La Grecia brucia… e il governo usa i fascisti per zittire chi si ribella

Mezzo mondo è in fiamme come prodotto della distruzione sistematica del capitalismo-imperialismo e la Grecia è nel ben mezzo di questa tragedia!

Ma in Grecia oltre alla tragedia dei roghi il popolo deve subire anche quella del governo fascista che tenta di mettere a tacere le proteste!

Il governo “sta ricorrendo a bande di picchiatori fascisti, probabilmente controllate dai suoi ministri di estrema destra, per cercare di censurare i pochi mezzi d’informazione che stanno correttamente informando sul disastro senza precedenti che sta affrontando il paese.” dice il Manifesto di oggi.

Quello di mettere a tacere le proteste di piazza contro governi reazionari con mezzi sempre più apertamente fascisti sta diventando la normalità di tutti i governi, sia nei paesi imperialisti che in quelli oppressi.

“Nelle prime ore del mattino di ieri una squadraccia di una quindicina di energumeni ha aggredito due reporter e il cameraman della Tv privata Open che stava seguendo gli sviluppi dell’incendio nella località Thrakomakedones, nei sobborghi di Atene. Hanno picchiato i due giornalisti, distrutto i loro strumenti di lavoro, rotto i finestrini della macchina e rubato la borsa con gli attrezzi del cameraman.”

E come in tante occasioni che conosciamo bene anche qui da noi la polizia dà di fatto una mano ai fascisti: “L’AGGRESSIONE È AVVENUTA di fronte a un nutrito gruppo di poliziotti che non ha ritenuto opportuno intervenire in difesa dei giornalisti, malgrado le ripetute grida di aiuto. Il tutto con il sonoro registrato dalla telecamera rimasta accesa ma prima otturata con una mano di fronte all’obiettivo e poi gettata giù dal cavalletto.”

“LA RABBIA SI ESPRIME con il grido “Mitsotakis fottiti”, ripetuto da pacifiche casalinghe e tranquilli padri di famiglia in lacrime di fronte alla casa e la bottega ridotta in cenere. Molto probabilmente è stato questo sfogo popolare in diretta, spezzando il monopolio comunicativo del governo, che ha scatenato la componente estremista del governo, rappresentata dal ministro dell’Interno Makis Voridis, dal vice presidente di Nuova Democrazia Adonis Georgiadis ma anche da vari deputati della maggioranza, tra cui Thanos Plevris, figlio di Kostas, l’uomo dei colonnelli in Italia all’epoca delle stragi.”

Le giuste invettive contro i governi borghesi devono trasformarsi in rabbia organizzata, diretta a rovesciare questo sistema di morte e distruzione.

Bangkok: lacrimogeni e proiettili di gomma contro i manifestanti

Un ufficiale di polizia spara con un’arma durante gli scontri con i manifestanti che protestano contro quello che chiamano il fallimento del governo nella gestione della pandemia di coronavirus [Soe Zeya Tun/Reuters]

La polizia thailandese ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti che a Bangkok, sabato 7 agosto, hanno protestato contro l’incapacità del governo di gestire la pandemia di coronavirus e i suoi effetti economici.

Più di 1.000 manifestanti sabato hanno sfidato le restrizioni sugli incontri pubblici e hanno marciato verso la Government House, l’ufficio del primo ministro Prayuth Chan-ocha, chiedendo le sue dimissioni. La polizia ha chiuso una strada vicino al Monumento alla Vittoria usando container e ha usato i gas lacrimogeni e proiettili di gomma per respingere i manifestanti. “Stiamo mantenendo questa linea”, ha annunciato la polizia tramite un altoparlante. Circa 100 ufficiali sono stati visti in tenuta antisommossa a pochi metri da dove si erano radunati i manifestanti.

A partire dal 18 luglio, diversi gruppi hanno organizzato proteste di piazza contro il governo, mentre crescono le frustrazioni per la sua gestione dell’epidemia di coronavirus e i danni che le misure pandemiche hanno inflitto all’economia.

La protesta di sabato è stata in parte innescata dal lento lancio del programma di vaccinazione COVID da parte del governo thailandese. 

“La politica di vaccinazione sbagliata ha davvero irritato i cittadini in Thailandia”, ha detto il giornalista Franc Han Shih, che ha aggiunto che il governo ha fatto un accordo per 10 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca, ma finora ne ha ricevuto solo la metà. “Sebbene la Cina abbia fornito più di 6 milioni di dosi di Sinovac, non è abbastanza”, ha aggiunto.

Sabato, la Thailandia ha registrato un record di quasi 22.000 nuovi casi di COVID-19 segnalati e il numero più alto di decessi giornalieri: 212. Nel complesso, ha segnalato 736.522 casi di coronavirus, inclusi 6.066 decessi, dall’inizio della pandemia lo scorso anno.

Con solo il 6,31% circa dei 70 milioni di thailandesi completamente vaccinati contro il virus a partire da giovedì, l’ultima ondata ha spinto il sistema sanitario pubblico del paese sull’orlo del collasso. Mentre gli ospedali della capitale Bangkok si riempiono, le autorità si sono affrettate a creare reparti di isolamento ad hoc nei terminal aeroportuali, nei magazzini e nei vagoni ferroviari dismessi. Un ospedale ha fatto ricorso all’affitto di container per immagazzinare cadaveri dopo che il suo obitorio ha esaurito lo spazio.

“Sono preoccupato per la situazione, ma dovremo continuare a combattere nonostante la grave epidemia di COVID”, ha detto all’agenzia di stampa AFP il 27enne manifestante Nat.

I manifestanti si riuniscono durante una protesta contro quello che chiamano il fallimento del governo nella gestione della pandemia di coronavirus [Soe Zeya Tun/Reuters]

Le proteste in corso in Thailandia sono nate come un movimento pacifico organizzato on-line a inizio 2020 da gruppi studenteschi che hanno poi coinvolto più strati della popolazione, scesa nelle piazze dal 18 luglio 2020. Con il passare del tempo, alcune giornate di protesta sono sfociate in violenze. Il movimento di dissenso è nato di fronte alla crescente influenza dell’Esercito nel governo e al ruolo della monarchia. Oltre alle dimissioni del governo, i manifestanti chiedono la democratizzazione del paese, con l’adozione di una nuova costituzione che limiti i poteri del re, Maha Vajiralongkorn, e il reindirizzamento dei fondi di bilancio dall’acquisto di armi dell’esercito all’acquisto di vaccini mRNA COVID-19, Pfizer e Moderna. Gli unici vaccini attualmente in uso sono infatti AstraZeneca, che viene prodotto internamente ma in quantità insufficienti, e Sinovac, che non è altrettanto efficace contro la nuova variante Delta.

La rabbia nei confronti del governo è cresciuta parallelamente alle infezioni, rinvigorendo il movimento di protesta, nonostante la risposta repressiva della reazione.

Alla fine del mese scorso, la polizia ha accusato il rapper adolescente Danupha “Milli” Kanateerakul di diffamazione per un tweet che ha pubblicato a giugno accusando il governo di una lenta risposta alla pandemia. La polizia ha detto ai giornalisti all’epoca che anche più di due dozzine di altre celebrità erano indagate, la maggior parte per post simili.

Prayut è salito al potere dal 2014, dopo aver realizzato un colpo di Stato. Nel 2017, il premier thailandese aveva adottato una nuova Costituzione ampliando i poteri della corona e conferendo all’Esercito il compito di nominare i membri del Senato che, a loro volta, nominano il premier. Prayut è poi rimasto alla guida del Paese anche dopo le ultime elezioni nazionali, organizzate nel 2019, alle quali è risultato vincitore, nonostante in molti ritengano che le votazioni siano state manipolate in suo favore.  Gli attacchi alla monarchia, invece, avrebbero dimostrato che è in corso un generale cambiamento sociale interno al Paese. In Thailandia, rivolgere critiche alla corona è un reato, secondo la legge di lesa maestà, che prevede pene fino a 15 anni di reclusione. La stessa Costituzione thailandese sancisce poi che alla monarchia spetti una posizione di venerazione.

La Thailandia è diventata una monarchia costituzionale il 24 giugno 1932 quando tale forma di governo ha sostituito la monarchia assoluta, in seguito all’azione di un gruppo di militari e civili che si definiva Movimento del Popolo. Da allora, però, il Paese ha adottato almeno 18 Costituzioni e ha assistito a 13 colpi di Stato. Nel tempo, si sono verificate più ondate di protesta a sostegno della democrazia che nel 1973 e nel 1992 videro una violenta repressione da parte delle autorità e che portarono alla morte più manifestanti.

Patrick Zaki, in carcere da un anno e mezzo: «Cella rovente, condizioni disumane»

Patrick Zaki è in carcere da un anno e mezzo, esatto. Lo studente egiziano dell’università Alma Mater di Bologna dorme per terra, in un’affollata cella del famigerato carcere di Tora alla periferia del Cairo.

18 mesi di detenzione illegale

Quella mattina del 7 febbraio 2020 Patrick Zaki era appena arrivato all’aeroporto del Cairo. Una breve vacanza per rivedere la famiglia per poi tornare ai suoi studi all’Università di Bologna. Fuori lo aspettano i suoi famigliari, lo chiamano al telefono mentre fa la fila ai controlli dei passaporti, non vedono l’ora di riabbracciarlo. Non succederà. Nel giro di pochi minuti comincia un incubo che oramai dura da un anno e mezzo. Zaki viene arrestato, è sospettato di “attività sovversiva” e anti-governativa per alcuni post scritti su Facebook. Diciotto mesi, senza un processo, con la carcerazione “preventiva” prolungata ogni volta dal tribunale di 45 giorni, senza fine, in udienze che si ripetono identiche e che i suoi amici definiscono una “farsa”. Amnesty International ha denunciato “il diciottesimo mese di detenzione illegale, arbitraria, senza processo e senza possibilità di difendersi, con accuse tra l’altro di terrorismo, istigazione alla violenza, basate su post social da un account che i suoi avvocati non ritengono sia il suo”. La mobilitazione delle ong continua, come ha ribadito Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

“Per la nostra campagna questo anno e mezzo è trascorso veloce, ricco di mobilitazioni e di iniziative che hanno cercato di tenere alta l’attenzione sulla sua situazione. Ma per Patrick, chiuso nella sua cella della prigione di Tora, è stato un tempo lentissimo, pieno di angoscia, di dolore fisico, di sofferenza mentale”. Zaki soffre di asma e mal di schiena, il supercarcere è affollato e durante la pandemia sono state prese precauzione minime. E’ a rischio, soprattutto di un crollo psicologico, regge con l’aiuto degli amici e degli attivisti, riesce a fare avere all’esterno lettere, messaggi, e da ultimo anche i pezzi di una scacchiera scolpiti a mano da alcune saponette. Ma più passa il tempo, più la lotta è dura. Per l’attivista Amr Abdelwahab il caso è diventato soltanto una “questione politica: comincio a pensare e che tutto quello che ha fatto o farà non conti più niente, tutto dipende da una decisione dei governi italiano ed egiziano”. Oggi è in arrivo il nuovo ambasciato italiano al Cairo, Michele Quaroni, con il difficile compito di salvare il giovane studente.

Val Susa: Sgomberata l’ex dogana di Claviere occupata dagli attivisti No border. Domani manifestazione nel centro di Oulx

Un presidio di solidarietà con i migranti di frontiera. Accusa di invasione di terreni ed edifici per 37 anarchici di Italia, Francia, Belgio e Germania

«Stamattina alle 6 ci siamo svegliati con i colpi di carabinieri, polizia e pompieri che distruggevano le barricate», hanno scritto a caldo gli occupanti dell’ex dogana di Claviere, in Alta Val di Susa, a due passi dal confine francese. «Cercano così di annullare la solidarietà spontanea e diretta su questa frontiera infame. Resistiamo, raggiungeteci. Incontriamoci dopo l’ultimo tunnel al primo parcheggio del paese», hanno aggiunto sui canali social. Gli attivisti No Border sono stati sgomberati ieri, all’alba, dalle forze dell’ordine.

Quell’edificio lo avevano occupato solo pochi giorni fa, il 31 luglio, per dare assistenza ai migranti che tentano di passare il confine tra Italia e Francia e che spesso vengono respinti dalla gendarmerie transalpina. Lo hanno fatto anche per mantenere una presenza frontaliera «in risposta agli sgomberi precedenti», quelli del rifugio Chez Jesus a Claviere, sotto la chiesa, nel novembre del 2018, e della Casa Cantoniera a Oulx, nel marzo del 2021. Una presenza che in questi anni ha aiutato molte persone in fuga dai conflitti e dalla povertà e in cerca di un futuro migliore. In un tragitto complicato, dalle onde del mare ai sentieri impervi (e innevati) delle nostre montagne. Vittime di un diritto alla mobilità tuttora negato.

L’occupazione dell’ex dogana è durata solo cinque giorni, fino all’arrivo della polizia e degli agenti Digos ieri mattina. La Questura di Torino ha comunicato di aver identificato 37 anarchici di Italia, Francia, Belgio e Germania: 31 attivisti si trovavano all’interno dell’edificio, mentre gli altri 6 erano nelle tende nel campeggio a ridosso della frontiera con la Francia. Gli occupanti saranno denunciati per invasione di terreni ed edifici.

Un’azione che ha ricevuto il plauso di tutto il centrodestra e del sottosegretario all’Interno del governo Draghi, il leghista Nicola Molteni. «È stata finalmente ripristinata la legalità e il rispetto della legge», ha detto. Sette migranti, che si trovavano già nel presidio dell’ex dogana, sono stati accompagnati al rifugio Fraternità Massi di Oulx, destinato dal 2018 ai migranti di passaggio in Alta Val di Susa.

L’operazione di polizia è avvenuta mentre a chilometri di distanza, nelle acque internazionali del Mediterraneo, l’ong Sos Méditerranée chiedeva un porto sicuro per la Ocean Viking, in mare da giorni e con a bordo centinaia di persone. Storie connesse per quanto distanti, perché ben rappresentano i percorsi accidentati dei migranti in questi tempi.

Lo sgombero dell’ex dogana era nell’aria. Mercoledì sera lo scrivevano sulla pagina Facebook, negli «aggiornamenti dalla frontiera di Claviere», gli stessi attivisti No Border: «Un possibile sgombero non è scongiurato, quindi servono fresche energie per monitorare la situazione diurna e notturna, nonché gente volenterosa per i lavori pratico-collettivi». E poi: «Servono ancora mobili o materiali da costruzione, divani, letti, materassi, strumenti da cucina, tutto ciò che pensate possa essere utile in un nuovo rifugio occupato». L’obiettivo era costituire un presidio permanente, «perché è qui che le persone in transito vengono ostacolate nel proprio viaggio dagli organi repressivi dello Stato italiano e francese». Un cartello dava il benvenuto: «Libertà di scegliere dove e come vivere, di camminare in ogni dove perché la terra non ha confini né razze né padroni». Gli attivisti hanno già detto che non si daranno per vinti, la solidarietà non si ostacola.

La prima risposta dei collettivi legati all’ex rifugio per migranti Chez JesOulx in seguito allo sgombero di giovedì mattina dell’ex dogana di Claviere occupata è una manifestazione indetta per domani alle 11 nel centro di Oulx. Attraverso la propria pagina Facebook i militanti che si richiamano all’ideale dell’abolizione di tutte le frontiere per favorire la libera circolazione delle persone, a partire dai profughi che ogni giorno tentano la rotta della Val di Susa in direzione di Francia e Spagna, ribadiscono di voler continuare «a lottare contro questa e tutte le frontiere».

L’appuntamento di domani è in programma a Oulx non a caso. Proprio nel paese al centro dell’Alta Valle, infatti, alcuni anni fa era stato allestito il rifugio autogestito per migranti che nell’ex casa cantoniera della Statale 24 occupata abusivamente ha dato a lungo ospitalità a decine di migranti di passaggio in direzione della frontiera. Proprio in seguito allo sgombero della casa cantoniera di Oulx nel mese di marzo è nata la successiva esperienza del campeggio No-Border di Claviere e, la settimana scorsa, la nuova occupazione dell’ex dogana a due passi dal confine italofrancese.

«Facciamoci sentire, la solidarietà non si sgombera!» è lo slogan con cui, anche attraverso i canali di comunicazione di Passamontagna, i collettivi sfrattati dall’ex dogana di Claviere lanciano l’iniziativa di domani che avrà come momento chiave l’assemblea che fornirà «aggiornamenti sullo sgombero e dalla frontiera». Nel corso della giornata previsti anche il pranzo di autofinanziamento denominato «Pranzo benefit inguaiat@ transfrontaliere!» e momenti di musica, canti popolari e rap d’Oltralpe.

No Tav: I violenti siete voi! Sulla narrazione delle “pecorelle indifese” e delle loro rocambolesche dichiarazioni

Riportiamo il comunicato dei Notav sugli avvenimenti di questi ultimi giorni nella Valle. È chiaro che è lo Stato con i suoi apparati reazionari che usano sempre la violenza contro le masse popolari che si ribellano… ma Ribellarsi è giusto!

Nei giorni scorsi abbiamo letto su diversi quotidiani nazionali e locali, le rocambolesche dichiarazioni di diverse figure politiche capeggiate da quelle della Ministra Lamorgese, tutte appiattite a condannare la violenza – a loro dire – inflitta dai No Tav.

Ma non solo, anche il solito Siulp con un fare da piagnisteo, si è ripetutamente lamentato che sono 15 anni che le forze di polizia si trovano a salvaguardare le zone d’interesse per il Tav Torino-Lione in condizioni di estremo pericolo per la vita degli agenti, come se fosse compito loro badare ai grandi cantieri.

Tutti urlano a leggi più severe, invocando provvedimenti come una legge sul terrorismo di piazza, l’introduzione dei proiettili di gomma per sedare la violenza e addirittura la galera per fatti considerati inaccettabili.

Ci piacerebbe ricordare a tutti loro, però, che, come ha detto bene anche il Sindaco di Venaus, il Tav Torino-Lione è di per sé un’opera violenta per il territorio e per la salute di chi lo vive.

Questa narrazione delle pecorelle indifese in balia dei No Tav non regge neanche per un secondo: di seguito alleghiamo foto e video dei lacrimogeni sparati ad altezza uomo puntando al volto o alla testa dei manifestanti o i lanci di sassi lanciati in testa agli stessi da un’altezza di circa 15 metri. Tutte testimonianze dello scorso sabato, in cui le forze dell’ordine hanno iniziato il tiro al manifestante appena i No Tav hanno cominciato a tagliare qualche metro di concertina. La recita del poliziotto indifeso è ridicola visto che oltre 10 No Tav sono stati feriti e medicati a causa della gragnuola di lacrimogeni (per questo ringraziamo le brigate sanitarie e gli amici e le amiche che si sono presi/e cura di chi è stato colpito). Lo stesso uso improprio dei lacrimogeni aveva portato alcuni mesi fa al ferimento grave di Giovanna e precedentemente di tanti altri.

Difendere un cantiere perché si è mercenari stipendiati non equivale in nessun caso a doversi difendere da un’opera ecocida e mortifera e da un’occupazione militare della propria terra.

Vorremmo fare notare anche che i mass media, ancora una volta, hanno sporto il fianco a questa kermesse patetica e noiosa, intervistando inoltre tutti i possibili candidati sindaci della città di Torino, senza ovviamente dare voce al Movimento No Tav che, siamo sicuri, sarebbe stato capace di fornire una fotografia basta su un vero piano di realtà. Quel piano di realtà che quotidianamente ci si trova a vivere in Valsusa e che vede un territorio devastato e occupato da fin troppi anni da chi ha solo cura del proprio portafoglio e del proprio profitto.

E quindi, chi pagato svolge il lavoro dalla poltrona di un ufficio a Torino, raccoglie le veline della Questura e su quello ricama storie  quantomeno inverosimili (come un petardo che si infila tra un casco e una maschera anti-gas) tralasciando, invece, che questi “poveri poliziotti” come vengono dipinti, sono invece individui che volutamente agiscono con il tentativo e spesso la volontà di fare davvero male ai No Tav, lasciatecelo dire, non svolge il suo lavoro in modo oggettivo e obiettivo, ma si inserisce perfettamente in un quadro d’insieme che spinge e urla alla criminalizzazione del Movimento senza se e senza ma.

Lasciamo a voi le conclusioni, noi che su quei sentieri, a differenza di tutti questi chiacchieroni, invece, c’eravamo continuano ad essere convinti, oggi più che mai, di essere dalla parte della ragione nel difendere la nostra terra con determinazione e coraggio.

Perché, lo abbiamo detto tante volte e lo vogliamo ribadire anche adesso alla luce delle molteplici e allucinanti dichiarazioni di questi giorni, fermarlo è possibile e fermarlo tocca a noi!

Pestaggi in carcere, nella commissione d’inchiesta presente anche chi guidò la catena di comando

Chi controlla il controllore?  Il Dirigente del Provveditorato regionale che dispose il trasferimento da Modena i reclusi, ora è nel pool del Dap che dovrà far luce sui pestaggi

Da Osservatorio repressione

Il 22 luglio scorso, su spinta della ministra della Giustizia Marta Cartabia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ( Dap) ha istituito una commissione per far luce sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza. Parliamo delle segnalazioni riguardanti i presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri italiane. Nel pool è presente anche Marco Bonfiglioli, il dirigente del provveditorato regionale che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti dal carcere Sant’Anna di Modena, tra i quali quelli che morirono durante il viaggio, o all’arrivo, verso le altre carceri.

Non è un dettaglio da poco, perché se da una parte c’è stata un’archiviazione del procedimento relativo alla morte di otto persone detenute del carcere modenese avvenuta all’indomani delle rivolte del marzo 2020, dall’altra rimane ancora in piedi la nona morte: quello del detenuto Salvatore Piscitelli, morto ad Ascoli durante il trasferimento. In ogni caso, anche se c’è stata un’archiviazione nei confronti degli altri detenuti, la commissione istituita dal Dap è una indagine interna, quella del ministero della Giustizia, che ha la possibilità di verificare le irregolarità al di là dei procedimenti giudiziari.

Il fatto che tra i componenti della commissione istituita dal Dap ci sia il dirigente Bonfiglioli, il provveditore che coordinò il trasferimento, espone il pool al rischio di non essere super partes. Ciò non significa assolutamente che sia responsabile dei fatti accaduti, ma se si vuole fare una indagine serena, forse sarebbe opportuno tenere fuori dal pool la catena di comando che operò in quei terribili e difficili giorni.

I trasferimenti disposti dal provveditorato rimangono il nodo cruciale. Secondo l’avvocata di Antigone Simona Filippi alcuni detenuti barcollavano, non stavano in piedi. «Secondo noi non si poteva procedere a quei trasferimenti che invece avvennero», ha spiegato l’avvocata Filippi. Alcuni detenuti arrivarono a destinazione già deceduti, altri durante il viaggio, altri ancora morirono una volta giunti nella nuova cella.

C’è appunto il caso di Salvatore Piscitelli sulla cui morte è stata aperta un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni suoi compagni trasferiti anch’essi dal Sant’Anna di Modena. Secondo questi detenuti, Piscitelli era stato picchiato e stava malissimo a causa delle sostanze assunte. A più riprese, sempre secondo la loro testimonianza, fu richiesto l’intervento degli agenti penitenziari e quindi del medico senza che avvenisse nulla. Fino a che non venne, semplicemente, constatato il decesso.

Come detto, la commissione è stata costituita giovedì scorso con un apposito provvedimento firmato dal Capo del Dap, Bernardo Petralia, e dal suo vice, Roberto Tartaglia. Alla Commissione viene richiesto di procedere agli accertamenti e ai controlli necessari, con il supporto dell’Ufficio attività ispettiva del Dipartimento, «con un metodo di lavoro collegialmente organizzato, strutturato, coerente e omogeneo per tutti gli istituti interessati» e di riferire ai vertici del Dap entro 6 mesi dalla prima riunione.

La commissione sarà presieduta dal magistrato Sergio Lari, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e oggi in quiescenza, individuato – come si legge nel documento del Dap – per la sua «lunga e comprovata esperienza e capacità» alla direzione di un importante ufficio inquirente.

L’ex procuratore Lari sarà coadiuvato da 6 componenti, scelti – si legge nella nota del ministero della Giustizia – «fra operatori penitenziari di lunga e comprovata esperienza e capacità professionale». Ovvero Rosalba Casella, Giacinto Siciliano, Francesca Valenzi, Luigi Ardini, Riccardo Secci e Marco Bonfiglioli. Quest’ultimo, del quale non si mette in dubbio l’esperienza e la capacità professionale, essendo appunto il provveditore che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti del carcere di Modena, potrebbe risultare inopportuno.

La commissione nasce anche con lo scopo di fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti nel marzo 2020. Per quello non serve scomodare vari retropensieri. La causa viene da lontano: un sistema penitenziario che, con la pandemia, ha messo a nudo tutta la sua fragilità preesistente. Le dietrologie ( si parlava di regia unica per ottenere benefici, una sorta di riedizione della “trattativa Stato- mafia”), invece, servono per mettere sotto il tappeto le complessità. Ma non sarebbe la prima volta.

Damiano Aliprandi

Paola è un fiore rosso che non muore mai, è il fiore della solidarietà, dell’amore rivoluzionario. Domani con lei nell’ultimo saluto

Care compagne e cari compagni,
per chi vuole salutare Paola, la camera ardente sarà aperta presso il policlinico Campus bio-medico di Roma, dalle 8 alle 9 di martedì 3 agosto. Paola verrà poi portata nei locali dell’associazione Lignarius e della Fondazione “La Rossa Primavera”, in Via Mecenate 35 dove la ricorderemo tutti insieme, dalle 9,30 alle 11. (Vi preghiamo entrando nei locali di usare la mascherina e di rispettare le precauzioni anti Covid). Chi lo desidera, potrà poi accompagnarla fino al cimitero di Prima Porta. Per espresso desiderio di Paola, a settembre ci sarà una grande festa in suo ricordo.

Paola

Sei stata e sei il coraggio della verità, la ragione della rivoluzione, l’amore universale del comunismo

Paola

Che hai dato voce ai senza voce, che hai sfidato il silenzio, il bigottismo e l’ipocrisia borghese sulle lotte dei proletari e delle proletarie rivoluzionarie

Paola

Che con il corpo, l’anima, la penna, con la paziente ricerca, la tenacia, la solidarietà proletaria, l’amore rivoluzionario, hai superato anche i confini, le sbarre delle nere galere, per portare alla luce quello che vogliono tenere in ombra, per dissotterrare le vite, le lotte e gli obbiettivi delle prigioniere e dei prigionieri rivoluzionari. Il dolore e la passione per la libertà e la lotta. La dignità della lotta e della vita, anche per i compagni e i proletari rinchiusi nelle carceri dell’imperialismo

Per portare alla luce la luce del tuo cuore, il cuore di una comunità rivoluzionaria che lottava e lotta per la libertà e l’uguaglianza, per la necessità, storica, della rivoluzione, per un mondo migliore

Né la malattia, né la prigione sono riusciti ad arrestare la tua coerenza e lotta contro questo sistema capitalistico assassino, fatto di repressione e guerre, desolidarizzazione, torture, devastazioni, nocività, sfruttamento, malattie, morte.

A te, Paola, grande guerriera vittoriosa di numerose battaglie, indimenticabile compagna, vogliamo salutare con l’inno “alla vita” di Nazim Hikmet.

Con te, Paola, vinceremo la guerra contro il capitalismo e le malattie che produce

Per la vita, per la libertà, per la bellezza, per la salute della natura e dell’umanità, ci prenderemo cura ogni giorno di quel fiore rosso che anche tu hai coltivato per tutta la vita

Il fiore rosso della rivoluzione, che illuminerà col bagliore dell’aurora una società di nuova democrazia.

Grazie Paola

Le compagne e i compagni del soccorso rosso proletario

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

Nazim Hikmet, 1948