Il questore di Roma vieta le manifestazioni, anche statiche, a lavoratrici e lavoratori

Il governo usa le azioni dei fascisti/novax per una stretta repressiva indiscriminata contro cortei e manifestazioni. Invece di colpire seriamente i fascisti novax e rompere con i loro referenti politici Salvini/Meloni, colpisce le manifestazioni legittime e necessarie di lavoratori e lavoratrici. Proprio il questore di Roma, che il 9 ottobre si è reso responsabile dell’assalto fascista a una sede sindacale, si permette ora di sospendere il diritto a manifestare, costituzionalmente garantito, delle lavoratrici Alitalia.

Da Osservatorio repressione

“Dovete stare zitti e buoni”. La Questura di Roma sospende i diritti costituzionali

La questura di Roma vieta, senza spiegare il motivo, due manifestazioni statiche indette dall’Usb in piazza SS. Apostoli

Riceviamo notizia in queste ore di una sospensione (temporanea?) dei diritti costituzionali.

La settimana passata sono state convocate due manifestazioni statiche, una prevista in piazza SS. Apostoli venerdì 22 ottobre per la gratuità dei tamponi nelle aziende partecipate pubbliche ed una convocata sempre a piazza SS. Apostoli per oggi, mercoledì 20 ottobre promossa dalle lavoratrici Alitalia. Le due manifestazioni erano state, ovviamente, regolarmente comunicate alle autorità competenti.

Una “informale” telefonata della Questura di Roma, ricevuta dalla sede nazionale della Confederazione USB, ha comunicato verbalmente il divieto di svolgere le manifestazioni, senza spiegarne le ragioni, senza spiegarne i motivi, i fondamenti giuridici, senza indicare la fonte da cui è partito il divieto se non con un generico riferimento al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica.

È stato inoltre dichiarato il diniego a mettere per iscritto il divieto.

La mancanza di forma scritta impedisce di fatto ogni reazione che si inscriva nei fondamenti dello Stato di diritto e proietta questo divieto nella categoria, di matrice autoritaria, degli ordini indiscutibili.

Ma noi abbiamo da sempre il vizio di porre delle domande, anche quelle più scomode. Chi ha deciso che non si può più manifestare? Il divieto riguarda tutti, qualsiasi soggetto promotore di una manifestazione? Riguarda qualsiasi tema? Attiene a qualsiasi piazza? È un divieto permanente? Ed è definitivo pure il diniego a fornire motivazioni? Di indicare le fonti normative e le autorità preposte che hanno stabilito questa arbitraria sospensione delle garanzie costituzionali?

Quanto sta accadendo è di una gravità senza precedenti. USB e Centro Iniziativa Giuridica (Ce.In. G.) non staranno né zitti né buoni. Rivendichiamo “il diritto di riunirsi pacificamente”, chiederemo che ci vengano indicati “i comprovati motivi di sicurezza e si incolumità pubblica”, debitamente specificati per le due manifestazioni. Rivendichiamo il diritto di parola, di pensiero. E di dissentire. Appunto, né zitti, né buoni.

Unione Sindacale di Base

Centro Iniziativa Giuridica Abd El Salam

DIRITTO ALLA CASA: SGOMBERO POLIZIESCO AL QUARTIERE POPOLARE SAN LORENZO DI ROMA

Da radiondadurto

Il ballottaggio elettorale non ha fermato gli sgomberi abitativi a Roma, dove lunedì 18 ottobre la polizia ha atteso che il picchetto in difesa di Carlos, 68enne in difficoltà economica, terminasse – nel primo pomeriggio – per poi eseguire lo sgombero dell’appartamento dove vive ormai da un quarto di secolo, nel quartiere capitolino di San Lorenzo, da anni al centro di un processo di gentrificazione e turistificazione, con la conseguente espulsione delle classi popolari. 

Ci racconta cosa è successo Stefano Portelli, attivista di Rent Strike-Sciopero degli Affitti, raggiunto nel pomeriggio di lunedì 18 ottobre. Ascolta o scarica

Sulla vicenda va registrata anche la presa di posizione del Movimento per il Diritto all’Abitare di Roma, assieme ad Asia – Usb e Cambiamo Rotta. Convocata in piazza Santi Apostoli, sotto la Prefettura, una conferenza stampa, per le ore 12 di martedì 19 ottobre.

Di seguito, il comunicato:

“Cambia l’amministrazione, continuano gli sfratti!
Martedì 19 ottobre ore 12 conferenza stampa davanti alla Prefettura.
Nel momento in cui ci si apprestava a chiudere i seggi e contare le schede elettorali, Carlos è stato sfrattato con la forza pubblica dalla casa e dal quartiere in cui abitava da decenni, San Lorenzo, per finita locazione, senza alcuna soluzione alternativa né considerazione per le sue condizioni di fragilità economica. Uno sfratto a cui abbiamo assistito a fronte dei troppi che non conosciamo, considerato che solo nell’ultimo anno sono stati richiesti oltre 4,500 provvedimenti di sfratto esecutivi, e che già nelle prossime ore saremo impegnat* in nuovi appuntamenti (a partire dalla difesa di Marco, mercoledì 20, truffato dei Piani di Zona, a via Monte Stallonara 90).
Vogliamo chiedere direttamente a chi si appresta ad amministrare questa città, e al Prefetto Piantedosi: è questa la graduazione degli sfratti che immaginate? E’ ancora una volta la risposta muscolare e di ordine pubblico quella che, ammantata di una patina di sensibilità per le fragilità sociali, si continua ad opporre, approfittando quando la città è distratta a guardare altro?
Queste questioni le porremo martedì 19 ottobre, con una conferenza stampa convocata alle ore 12 davanti alla Prefettura, in piazza SS. Apostoli, ribadendo ancora una volta la necessità di riaprire quanto prima il confronto bruscamente interrotto dopo la soluzione positiva per viale del Caravaggio. Il diritto all’abitare non può aspettare!
Movimento per il Diritto all’abitare
ASIA-USB
Cambiare Rotta”

Arrestato l’attivista palermitano Chadli Aloui. A lui la solidarietà del SRP, che rilancia in occasione del processo che si terrà il 3 novembre

A Palermo Chadli Aloui, studente universitario, attore teatrale e istruttore sportivo, è stato arrestato nella notte tra il 13 e il 14 ottobre mentre si trovava a casa.

Della sua vicenda ne avevamo già parlato, quando ad Aprile scorso, a seguito della sentenza del Tribunale che gli ha imposto la sorveglianza speciale, è costretto all’obbligo di rientro serale presso il proprio domicilio.

La sera del 13 ottobre, durante un controllo, gli agenti di polizia hanno ripetutamente provocato i suoi familiari con insulti e spintoni.

Poi hanno anche disposto l’arresto di Chadli e denunciato un componente della sua famiglia con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale.

Il 14 ottobre c’è stato il processo per direttissima contro Chadli che si è concluso con un rinvio a giudizio al 3 novembre. Nel frattempo Chadli è stato rilasciato con obbligo di firma.

In questi giorni a Palermo è partita una campagna di solidarietà per sostenerlo di fronte all’ennesimo sopruso.

Ci racconta quanto accaduto Domiziana, compagna di Antudo Palermo. Ascolta o scarica

Da radiondadurto

Strage al carcere di Modena: la procura riapre il caso sulle violenze dopo rivolta del marzo 2020

La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate.

È lo scossone che riapre il caso del Sant’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti. Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto.

Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato “come un animale”.

“Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora”.

Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. “Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”.

Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani “rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita”.

A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura. “È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda”, commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta.

L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno”.

A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti”. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi. Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazi, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta.

Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che “lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”. Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere. Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti.

Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura.

Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman. Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. “Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti”. Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. L’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno

Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte. Alle richieste di aiuto lanciate dal cellante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde “lasciatelo morire”. E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. “A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato”.

Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. “A Modena”, scrive, “molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle”. Ad Ascoli, invece, “la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva”.

Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso.

Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto.

“Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane”.

Pierfrancesco Albanese

da: L’Espresso

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“Due anni per vedere mio figlio, chiedo dignità per lui e verità per le vittime”

La rivolta al carcere. Dai fatti dell’8 marzo 2020, il primo incontro in carcere di Anna Maria, con il figlio, firmatario dell’esposto sulla morte di nove detenuti, e ancora in carcere. Il calvario di una madre che pare non avere fine.

Anna Maria è una madre che non si arrende e combatte ogni giorno per i diritti di suo figlio, carcerato, ma non solo. Anche per chiedere verità sulla morte dei nove detenuti deceduti durante e dopo la rivolta al carcere di Modena dell’8 marzo 2020. Quel giorno C., suo figlio, oggi 41 enne, napoletano, in carcere per scippi ed altri reati predatori, si trovava all’interno del carcere. E’ uno di coloro che si trovò nel mezzo di quella rivolta che ha scritto una pagina nera nella storia del sistema carcerario Italiano. Una volta repressa, la rivolta seguì il trasferimento dei detenuti in altre carceri d’Italia. Quello di Modena era distrutto e per mesi non avrebbe più ospitato nessuno. Pur non accusato, per lui iniziò un calvario, fatto di trasferimenti da un carcere all’altro. ‘Per più di un mese non abbiamo avuto notizia di lui.

Non ci avevano detto nemmeno se era tra i morti oppure no’ – afferma Anna Maria. La incontriamo in centro, a Modena, nel presidio organizzato dal Consiglio Popolare di Modena che si è offerto per pagarle il viaggio e la permanenza in Emilia-Romagna per il tempo necessario per la visita. E dal centro ci racconta il suo dramma. Da madre con un figlio in carcere a 700 chilometri di distanza da casa. Che per settimane dopo la rivolta non sapeva dove era o se era rimasto ferito. Durante i trasferimenti nelle carceri italiane dei detenuti, che seguirono la rivolta.

Prima Ascoli Piceno, poi il ritorno a Modena per gli interrogatori, poi altri penitenziari e poi, ultimo in ordine di tempo di una serie lunghissima di spostamenti, Parma. Dove Anna Maria lo ha incontrato sabato mattina, dopo due anni da quei fatti. Al termine di un assurdo percorso che l’ha portata, disperata, a fare appello al garante dei detenuti della Campania che ha creato un canale con il suo omologo emiliano romagnolo (con il quale la famiglia non era mai riuscita a parlare), per l’incontro in carcere a Parma. Dove Anna Maria ha potuto vedere e parlare al figlio attraverso un vetro. Lui è uno dei firmatari dell’esposto denuncia per chiedere chiarezza sulla morte la morte di Salvatore Sasà Piscitelli, avvenuta ad Ascoli Piceno, l’unico decesso non ricondotto ad una morte per overdose e per il quale ancora si indaga. E sul cui caso anche Anna Maria chiede verità: ‘Non sono ancora state rese note le immagini di ciò che successe nel carcere di Ascoli Piceno dove anche mio figlio venne subito trasferito. Se sono state diffuse le immagini dei gravi fatti di Santa Maria Capo a Vetere, perché, a due anni di distanza, non viene fatta chiarezza con le immagini su quanto successe ad Ascoli?’.

Ma il dramma vissuto ancora oggi da Anna Maria, da poco pensionata con problemi di salute che oggi le rendono difficile viaggiare da Napoli a Parma, per fare visita al figlio, si estende al trattamento dei detenuti. ‘Mio marito è morto un anno fa e a mio figlio non è stato permesso né di partecipare al funerale né di visitare la tomba, non gli hanno risposto alla domanda di potere seguire i corsi universitari che aveva ripreso, e ormai sappiamo che perderà anche quest’anno. Inoltre gli è stata negata la richiesta di ottenere un trasferimento in un carcere più vicino a Napoli per permettere i colloqui. Negata, anche se era l’unica possibilità per vederci, ogni tanto.

Siamo rimasti solo io e suo fratello ma io ho problemi di salute, presto mi dovrò operare e difficilmente riuscirò a breve a tornare a Parma. Poi c’è un fattore economico, legato al cibo e non solo. I detenuti hanno la possibilità di ordinare alcuni alimenti da una ditta in appalto che due volte la settimana si reca all’interno. Dobbiamo pagare anche un pomodoro e una fettina di carne in più, senza considerare che quando uscirà dovrà pagare il carico di 105 euro al mese per il periodo di permanenza in carcere. Migliaia di euro, non so come faremo. Non smetteremo mai di combattere per dare dignità ai detenuti come lui e affinché la verità su quelle morti emerga’

da: lapressa.it

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Contro l’archiviazione per gli episodi del marzo 2020

Le famiglie di due degli otto detenuti morti quando a marzo 2020 scoppiò una rivolta nel carcere di Modena, in concomitanza con altre sommosse simili in altri istituti penitenziari, presenteranno ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione del fascicolo, decisa lo scorso giugno. Il ricorso, come riferito dal Tgr Rai Emilia-Romagna, sarà sottoscritto dall’avvocato Luca Sebastiani, che difende i parenti di Chouchane Hafedh e di Baakili Ali, e predisposto anche dall’avvocato Barbara Randazzo e dal professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che tra l’altro ha patrocinato e vinto il caso alla Cedu sul G8 di Genova.

da: ANSA

L’antifascismo non si processa! Solidarietà agli antifascisti di Genova sotto processo

Più di 50 compagni sotto processo per “i fatti di piazza Corvetto” contro il comizio elettorale di CasaPound del 23 maggio del 2019, in piazza Marsala. A protezione di una decina di neofascisti lo Stato aveva messo in campo 300 poliziotti che avevano pesantemente caricato e pestato i manifestanti.

Lo Stato del Capitale, questo governo, continuano a colpire chi si oppone a fascismo, razzismo, sfruttamento nei luoghi di lavoro, mentre coprono e proteggono le organizzazioni fasciste che devono essere messi fuori legge. 

Giù le mani dagli antifascisti!
Chiudere le sedi/sciogliere le organizzazioni neofasciste! 

Di seguito l’appello che invitiamo a sottoscrivere

L’antifascismo non si processa!

Come Genova Antifascista scriviamo quest’appello in forma di lettera aperta che invitiamo a sottoscrivere alle realtà politiche, alle organizzazioni sindacali, alle associazioni ed ai singoli riguardo al processo in cui sono imputati una cinquantina di compagni e compagne per la manifestazione antifascista del 23 maggio 2019.

Per il 23 maggio del 2019 viene concessa alla formazione neo-fascista Casa Pound l’autorizzazione per la tenuta del comizio finale della sua campagna elettorale per le “europee” in una piazza centrale del capoluogo ligure.

La piazza concessa, antistante a Piazza Corvetto, viene data nonostante le varie forme di pressione e gli appelli alle autorità locali nel non far tenere tale iniziativa. Appelli e iniziative che sono cadute nel vuoto.

È una settimana particolare per Genova.

Lunedì mattina, grazie ad una mobilitazione che ha portato allo sciopero dei lavoratori addetti al carico-scarico del terminal e ad un presidio solidale ai varchi, era stato impedito l’imbarco di materiale militare che sarebbe stato impiegato nella guerra in Yemen sulla nave saudita Bahri Yanbu attraccata alle banchine genovesi.

Sarà la prima di numerose iniziative di azione e denuncia nella città contro il traffico di armi nello scalo ligure.

Mercoledì, vi era stata una mobilitazione degli insegnanti a Genova – come nel resto d’Italia – contro i provvedimenti per la docente in Sicilia che aveva osato criticare l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, e lo stesso giovedì in cui si sarebbe dovuta tenere la kermesse elettorale neo-fascista vi era stato uno sciopero di 24 ore in porto proclamato da differenti sigle sindacali.

La tenuta del comizio di Casa Pound è giustamente valutata come una provocazione quindi da una parte non trascurabile della città, ancor più per la sordità delle istituzioni cittadine e l’ingente militarizzazione che sin dalla mattina costruisce una specie di “cordone sanitario” attorno alla piazza concessa ai neo-fascisti.

Saranno circa 300 gli agenti impiegati per difendere alcune dozzine di neo-fascisti che si erano resi responsabili in precedenza di diverse aggressioni, tra cui un accoltellamento.

Bisogna ricordare che in quelle settimane, in differenti forme, in diverse città la presenza neo-fascista e leghista era stata duramente contestata con determinazione a Casalbruciato a Roma, come a Firenze e a Bologna.

Un segno tangibile dell’opposizione ad un governo guidato da Lega e Movimento 5 Stelle e alle loro politiche.

Per le 16:30 del 23 maggio veniva lanciato un concentramento in piazza Corvetto che in breve tempo si riempie di persone di ogni età, tra cui molti giovanissimi, mentre un nutrito numero di agenti protegge la piazza concessa ai fascisti.

Ai tentativi di forzare il cordone sanitario predisposto a difesa di Casa Pound cinturato dietro alte gabbie di metallo in direzione della piazza, viene risposto con un continuo lancio di lacrimogeni (il primo, colpisce la vetrina di una celebre pasticceria frantumandola) e la pressoché chiusura ermetica delle vie di fuga dalla piazza che però non smobilita né arretra. Il comizio che conta un numero irrilevante di persone viene svolto in fretta e furia disturbato dal fumo dei lacrimogeni che la direzione del vento sposterà verso i “camerati”, i cori contro i neo-fascisti e le canzoni partigiane.

Finito il comizio, le forze dell’ordine si impegneranno a sgomberare la piazza con cariche e manganellate ed il lancio di lacrimogeni ad altezza uomo, dando luogo a ripetuti pestaggi. Una persona, che si scoprirà essere un giornalista, verrà letteralmente massacrato di botte, “salvato” per così dire da un graduato che riconoscendolo si getta su di lui per schermarlo dagli agenti che lo stavano picchiando.

In questo contesto due persone vengono fermate. Saputa la notizia dalla piazza, parte un nutrito corteo che si dirige fuori la questura per chiedere la liberazione immediata dei manifestanti.

Per i “fatti di piazza Corvetto” sono stati denunciati ed ora sono sotto processo (diviso in due tronconi) più di una cinquantina di compagni e compagne, una parte consistente dei quali con accuse per reati che prevedono per ciascuno decine di anni di galera, qualora fossero condannati con il massimo della pena.

Si tratta di uno dei processi “politici” con più imputati e per reati più gravi che abbia visto la storia giudiziaria di Genova dal dopo-guerra ad oggi. Un tentativo di punire collettivamente chi ha voluto rispondere alla provocazione neo-fascista quel giorno, di annichilire il corpo di attivisti che in questi anni hanno portato avanti importanti battaglie politiche e sindacali in questa città che sono tra gli imputati, ed un monito verso le nuove generazioni che vogliono organizzarsi efficacemente contro la macelleria sociale e la deriva autoritaria, e l’assenza di prospettive in questo Paese.

Ma questo processo non è che un segmento di una repressione più ampia che si è abbattuta su attivisti e movimenti anche a Genova con inchieste, altri processi e provvedimenti di Sorveglianza Speciale.

È necessario fare sentire la solidarietà ai compagni ed alle compagne sotto processo e chiedere a gran voce il proscioglimento delle accuse per cui sono imputati, così come promuovere un’ amnistia politica e sociale generalizzata per chi in questi anni non ha piegato, e non intende piegare, la testa nonostante la repressione subita.

Per chi volesse sottoscrivere l’appello scrivere a: genovaantifascista@gmail.com 

La Cassazione dà ragione a Nadia Lioce: inutile e immotivatamente vessatorio negare ai detenuti in 41 bis di poter acquistare al sopravvitto gli stessi generi alimentari previsti per i detenuti comuni

Nadia Lioce è ancora in 41 bis, mentre pluriomicidi mafiosi come Brusca, che hanno sulla coscienza centinaia di morti e bambini sciolti nell’acido sono liberi, protetti e pagati dallo Stato, un’ingiustizia assoluta!

La criminalità mafiosa è un aspetto del capitalismo, è la sua faccia illegale, il suo braccio illegale che sempre più spesso i padroni usano per schiacciare e intimidire i lavoratori.

Ma allora è la ragion di Stato che condanna Nadia Lioce ad un isolamento totale e perenne, dove è vietato leggere, scrivere, parlare, persino ascoltare! E’ la tendenza alla rivoluzione e la solidarietà di classe che Stato e padroni vogliono colpire, attraverso questi compagni e queste compagne! E’ il passato che li tormenta e il futuro che li attende lo scopo dell’applicazione del 41bis sui prigionieri politici!

Cancellare la storia e chiudere ogni prospettiva rivoluzionaria alla lotta di classe, alle lotte sociali, per spegnerle, per allontanare i fantasmi, quelle “ombre rosse” che tanto li hanno fatti tremare….questo è ciò che emerge chiaramente dall’ennesimo decreto ministeriale di proroga del 41bis a Nadia Lioce.

Ecco perché pensiamo che la lotta contro il carcere/assassino e il carcere/tortura sia una lotta che è parte della repressione antiproletaria e riguardi tutti i proletari e le masse popolari e che la difesa delle condizioni di vita dei prigionieri politici debba essere sostenuta e assunta dai lavoratori in lotta.

Dalla stampa:

Lioce e gli altri carcerati al 41-bis possono acquistare il cibo in più

Accolto il ricorso limitatamente alla richiesta di avere generi alimentari come i detenuti comuni  Annullato con rinvio al tribunale di Sorveglianza l’aspetto della cottura dei cibi all’interno della cella

L’AQUILA. I detenuti nel carcere di località Le Costarelle di Preturo in regime di 41 bis possono acquistare (fino a 500 euro al mese), al cosiddetto “sopravvitto”, gli stessi generi alimentari previsti (da un’apposita tabella) per i detenuti comuni (per i quali il limite di spesa è 900 euro). Lo ha stabilito la Corte di Cassazione.

A fare ricorso al Tribunale di Sorveglianza erano stati diversi detenuti tra cui la brigatista rossa Nadia Desdemona Lioce ristretta in una cella unica e con le regole del 41 bis. La Cassazione ha invece annullato con rinvio al Tribunale di sorveglianza un secondo aspetto del ricorso, che riguarda la possibilità di cucinare i generi alimentari di “sopravvitto” al di fuori “delle fasce orarie previste per i detenuti soggetti a regime differenziato”.
La Corte di Cassazione, in realtà, si è pronunciata su un ricorso del ministero della Giustizia che aveva contestato la prima decisione del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila, Tribunale che aveva dato ragione alla Lioce, e agli altri detenuti, su entrambe le questioni. Secondo i giudici dell’Alta Corte “il Tribunale di sorveglianza ha motivato in modo adeguato e corretto in punto di diritto quanto al rigetto del reclamo proposto dall’Amministrazione in merito alla limitazione dei generi alimentari acquistabili al sopravvitto dalla Lioce, detenuta in regime differenziato, ritenendo la cosa ingiustificata poiché non funzionale alle finalità dell’istituto. Il giudice di merito, infatti, ha osservato che l’argomentazione svolta dall’Amministrazione circa la finalità di prevenzione dei rischi che all’interno delle sezioni del circuito differenziato si possano manifestare, anche attraverso il possesso di determinati generi alimentari – affermative di uno status da parte dei detenuti più facoltosi – non sia affatto fondata ma, al contrario, appaia inutile e immotivatamente vessatoria rispetto alle ordinarie regole. Il Tribunale ha precisato che la detenuta è allocata in cella singola e al massimo può scambiare i prodotti alimentari acquistati con i componenti del proprio gruppo di socialità, e, pertanto, sono da escludere eventuali manifestazioni di supremazia o carisma criminale paventate dall’Amministrazione, anche perché gli alimenti contemplati al sopravvitto in genere non sono prodotti di lusso, né particolarmente costosi”.

Diversa è la questione della cottura dei cibi. La Cassazione scrive: “Il Tribunale di sorveglianza ha affermato che la cottura di cibi in orari diversi non recherebbe fastidio o disagio ad altri detenuti, in quanto avviene all’interno della cella singola occupata dalla detenuta Lioce che, sempre da sola, li consumerebbe all’interno della propria camera. In realtà, il giudice di merito non ha fornito, al riguardo, una motivazione effettiva circa la ragione per la quale l’aver definito le fasce orarie nel corso delle quali è consentito cucinare ai detenuti assoggettati al regime differenziato, costituirebbe una scelta esorbitante dal ragionevole contemperamento tra il riconoscimento della possibilità di riscaldare liquidi e cibi già cotti e di preparare cibi di facile e rapido approntamento nella camera detentiva e le eventuali concrete esigenze organizzative vigenti all’interno della sezione 41-bis dell’istituto dove è ristretta la Lioce”. La Sorveglianza deve approfondire meglio il caso.

Lo Stato borghese, governo e polizia, ai fasci e no vax lasciano fare tutto quello che gli pare, agli operai che scioperano repressione!

Ancora repressione delle lotte operaie: denunciati 8 “promotori” della manifestazione dell’11/10 ad Amazon

LA REPRESSIONE CONTRO LE LOTTE OPERAIE E A DIFESA DEI PROFITTI NON CONOSCE SOSTA.

8 partecipanti alla manifestazione di lunedì 11 ottobre fuori ai cancelli Amazon, in occasione dello sciopero generale nazionale, sono stati denunciati. Stando alle veline della questura, sarebbe inoltre in preparazione un’altra ondata di provvedimenti amministrativi e fogli di via.

Da il Piacenza

A due giorni dalla maxi manifestazione al Logistic Park di Castelsangiovanni ecco che arrivano le conseguenze. La polizia ha denunciato per violenza privata e manifestazione non autorizzata i promotori dei blocchi al magazzino Amazon e dei due cortei non autorizzati per un totale di 8 denunce ma potrebbero arrivarne altre. Alcuni di questi 8 e anche altri saranno anche destinatari di fogli di via o dell’avviso orale. Tutti sono appartenenti al sindacato SI Cobas. Si legge in una nota della questura: «Questi (i promotori), oltre a non aver rispettato l’obbligo di preavviso (la normativa di settore prevede che le manifestazioni debbano essere preavvisate almeno tre giorni prima all’autorità locale di pubblica sicurezza), hanno dato vita a due cortei non autorizzati: sul tratto di strada che collega il Logistic Park al magazzino Amazon, mentre all’interno del parcheggio della multinazionale era in atto un ulteriore corteo da parte dei manifestanti provenienti da fuori provincia». «I manifestanti  – continua la nota – dopo i due cortei – si sono attestati all’ingresso del magazzino dove hanno impedito il transito ad alcuni mezzi diretti ad Amazon, rendendosi dunque autori del reato di violenza privata». Inoltre: «La divisione anticrimine sta analizzando la posizione di alcuni manifestanti per i queli saranno emanate le misure di prevenzione del foglio di via obbligatorio e dell’avviso orale. I destinatari di quest’ultima misura, già indagati, vedono così la propria posizione aggravarsi ulteriormente». Allo sciopero hanno aderito quasi 3mila persone.