

I civili invece sono quasi tutti pusher accusati di spaccio. Dalla chiusura delle indagini, gli indagati avranno venti giorni per visionare il fascicolo, farsi interrogare dal pm, produrre memorie difensive, o prove documentali e testimoniali. Di lì, poi, la procura potrà chiedere al gip il rinvio a giudizio o l’archiviazione.

Quanto alle condanne relative al primo filone dell’inchiesta, a novembre la Corte d’Appello di Bologna ha condannato – seppur con una riduzione di pena – cinque dei carabinieri coinvolti nell’inchiesta della Levante. Giuseppe Montella, considerato il capo della banda di spacciatori in divisa, è stato condannato a anni 10 di reclusione, invece che 12; Giacomo Falanga a 6 anni, come in primo grado; Salvatore Cappellano 6 anni e 4 mesi, invece che 8, Daniele Spagnolo è stato condannato a 1 anno e 2 mesi, invece che a 3 anni e 4 mesi. Infine per il comandante di stazione, Marco Orlando, la pena è stata ridotta da 4 anni a 1 anno 8 mesi e 20 giorni.

da La Stampa