Il fascismo è un crimine, contestarlo non è solo un diritto, ma un dovere. Solidarietà agli antifascisti condannati

ADUNATA SEDIZIOSA ARMATA PER CHI CONTESTÒ I NEOFASCISTI: IN UN CLIMA DA VENTENNIO CONTINUIAMO A RESISTERE!

Il 16 luglio, presso il Tribunale di Modena è stata pronunciata l’attesa sentenza di primo grado del processo a carico delle/dei 26 antifascistə che nel 2017 contestarono pacificamente un presidio di Forza Nuova a Carpi.

Il Giudice Francesco Cermaria ha innanzitutto condannato a 6 mesi di arresto e 2 mila euro di ammenda un compagno per aver impugnato per qualche secondo un moschettone (normalmente utilizzato come portachiavi) come deterrente di fronte all’improvvisa aggressione dei forzanovisti.

A lui va la nostra piena solidarietà. Solidarietà che si concretizzerà fin da subito con la copertura delle spese legali per ricorrere in Appello.

Ribadiamo forte e chiaro: nessuno resta solo di fronte alla repressione!

Poi, 5 minuti di teatro dell’assurdo: Cermary () è riuscito a demolire la linea d’accusa proposta dalla Pm ignorandone il principale capo d’imputazione, ovvero l’aver preso parola durante una manifestazione non autorizzata (comma 3 dell’art. 18 TULPS), coprendo di ridicolo l’intera Procura di Modena e trascinandola in un nuovo teorema giudiziario a dir poco grottesco con ipotesi di reato ancora più gravi e pene ancora più pesanti.

In un delirio repressivo quella che è stata una contestazione pacifica – in cui il dissenso verso chi propaganda odio razziale e xenofobo è stato espresso attraverso canti della Resistenza e slogan – diventa un’adunata sediziosa armata con lo scopo di sovvertire l’ordine pubblico (art. 655 del Codice Penale, arresto fino a 1 anno e comunque non inferiore a 6 mesi).

A tutte le 26 persone coinvolte vengono inoltre imputate grida sediziose o lesive del prestigio dell’autorità (art. 20 TULPS), oltre che il rifiuto di obbedire all’ordine di discioglimento della manifestazione (art. 24 TULPS, arresto da 1 mese a 1 anno e ammenda fino a oltre 400 euro).

Per due compagni le ipotesi di reato prevedono anche porto di armi o oggetti atti ad offendere (art. 4 della L. 110/75, arresto da 3 a 6 mesi e ammenda fino a 20 mila euro). Elemento – quest’ultimo del possesso di armi – del tutto inedito, mai emerso né dalle indagini del Gip né da quelle della Pm e nemmeno da precedenti udienze.

Attendendo le motivazioni della sentenza per capire quali fossero queste famigerate armi, ci preme porre l’accento su altri elementi che aiutano a comprendere l’assurdità della questione.

Stupendoci con effetti speciali, tra i/le 26 antifascistə per i quali sono ipotizzati i suddetti capi d’accusa continua a figurare un ragazzo che, come emerso in fase di udienza, la sera del 4 agosto 2017 non si trovava in Via Marx a Carpi e che è stato erroneamente identificato mediante confronto tra i filmati della Digos e il suo documento d’identità risalente a svariati anni prima.

In ultimo, tra tuttə coloro che da testimoni hanno confermato di aver partecipato alla contestazione, l’unica ad essere inserita nell’elenco dei/delle 26 è colei che ha anche ammesso di aver intonato canti della Resistenza, in particolare “Bella Ciao”.

Il canto continua quindi ad essere una discriminante nel definire i/le partecipanti alla presunta adunata sediziosa ARMATA.

Il quadro che emerge, che da un lato non può che lasciare allibiti, non è che la conferma di ciò che andiamo dicendo da tempo: in un Paese che si è dotato di una Costituzione che poggia le basi su valori e ideali della Lotta di Liberazione dal nazifascismo è vergognoso che Questure e Prefetture continuino a legittimare gruppi o partiti dichiaratamente neofascisti concedendo loro agibilità politica e spazi pubblici, mentre Procure e Tribunali si accaniscano contro gli antifascistə ricorrendo agli articoli del TULPS e del Codice Penale ereditati rispettivamente dal Regio Decreto del 1931 e del Codice Rocco di epoca fascista.

Un accanimento giudiziario sempre più palese che non può lasciare indifferente chiunque si riconosca in quei valori e ideali dell’antifascismo.

Come Carpi Antifascista rinnoviamo l’impegno ad alimentare ed allargare quella rete solidale sempre più ampia e variegata costruitasi negli anni intorno alle persone coinvolte in questo assurdo e rocambolesco processo, rivendicando le pratiche dell’antifascismo militante.

In un clima da Ventennio fascista continuiamo a Resistere.

Continuiamo a contrastare con ancora più forza e ostinazione ogni fascismo e ogni discriminazione, continuiamo a lottare unitə contro la repressione di Stato.

Se ne faccia una ragione la Magistratura tutta: qui non si arretra di un millimetro!

L’ANTIFASCISMO NON SI ARRESTA!

NOMUOS: 29 attivisti rinviati a giudizio per i fatti del 5 agosto 2018. La macchina della repressione borghese non si ferma mai… ma la repressione non spegne, anzi alimenta la ribellione!

Manifestazione 8 agosto 2015

Ai tantissimi militanti che hanno processi aperti per aver manifestato contro il Muos, lo strumento di morte e di guerra impiantato a Niscemi dagli Stati Uniti con il sostegno attivo dei governi italiani, se ne aggiungono man mano altri.

La borghesia vorrebbe impedire con i tanti suoi strumenti di repressione, e tutti utilizzati, dalla tortura all’uccisione, le manifestazioni di protesta contro il suo sistema fatto di ingiustizie insopportabili, ma naturalmente, ed è esperienza delle masse popolari oramai secolare, la repressione non spegne, anzi alimenta la ribellione!

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RINVIATI A GIUDIZIO I 29 ATTIVISTI NO MUOS IMPUTATI PER I FATTI DEL 5-8-2018

Il Tribunale di Gela ha deciso il rinvio a giudizio dei 29 attivisti NO MUOS (7 compagne e 22 compagni)

imputato di vari reati:

artt. 81, 339 co 2, 110, 336 c.p., per aver usato violenza contro 5 agenti della Digos per impedire di trarre in arresto Turi Vaccaro;

artt. 81, 110, 390 c.p., perché in concorso tra loro aiutavano Turi Vaccaro a sottrarsi all’arresto;

artt. 110, 339 co 2, 336 c.p., perché, dopo aver impedito l’arresto di Vaccaro usavano violenza nei confronti di 6 agenti della Digos impedendogli di raggiungere le autovetture di servizio.

artt. 582, 585 in relaz. all’art. 576 n. 1, n. 5 bis c.p., perché colpiva un agente cagionandogli lesioni personali.

Quel giorno, nonostante la presenza di numerosi compagni, la Digos, approfittando di uno spostamento di un folto numero degli stessi in uno spazio adiacente il Presidio NO MUOS, tentava di arrestare Turi Vaccaro, ricercato perché doveva scontare una pena di 11 mesi in seguito ad una condanna inflittagli l’anno precedente. Una vera e propria provocazione, che sul momento non ha funzionato, dato l’alto numero di compagni, che non hanno certo consegnato Turi. Il quale, è stato poi arrestato alcune ore dopo nel bosco. Pochi minuti dopo, sulla stradina che costeggia il Presidio, il Vice Questore trovava un portafogli appartenente a un compagno, ma alla richiesta di questi di restituirglielo, gli diceva di andarlo a riprenderlo in Commissariato. Questa seconda provocazione incontra la pronta reazione dei presenti, che cercano di convincere il poliziotto a restituire i documenti. La discussione è animata, ma per i poliziotti c’è stata aggressione e violenza nei loro confronti. Ovviamente.

Questa è la storia. Che adesso continuerà nell’aula del tribunale di Gela.

Presso lo stesso tribunale, mercoledì 21 luglio si svolgerà l’udienza che vede coinvolti parecchi attivisti, imputati di danneggiamento, violenza, ecc., per la liberazione del pozzo avvenuta il 25 aprile 2014. Allora il movimento spostò la recinzione della base USA in modo da lasciare fuori un pozzo che si era venuto a trovare prigioniero all’interno della struttura militare.

G8 Genova: respinti i ricorsi che i poliziotti massacratori e torturatori della scuola Diaz avevano avuto la sfacciataggine di presentare alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo!

Questi poliziotti massacratori e torturatori, esseri viscidi e indegni al servizio di uno stato moderno fascista (che allora aveva la faccia di Berlusconi come presidente del consiglio e il fascista Fini come vicepresidente) sempre contro le masse, avevano presentato ricorso presso Corte europea dei Diritti dell’Uomo, una sfacciataggine che sa di ulteriore oltraggio!

Queste bestie rimaste impunite come tutta la “catena di comando” di quei giorni a Genova, non solo non hanno fatto un giorno di galera per la “macelleria messicana” di cui sono stati giudicati colpevoli, molto benevolmente, dai tribunali, ma molti di loro sono stati pure promossi, aggiungendo ingiustizia alla già insopportabile ingiustizia.

G8 Genova, blitz alla scuola Diaz: per Corte europea ‘inammissibili’ ricorsi poliziotti

17 luglio 2021 | 11.42

Lo ha stabilito la Corte europea dei Diritti dell’Uomo a 20 anni esatti dal G8 di Genova del luglio 2001. Cedu: “Da Tribunali decisioni né arbitrarie né manifestamente irragionevoli”

A 20 anni esatti dal G8 di Genova del luglio 2001, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato ‘inammissibili’ i ricorsi presentati da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz. La

Cedu, infatti, ha stabilito che non è ammissibile il ricorso di Massimo Nucera, Agente scelto del Nucleo speciale del Settimo Reparto Mobile di Roma (che dichiarò di aver ricevuto una coltellata durante l’irruzione nella scuola Diaz), e Maurizio Panzieri, all’epoca dei fatti Ispettore capo aggregato allo stesso Nucleo speciale (che siglò il verbale su quello che i giudici ritennero fosse un finto accoltellamento). Entrambi sono stati condannati a tre anni e cinque mesi (di cui tre condonati).

Allo stesso modo, la Corte europea ha dichiarato ‘inammissibile’ il ricorso di Angelo Cenni e altri due colleghi, capisquadra del VII Nucleo 1° Reparto Mobile di Roma. La Cedu, si legge nel provvedimento relativo a Nucera e Panzieri, “riunitasi il 24 giugno 2021 in veste di giudice unico ai sensi degli articoli 24.2 e 27 della Convenzione, ha esaminato il ricorso summenzionato così come è stato presentato. La Corte ritiene che, nella misura in cui il ricorrente denuncia la valutazione delle prove e l’interpretazione del diritto da parte delle giurisdizioni interne e contesta l’esito della procedura, il ricorso fa fronte ad una ‘quarta istanza’. Il ricorrente ha potuto presentare le sue ragioni in tribunale alle quali è stata data risposta con decisioni che non sembrano essere arbitrarie o manifestamente irragionevoli, e non ci sono prove che suggeriscano il fatto che il procedimento è stato ingiusto. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate ai sensi dell’articolo 35.3 a) della Convenzione. La Corte dichiara il ricorso irricevibile”.

tratto da https://www.adnkronos.com/g8-corte-europea-dichiara-inammissibili-ricorsi-poliziotti-del-blitz-alla-scuola-diaz_7df0GuMXdXTC36xCE46l3W?refresh_ce

Solidarietà a Jorit arrestato in Israele per un murales – massima informazione e solidarietà

Jorit arrestato in Israele per un murales, Napoli si mobilita per lo streetartist

Il Mattino

Lo street artist italiano Jorit Agoch è sospettato – assieme ad un altro cittadino italiano e ad un palestinese – di aver «danneggiato ed imbrattato la Barriera di difesa nella zona di Betlemme». Lo ha reso noto un portavoce della polizia israeliana. I tre sono stati arrestati ieri, ha aggiunto, «mentre avevano il volto coperto e disegnavano illegalmente sul muro. Quando agenti della Guardia di frontiera hanno agito per fermarli, hanno tentato la fuga con un veicolo che è stato bloccato dai militari».

I tre, ha aggiunto il portavoce, saranno adesso sottoposti ad un’inchiesta della Guardia di frontiera. «Riteniamo molto grave – ha precisato – ogni tentativo di danneggiare e di deturpare la Barriera, sia che si tratti di disegni sia che si tratti di danni fisici concreti. Agiremo per quanto sarà necessario per l’arresto dei trasgressori e per la piena applicazione della legge nei loro confronti». In termini generali il portavoce ha aggiunto che la Barriera è un ostacolo fisico importante «per impedire l’ingresso in Israele

di elementi ostili». Fra i loro incarichi gli agenti della Guardia di frontiera hanno anche quello di proteggerne la integrità. Nei giorni scorsi, secondo quanto riferito da Jorit Agoch, l’artista aveva completato sul muro un grande murale in omaggio della attivista palestinese Ahed Tamimi che oggi ha riacquistato la libertà dopo otto mesi di detenzione in Israele.

«La Farnesina, in stretto raccordo con il Consolato Generale a Gerusalemme e l’Ambasciata a Tel Aviv, segue con la massima attenzione, sin dall’inizio, il caso dei due italiani fermati a Betlemme, ai quali sta prestando ogni possibile assistenza, in contatto con le Autorità locali e le famiglie». Lo riferisce una nota della Farnesina, riferendosi all’arresto dello street artist italiano Jorit Agoch e di un altro cittadino italiano avvenuto ieri. «Il Console italiano – aggiunge la nota – si è prontamente recato nel luogo di detenzione a Gerusalemme insieme al legale di fiducia del Consolato che, in tarda notte, ha potuto incontrare i connazionali».

L’ amministrazione di Quarto flegreo con il sindaco, Antonio Sabino, si è mobilitata per la scarcerazione di Jorit Agoch lo ‘street artist’ di origini olandesi che risiede da alcuni anni nel comune flegreo, arrestato a Betlemme per un murales ritenuto oltraggioso dalle autorità israeliane. Un appello è stato lanciato per rilasciarlo. Il vicesindaco, Giuseppe Martusciello, è in costante contatto con la famiglia e la Farnesina per conoscere gli sviluppi della situazione. Jorit nel comune alle porte di Napoli ha eseguito un murales sulla facciata di un edificio del centro storico in cui ha ritratto il capitano del Napoli, Hamsik.

A Napoli si è svolta una manifestazione di solidarietà. Circa 250 le persone in corteo, con bandiere della Palestina, e che sfilano urlando lo slogan ‘ Jorit liberò. Dopo un presidio in Piazza Municipio, i manifestanti si stanno muovendo in corteo, diretti verso la sede della Prefettura di Napoli.

G8 di Genova 20 anni dopo: “Non ‘mele marce’ ma un problema strutturale”. La giustizia o è proletaria o non è. Fuori i compagni dalle galere!

Sono passati esattamente 20 anni dai gravi episodi del G8 di Genova, con la violenza brutale e assassina delle forze dell’ordine sia nelle strade, sia alla scuola Diaz, sia alla caserma di Bolzaneto.

Di quella violenza di stato, di quelle torture impunite si è alimentata da un lato l’ideologia della “polizia buona, ingannata dalle mele marce”, dall’altro l’introiezione di gran parte del movimento di  quell’ideologia più subdola, della “divisione in buoni e cattivi”. Entrambe figlie di una morale ipocrita borghese hanno spalancato le porte delle carceri a chi contestava il modo di produzione capitalistico e garantito a chi lo imponeva libertà di azione e impunità.  Quella stessa impunità e libertà di azione di continuare a delinquere in nome e per conto dello Stato invocata ora dai vari Salvini e Meloni sulla pelle dei detenuti, degli immigrati, delle donne, degli operai ribelli.

Non possiamo però dimenticare che gli esecutori di quella mattanza a Genova, i Gom (Gruppo Operativo Mobile), che rispondono direttamente al Capo del Dipartimento della Polizia Penitenziaria, furono voluti nel 1999 da Oliviero Diliberto, allora Ministro di Grazia e Giustizia del governo di centrosinistra D’Alema e sono gli stessi che si sono resi protagonisti della mattanza al carcere di S. M. Capua Vetere e che oggi fanno le vittime perché si sentono minacciati da qualche striscione.

E forse hanno ragione, perché non sarà certo dalle aule dei tribunali borghesi che avremo giustizia. Ma “la legge per i piccoli si applica, per i grandi si interpreta” e quei tribunali noi dobbiamo espugnare anche attraverso le strade perché trionfi la giustizia proletaria.

E come al G8 di Genova devono tutti pagare, dal più piccolo al più grande.

Da genova24.it

Ventennale G8, il pm Zucca: “Non ‘mele marce’ ma un problema strutturale con cui la polizia ancora non ha ancora fatto i conti”

Per il magistrato che indagò sulla violenze alla Diaz “a Bolzaneto successe qualcosa di ancor più grave che ricorda le torture di Abu Ghraib”

di Katia Bonchi

“Trasparenza e consapevolezza”. E’ quello che il sostituto procuratore generale Enrico Zucca chiede ai vertici della polizia di Stato “per dimostrare davvero di aver voltato pagina” a 20 anni dal G8 di Genova.

Per il magistrato che ha condotto il processo contro le violenze all’interno della scuola Diaz “diversi episodi di cronaca di questi anni vedono riproporsi lo schema dell’uso sproporzionato della forza cui segue la copertura con falsità che dimostra come il problema non siano soltanto le responsabilità individuali”.

Lo schema dell’uso sproporzionato della forza e della successiva copertura si ripropone invece come un metodo ben rodato. Per rimanere agli esempi genovesi, Zucca cita l’episodio di piazza Corvetto dove un giornalista di Repubblica è stato picchiato anche quando era a terra da 4 poliziotti del reparto mobile di Genova senza che avesse fatto assolutamente nulla e pochi secondi prima una ragazza riceve una manganellata sulla schiena, anche in quel caso senza aver fatto assolutamente nulla.

Per Zucca c’è quindi un problema “strutturale” con cui la polizia italiana non ha voluto fare i conti: “Visto che certi comportamenti rappresentano l’opposto di quello che viene insegnato ai poliziotti ai corsi o scritto nei manuali di addestramento, dovrebbe essere la stessa polizia a sanzionare chi esce dai binari del rispetto della legge, ben prima dell’ intervento della magistratura che peraltro si scontra con il conflitto di interessi di indagare sui propri collaboratori.

E quella parte della magistratura che decide di approfondire i fatti viene isolata e bollata come ideologica”.

Sono state le sentenze a dimostrare che le tesi della procura di Genova erano fondate, dalla Cassazione alla Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno qualificato quelle violenze come tortura.

La Cedu nel 2017 ha rilevato anche l’assenza di sanzioni per i poliziotti responsabili e l’assenza di identificazione di gran parte degli stessi. Cinque anni prima, nel 2012, la Cassazione aveva condannato in via definitiva per falso 15 funzionari di polizia per aver coperto gli agenti picchiatori con false prove e false accuse nei confronti dei 93 manifestanti che vennero arrestati (79 dei quali dalla scuola Diaz uscirono feriti) e accusati di associazione a delinquere per devastazione e saccheggio, arresti non convalidati dai gip. I picchiatori sono rimasti senza nome non essendo identificabili ad eccezione dei capisquadra: i reati sono finiti prescritti ma i poliziotti sono stati ritenuti responsabili per i risarcimenti in sede civile.

Chi non uscì in barella dalla Diaz, venne portato alla caserma di Bolzaneto dove per Zucca è accaduto qualcosa di ancor più grave rispetto all’ assalto alla scuola: “C’è un filo conduttore – dice – che porta dal carcere temporaneo istituito all’interno della caserma di Bolzaneto alle immagini raccapriccianti delle torture all’interno dei centri di detenzione di Abu Ghraib”.

Per il magistrato “le tecniche dei carcerieri sono uguali anche se Genova non è uno scenario bellico ma già le forze di polizia, evidentemente così addestrate, si muovono in questo modo dimenticando codici e leggi nella peggiore tradizione delle dittature”. Il processo per le torture di Bolzaneto (così definite anche in questo caso dalla Cedu) ha visto 45 imputati tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici. Gran parte dei reati si sono prescritti già prima dell’appello e in Cassazione sono rimaste 7 condanne penali ma la Corte ha confermato la colpevolezza di gran parte degli imputati per gli effetti civili.

Accanto ai processi contro le forze dell’ordine il terzo principale filone giudiziario ha riguardato i 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio: 15 imputati su 25 sono stati assolti fin dal primo grado perché secondo i giudici avevano reagito alla carica illegittima sul corteo delle tute bianche di via Tolemaide. Dieci sono stati invece condannati per devastazione e saccheggio con pene dai 6 ai 14 anni di carcere, pene che “non hanno paragoni nel contesto delle democrazie occidentali – ricorda Zucca – e nemmeno con la Russia di Putin che prevede un massimo di 8 anni”.

Viaggio di Draghi/Cartabia al carcere delle torture – a cosa è servito?

Le dichiarazioni più ipocrite ad uso propagandistico sono proprio nelle misure annunciate di “riforma” carceraria, che dovevano essere attuate indipendentemente dalle violenze/torture contro i detenuti in Santa Maria Capua Vetere; altrimenti si ammette che solo le mattanze hanno posto l’inderogabilità di questi provvedimenti.

Presentate invece come risposta alla mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere – come di altri carceri, non lo dimentichiamo – servono solo a derubricare la mattanza come uno dei tanti problemi esistenti nelle carceri; non vengono date risposte alle violenze e torture (gli agenti solo sospesi e non arrestati, nessun  provvedimento ancora verso dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, nessun Ministro che si è dimesso…) come alle richieste dei detenuti (indulto, amnistia subito…), declassificano le violenze a responsabilità individuali, fino a mettere sulla stessa bilancia “i fatti documentati dalle indagini” e gli agenti penitenziari, verso cui Draghi “manifesta un sentimento di rispetto e fiducia verso il corpo della penitenziaria…”, aggiungendo che i fatti accaduti hanno “scosso nel profondo la coscienza degli agenti della polizia penitenziaria  che lavorano con fedeltà in questo carcere…”, lanciando così un amo a Salvini e alla Lega.

Ma tornando alle proposte di riforma (in sè necessarie e urgenti da tempo), che c’entra la mancanza di agenti con la mattanza? Lì ad aprile c’erano fin troppi agenti e altri corpi repressivi; che c’entrano gli spazi e nuove strutture? I detenuti a Santa Maria Capua Vetere non sono certo stati massacrati perchè stavano in spazi angusti…

Un viaggio, quindi, che per il governo è servito soprattutto a riprendere il controllo politico, a normalizzare, a far rientrare, a rimettere il coperchio, piuttosto che a scoperchiare…

Riportiamo stralci dall’articolo di Domani, condivisibili nella denuncia/smascheramento di questo tour di Draghi/Cartabia nel carcere delle torture.

“Il tour conoscitivo nell’istituto del pestaggio di stato si chiude con la condanna delle violenze, la denuncia del sovraffollamento, la necessità di pene alternative e altre osservazioni generali che avrebbe potuto fare anche in assenza della mattanza. Un magro epilogo per un evento preparato in ogni dettaglio.

Per l’occasione l’istituto è stato tirato a lucido. Il carcere profumato, hanno lavato pavimenti, pulito i parti, abbellito il giardino. «L’istituto di pena sembra un villaggio turistico, lindo e pinto, per il grande evento. I problemi c’erano ieri e ricominciano domani», dice la garante dei detenuti di Caserta, non invitata.

Il presidente del Consiglio e la ministra arrivano a metà pomeriggio. Il governo ha così scelto di andare a vedere il carcere prima di riferire in parlamento sulle violenze. L’evento è stato curato nei dettagli. A partire dal tenore comunicativo, ispirato a una regola aurea dichiarata fin dall’inizio: nessuna domanda. I cronisti vengono catechizzati preventivamente al telefono. «Alla fine non ci sarà spazio per quesiti, ma solo per comunicazioni del presidente e della ministra», chiariscono gli uffici stampa. E le domande? «Oggi è la giornata dell’ascolto», rispondono. Non vogliono sbavature, polemiche, spettacolarizzazioni salviniane. Il canovaccio è scritto per evitare sorprese e prevede, per il finale, annunci importanti della ministra. La stampa viene sistemata sotto gazebo da campeggio a 15 metri dal palchetto dove parlano i rappresentanti del governo…

La strada che conduce al penitenziario è lastricata non di buoni propositi, ma di buche. Prima dell’ingresso, sulla sinistra, svetta l’impianto di trattamento dei rifiuti che porta sciami di zanzare e un lezzo insopportabile quando si alza il vento. Sulla destra c’è la superstrada che costeggia il muro con il filo spinato, dietro una discarica di pattume. Dentro il carcere l’acqua non c’è, perché non c’è mai stata la rete idrica. «Ogni anno promettono l’avvio di una gara di appalto, ma poi non cambia niente», dice Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli e conferimento delle prime denunce da parte dei familiari dopo il pestaggio di massa del 6 aprile del 2020…

Nelle parole di chi attende i colloqui c’è lo stupore per quelle immagini e la paura che nessuno paghi. Il 6 aprile dello scorso anno 300 agenti della penitenziaria sono entrati in carcere, molti muniti di casco e non identificabili, e hanno massacrato di botte, per oltre quattro ore, i detenuti del reparto Nilo, che ospita per buona parte tossicodipendenti e anche una sezione di pazienti con problemi di salute mentale…

Quando inizia la visita all’istituto dai gazebo si sente qualche applauso e le urla dei detenuti. «Fuori, fuori», gridano, e poi «Draghi, Draghi», ma non è possibile avvicinarsi. Il presidente e la ministra entrano anche nel reparto Nilo, il teatro dell’orribile mattanza. I detenuti dalle celle chiedono pene alternative, gli agenti penitenziari di non processare l’intero corpo. La visita dura circa un’ora, poi ministra e presidente escono per le attese comunicazioni…

La presentazione delle autorità spetta alla direttrice dell’istituto, Elisabetta Palmieri, che sale sul palco e parla di speranza e di «giornata speciale». È la stessa direttrice che non c’era il giorno del pestaggio, che non è indagata ma ha continuato a difendere la catena di comando, a credere alla tesi dei depistatori e a dire di Lamine Hakimi che «era strafatto». Lamine è morto dopo il pestaggio, che è stato seguito da un periodo di isolamento ingiustificato e accompagnato dall’assunzione di un mix di oppiacei. Ma lo scorso ottobre la direttrice ha raccontato a Domani un’altra storia, evocando «bastoni e olio bollente» usati dai detenuti contro gli agenti. I bastoni e l’olio erano soltanto false prove costruite per giustificare la spedizione punitiva.

Palmieri lascia la parola a Draghi e poi a Cartabia. Finite le comunicazioni i giornalisti provano ad avvicinarci, ma un cordone di sicurezza proibisce ogni tipo di contatto. Cosa ne pensa il governo dell’introduzione del codice identificativo? Perché non ha riferito in parlamento? E perché nulla è stato fatto prima degli arresti disposti dal giudice? Ancora una volta il governo ha scelto di non rispondere.”