Archivi autore: soccorso rosso proletario
Intervista all’avvocato Gianluca Vitale sulla scarcerazione di Mohamed Shahin

L’imam della comunita’ islamica di Torino, Mohamed Shanin, durante il corteo per la pace a Gaza organizzato dal collettivo pro Palestina in piazza Castello, Torino, 11 ottobre 2025. ANSA/TINO ROMANO (Foto di https://www.giuristidemocratici.it/)
Il 15 dicembre 2025 la Corte d’appello di Torino ha disposto “la cessazione del trattenimento al CPR di Caltanissetta” di Mohamed Shahin.
Abbiamo chiesto all’Avvocato del Forum di Torino Gianluca Vitale di Giuristi Democratici e del Legal Team Italia, che fa parte del Collegio di Difesa dell’Imam, di raccontarci cosa sta succedendo. Lo ringraziamo per aver spiegato in maniera semplice un iter giudiziario che si presenta complicato.
Intervista a Gianluca Vitale
Partiamo dall’inizio. Cosa è successo?
Tutto nasce il 24 di novembre 2025 con la notifica a Mohamed Shahin, Imam della Moschea di San Salvario a Torino di due provvedimenti: il decreto di espulsione del Ministro per pericolosità per la sicurezza nazionale e la revoca della Carta di soggiorno, il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Scatta il Decreto di espulsione con accompagnamento immediato, a cui segue l’udienza davanti al Giudice di pace di convalida dell’accompagnamento. In quella sede Shahin chiede la protezione internazionale. È evidente che non aveva nessun motivo di chiederla prima perché non aveva nessuna idea che potesse esserci un provvedimento di questo genere nei suoi confronti e che quindi che potesse essere spedito in Egitto coattivamente.
A quel punto partono una serie di altri procedimenti, grazie alle modifiche un po’ bizzarre che sono state fatte negli ultimi anni alla legislazione. Vengono investite una serie di giurisdizioni e competenze diverse. Tra queste c’è la Corte di Appello, perché nel momento in cui Shahin chiede la protezione internazionale non si può evidentemente eseguire l’espulsione verso l’Egitto, ma il Questore di Torino decide di trattenerlo come richiedente asilo. Viene così deciso il trattenimento a Caltanissetta nonostante noi sappiamo che c’erano posti anche a Torino.
Shahin viene portato coattivamente a Caltanisetta e lì cosa succede?
Il giorno dopo in suo arrivo va in audizione davanti alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Siracusa. Ci va in un momento in cui noi avevamo perso le sue tracce, visto che per circa 24 ore non abbiamo saputo dov’era e non ci veniva comunicato dove lo stavano portando. Questo si configura come una violazione del diritto di difesa, perché non abbiamo potuto assisterlo durante l’audizione davanti alla Commissione territoriale di Siracusa.
Viene fatta la convalida del trattenimento alla Corte d’Appello di Torino, come previsto da una delle modifiche avvenute nel post-CPR in Albania.
La Corte d’Appello convalida il trattenimento sulla base delle informazioni che gli sono state fornite nella richiesta di convalida della Questura di Caltanissetta, in cui si diceva che Shahin era sottoposto a due procedimenti penali e che la Procura della Repubblica aveva posto un divieto di ostensione degli atti dei procedimenti penali a cui era sottoposto. Il giudice della Corte d’Appello interpreta tutto questo come conferma di pericolo e convalida il trattenimento.
Cosa avete fatto a questo punto come Collegio di difesa?
Abbiamo agito su diversi piani: un ricorso per Cassazione contro la convalida, che è stato fissato per il 9 gennaio 2026 e un’istanza di riesame del trattenimento.
Puoi parlarci dei punti in cui si articola l’istanza che poi porterà al provvedimento di liberazione di cui si sta parlando in questi giorni?
L’istanza di riesame del trattenimento è fondata su alcuni elementi nuovi che apprendiamo solamente dopo la convalida.
Uno di questi è la circostanza che riguarda quanto fatto dalla Procura della Repubblica di Torino una volta ricevuta un’informativa della Digos sul discorso tenuto da Shahin il 9 ottobre 2025, quello che è citato anche nel decreto di espulsione e che abbiamo letto virgolettato per stralci su tutti i giornali, in cui avrebbe detto che il 7 ottobre non è stata una violenza. In realtà il discorso è molto più lungo e sostanzialmente credo che sia stato ampiamente frainteso. Lui stesso ha chiarito in seguito come venisse contestualizzato il 7 ottobre del 2023 nella trama della lunga vicenda della Palestina dal 1948 in avanti, prima con la Nakba, le varie guerre e poi con quello che è successo dal 2000, le operazioni Margine protettivo fino a Piombo fuso, e le migliaia di morti civili palestinesi.
Tornando alla vicenda giudiziaria la Procura della Repubblica, ricevuta l’informativa sul discorso, iscrive subito il procedimento a modello 45, come fatto non costituente reato. Per quel discorso Shahin non è mai stato iscritto come indagato. Tanto è vero che nella stessa giornata la Procura trasmette gli atti in archivio.
Per quanto riguarda invece il divieto di ostensione scopriamo che non c’è: semplicemente alla richiesta che venissero pubblicati e utilizzati gli atti del procedimento penale per blocco stradale, il PM aveva risposto di stare ancora indagando e perciò come da articolo 329 di non ritenere che gli atti dovessero essere pubblicati. Chiarita la vicenda, abbiamo potuto accedere agli atti del procedimento penale, visto che non erano più necessarie altre indagini. Visti gli atti ci rendiamo conto che si tratta di una normalissima manifestazione. Una delle tante manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese che a un certo punto – non sicuramente per decisione di Shahin che è semplicemente una delle persone presenti all’iniziativa – arriva sul raccordo autostradale Torino-Caselle e per qualche decina di minuti lo interrompe con un blocco. Abbiamo già fatto un interrogatorio chiarendo ulteriormente la posizione di Shahin davanti al Pubblico Ministero. Questo è sostanzialmente quello che emerge in riferimento alla questione divieto di ostensione.
Sono stati poi prodotti due presunti contatti di Shahin con soggetti radicalizzati. Un’identificazione avvenuto a Imperia da parte della polizia stradale nel 2012. Quando Shahin è stato sentito ha chiarito la vicenda dicendo che l’unica cosa che ricordava dell’episodio è che era andato a fare un sermone nella cittadina ligure nel periodo di inizio della guerra in Siria, della primavera siriana. Al ritorno gli era stato dato un passaggio ed erano stati fermati per un normale controllo della polizia stradale in cui erano stati chiesti i documenti. Shahin ha anche chiarito che non sapeva chi ci fosse in macchina e che non conosceva il soggetto di cui si sta parlando, un italiano convertito che si sarebbe arruolato per combattere in Siria dove è morto.
Una segnalazione dovuta a un’intercettazione telefonica di un soggetto poi condannato per apologia di terrorismo, che parlando con un’altra persona nel 2018 gli avrebbe detto “se hai bisogno di qualcosa puoi rivolgersi all’imam della moschea di San Salvario”.
Questi elementi sono quelli che hanno permesso di ripresentare l’istanza?
Sì, sono quelli che hanno permesso di ripresentare l’istanza e soprattutto la circostanza che la Corte d’Appello si era trovata a dover decidere di una persona con due indagini a carico e un segreto istruttorio chissà per che motivo opposto dalla procura mentre, come abbiamo dimostrato, non era questa la realtà.
Abbiamo anche aggiunto nell’istanza tutta una serie di documenti, sia precedenti sia successivi al decreto di espulsione.
Si tratta degli attestati di solidarietà e di conoscenza da parte del mondo cattolico, valdese, che attestano come Shahin sia sempre stata una persona che ha lavorato per il dialogo interreligioso e per l’integrazione tra le comunità. Abbiamo allegato anche elementi precedenti, come ad esempio un’iniziativa unica in Italia, ovvero la traduzione della Costituzione italiana in lingua araba e la sua distribuzione tra i fedeli della sua moschea. Anche questo un segno di non pericolosità, anzi di perfetto inserimento nei valori del nostro sistema costituzionale.
Alla luce di questi elementi il Giudice valorizza tutto questo quando accoglie le istanze di riesame e dice che ci sono degli elementi nuovi che lo allontanano dal sospetto di pericolosità. Elementi che confermano come Shahin sia perfettamente inserito in un sistema valoriale rispettoso della Costituzione.
La vicenda giudiziaria non è ancora conclusa. Cosa succederà?
C’è un tot di giurisdizioni e di azioni che devono ancora avvenire. Sul Decreto di espulsione abbiamo proposto ricorso al Tar Lazio e avremo udienza il 22 dicembre 2025. Sulla revoca della carta di soggiorno abbiamo proposto ricorso al Tar Piemonte e avremo udienza il 14 gennaio 2026. Contro il rigetto della richiesta di protezione internazionale adottata dalla Commissione territoriale di Siracusa abbiamo proposto ricorso al Tribunale ordinario civile, Sezione immigrazione di Caltanissetta che proprio ieri, poche ore dopo la decisione della Corte d’Appello, ha sospeso il provvedimento di diniego della protezione internazionale. Questo significa che comunque, al di là del fatto che Shahin è in libertà, dismesso dal CPR, è anche inespellibile temporaneamente perché è pendente il ricorso sulla sua richiesta di protezione internazionale.
In conclusione, come possiamo valutare questa vicenda?
Al di là della complicazione determinata dalla normativa – questo sovrapporsi di giurisdizioni diverse perché abbiamo due TAR, la Corte d’Appello penale, la Cassazione e il Tribunale civile di Caltanissetta – mi sembra che questa vicenda portata in estrema sintesi sia un segnale molto pericoloso. Sostanzialmente la decisione di espellere Shahin è determinata solamente dal fatto che ha espresso un’opinione, condivisibile o meno.
Il giudice della Corte d’Appello scrive che è moralmente o eticamente sicuramente una descrizione che lui non condivide, parole censurabili. Detto questo, ripeto vanno inquadrate nel contesto complessivo del suo discorso, ma soprattutto restano un’opinione.
Si parla di radicalizzazione, fondamentalismo. Ho sentito che il Ministro Piantedosi ad Atreju ha detto che non importa che sia un imam, ma il primo paragrafo fa riferimento alla sua qualifica di imam.
Si sottolinea che ha organizzato diverse manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese. Credo che il solo fatto di citare questo come elemento a sfavore, visto che è nominato in un provvedimento di espulsione per pericolosità per la sicurezza nazionale, è un ulteriore campanello di allarme su come viene interpretata sostanzialmente la libertà di manifestazione del pensiero e su come viene interpretato essere migranti in questo momento in Italia.
Conferenza internazionale di solidarietà con i prigionieri/e politici a Parigi
Partecipa dall’Italia SOCCORSO ROSSO PROLETARIO – per portare con forza a livello internazionale la battaglia in corso per la liberazione di ANAN e di tutti i prigionieri palestinesi in Italia
info srpitalia@gmail.com
Paris : Conférence internationale de solidarité avec les prisonniers politiques
Les 20 et 21 décembre à Paris, la Plateforme de la Voix des Prisonniers organise une Conférence internationale de solidarité réunissant des anciens prisonniers politiques ainsi que des délégués et militants de nombreux pays. L’événement vise à renforcer le soutien aux prisonniers politiques du monde entier, confrontés à la répression, à l’isolement, à la torture, au refus de soins et aux violations répétées de leurs droits. À travers des échanges sur la lutte des classes et les prisons, les formes de résistance en détention, la condition des femmes et personnes LGBTI+ ou encore les moyens de développer la solidarité internationale, la conférence appelle les organisations et les militants attachés à la défense des prisonniers politiques à unir leurs forces pour soutenir celles et ceux qui poursuivent leur combat pour la liberté en dépit de la répression
Mohamed Shahin è libero! “Il trattenimento al Cpr illegittimo”
Libertà per tutti i prigionieri politici palestinesi!
e il 19 tutti e tutte a L’Aquila, per Anan, Ali e Mansour!

L’imam Mohamed Shahin è stato liberato. La Corte d’appello di Torino ha accolto la richiesta dei suoi avvocati e ha disposto la immediata cessazione del trattenimento presso il Centro di permanenza per i rimpatri di Caltanissetta.
Shahin, cittadino egiziano residente in Italia da oltre vent’anni, era stato trattenuto dopo la revoca del permesso di soggiorno e aveva presentato domanda di asilo politico. I giudici, con la nota odierna, hanno così riconosciuto che la sua permanenza nel Cpr non era legittima, alla luce di nuovi elementi emersi nel procedimento di riesame.
In particolare, la Corte ha evidenziato che i procedimenti penali posti a fondamento del giudizio di “pericolosità” non hanno avuto seguito: uno è stato archiviato perché le dichiarazioni contestate rientrano nella libertà di espressione tutelata dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’altro riguarda fatti privi di condotte violente. Nessun elemento concreto, attuale e specifico dimostra una pericolosità sociale dell’imam, che risulta incensurato e pienamente integrato nel tessuto sociale italiano.
Mohamed Shahin esce dal Cpr in qualità di richiedente asilo. Per lui, un eventuale rimpatrio in Egitto avrebbe comportato un concreto rischio di persecuzione, considerato il suo pubblico dissenso nei confronti del regime di Abdel Fattah al‑Sisi.
Sit-in davanti al carcere di Rossano per Ahmad: «Solidarietà non è terrorismo»
Nella mattinata del 13, davanti alle mura del carcere di Ciminata, una cinquantina di attivisti provenienti da Calabria e Basilicata si sono radunati in un sit-in per esprimere solidarietà al giovane Ahmad Salem, il 24enne palestinese detenuto da oltre sei mesi nel reparto di alta sicurezza della casa di reclusione di Rossano con l’accusa di terrorismo.
La manifestazione, promossa da gruppi pro-Palestina e realtà civiche locali, ha avuto un tono eloquente e deciso: «Chiamare alla mobilitazione per la solidarietà al popolo palestinese – dicono gli organizzatori – non può essere equiparato a un reato di terrorismo», facendo riferimento alle accuse mosse al giovane basate su video e frasi estratte dal suo telefono.
Secondo la ricostruzione di diverse associazioni di osservazione della repressione e dei diritti umani, l’incriminazione per i reati di istigazione a delinquere e autoaddestramento con finalità di terrorismo (artt. 414 e 270-quinquies c.p.) si fonda su materiali decontestualizzati che Salem aveva registrato e pubblicato durante lo scorso conflitto a Gaza, nei quali invitava alla solidarietà e alla presa di parola contro la sofferenza del suo popolo.
Tra i presenti, grande attenzione ha attirato l’attivista Vincenzo Fullone, figura di riferimento per il movimento pro-Palestina calabrese. Nel corso dell’intervista, Fullone ha descritto la detenzione di Ahmad come un simbolo di una più ampia limitazione del diritto di espressione: «Ahmad Salem è in questo carcere di semi-massima sicurezza, così lo chiamano, per un semplice motivo. È il motivo per il quale anch’io e anche noi potremmo essere arrestati. Perché, che ha fatto? Hanno trovato sul suo telefono dei video in cui lui chiamava alla solidarietà per il suo popolo e chiamava soprattutto i popoli arabi a svegliarsi… Chiunque parla ora di Palestina o contro lo Stato di Israele, in qualche maniera viene definito antisemita e quindi si configura l’accusa di terrorismo».
Fullone ha proseguito sottolineando che parlare di Palestina — e «chiedere che qualcuno faccia qualcosa» — «è un diritto politico fondamentale e non un atto criminale». Ha poi annunciato le iniziative future del movimento Propal con la volontà di rinforzare la mobilitazione territoriale nei mesi a venire, citando una nuova tappa simbolica con la partecipazione alla Gassan Canafani, barca legata alla flotilla di solidarietà con la Palestina, il cui percorso estivo includerà soste sullo Jonio calabrese, proprio a Corigliano-Rossano e Mirto Coris, prima di proseguire verso Tirreno.
La manifestazione di ieri mattina segue di pochi giorni un altro episodio che ha riacceso l’attenzione pubblica sul caso di Ahmad Salem. Domenica scorsa, infatti, era stato l’europarlamentare Mimmo Lucano a recarsi a sorpresa davanti al carcere di Rossano per solidarizzare con giovane attivista recluso. Tutto questo mentre all’appuntamento di ieri mattina – per quanto riferito dai movimentisti Pro Paestina – era prevista anche la visita ispettiva di alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle, che però alla fine non si sono presentati.
Qui il collegamento con ROR
Combattivo corteo a Melfi per la liberazione di Anan e di tutti i prigionieri per la Palestina incarcerati in Italia
- Al concentramento
Importante manifestazione a Melfi per Anan, da fine settembre trasferito nel carcere di questo paese della Basilicata. Come diceva un cartello: hanno voluto isolare Anan ma in realtà hanno esteso anche in questa Regione la lotta per la sua liberazione e rafforzato la battaglia per la Palestina.



Un centinaio di compagne, compagni, studenti della zona, giovani immigrati di Rionero, lavoratori in lotta alla Stellantis; tanti giovani palestinesi da Napoli, delegazioni da Taranto, Brindisi, Arezzo e tanti altri hanno fatto un corteo combattivo, nuovo a Melfi, accolto bene dalle persone del posto. Per più di 2 ore il corteo è sfilato compatto, unitario, in un bel clima di calore umano, senza mai fermarsi negli slogan che via via sono stati gridati in palestinese, con al centro: Anan libero! Palestina libera! Israele terrorista!

Il corteo è arrivato al carcere dove si è svolto un lunghissimo presidio, aperto da numerosi e rumorosi saluti in arabo ad Anan, seguiti da un collegamento col presidio sotto il carcere di Rossano Calabro in solidarietà con Ahmad Salem, e numerosi slogans e interventi che hanno fatto arrivare all’interno della nera galera la forte solidarietà ad Anan e l’impegno a continuare fino alla sua liberazione.
Durante la manifestazione è stato letto un messaggio di Tahar Lamri, e il presidio si è concluso con l’appello, fatto in particolare dalla compagna de L’Aquila di Soccorso rosso proletario, ad essere il 19 il più possibile alla nuova manifestazione a L’Aquila, giorno della sentenza per Anan, Alì e Mansour.

Intervento della compagna SRP L’Aquila
Messaggio da un ragazzo di Gaza
Operaio Ex-Ilva Taranto
Saluto ad Anan
Messaggio di Tahar Lamri
“C’è un uomo all’Aquila che porta nel corpo undici proiettili e quaranta schegge. Le torture israeliane gli hanno scritto la storia sulla carne, ma ora l’Italia vuole riscriverla nei codici del terrorismo. Anan Yaeesh aspetta la sentenza in un processo dove l’assurdo è diventato procedura.
Ma c’è posto per l’ambasciata israeliana. La Procura la convoca a testimoniare sulla natura della colonia di Avnei Hefetz. Israele – la parte che ha chiesto l’estradizione, che ha fornito le prove, che ha torturato l’imputato – diventa testimone nel processo italiano. Il nodo è cruciale: se Avnei Hefetz è insediamento civile, Anan è terrorista. Se è base militare, è resistente. Chi meglio di Israele può definirlo?
L’ambasciatore non si presenta. All’ultimo momento, il 21 novembre, si presenta una funzionaria dall’ambasciata di Parigi. Dietro di lei, in videoconferenza, la bandiera israeliana. Testimonianza vaga, poco convincente. Ma è bastato l’azzardo: far parlare lo Stato occupante sulla legittimità della resistenza all’occupazione. Come chiedere al carceriere di testimoniare sulla libertà del prigioniero.
L’avvocato Rossi Albertini la chiama “arroganza di Israele verso l’autorità giudiziaria italiana”. Ma è qualcosa di più: è uno Stato che processa dall’Aquila fatti avvenuti in Cisgiordania, che esclude la Storia e include l’oppressore, che chiama giustizia questa farsa.
C’è un ragazzo di ventiquattro anni in alta sicurezza a Rossano Calabro. La sua colpa? Otto minuti di video, parole contro un genocidio, immagini già trasmesse dalla Rai. Ahmad Salem ha sognato l’asilo e ha trovato una cella dove ogni sillaba di solidarietà diventa “autoaddestramento”.
C’è un imam strappato ai figli dopo vent’anni, rinchiuso in un CPR. Un altro padre di tre figli italiani espulso dopo trent’anni. Mohamed Shahin e Zulfiqar Khan hanno parlato di Palestina quando dovevano tacere. Uno in un CPR a Caltanissetta, l’altro rispedito in Pakistan. Decreti firmati, tribunali che convalidano, ministri che esultano. Il reato? Le parole.
Sono corpi palestinesi, corpi musulmani, corpi che parlano quando dovrebbero tacere. Sono voci che dicono Gaza, che dicono occupazione, che dicono genocidio. E per questo diventano minacce. Non importa se hanno famiglie, permessi, anni di radici. Non importa se le loro parole sono pensiero, non azione. Non importa se la Procura dice “nessun reato”.
Importa solo che abbiano rotto il silenzio.
L’Italia ha imparato da Israele la lezione più antica: chiamare terrorismo la resistenza, chiamare sicurezza la repressione, chiamare giustizia la vendetta. Ha imparato che si può processare un uomo per la Storia, espellerlo per le parole, rinchiuderlo per i pensieri. Ha imparato che si può rifiutare la relatrice ONU e convocare l’ambasciata occupante.
Ma le undici pallottole nel corpo di Anan non mentono. I quarantasette testimoni rifiutati non mentono. La bandiera israeliana in aula non mente. Le sbarre della cella di Ahmad non mentono. Il CPR dove hanno rinchiuso Mohamed non mente. L’aereo che ha portato via Zulfiqar non mente..
Questa non è giustizia. È silenzio imposto con la forza dello Stato. È la criminalizzazione della solidarietà. È un processo dove l’occupante testimonia e l’occupato è accusato.
Ma i corpi resistono. Le parole restano. La memoria non si espelle.
E il 19 dicembre, quando a L’Aquila caleranno le sbarre su Anan, o quando si apriranno per miracolo di una giustizia che ancora respira, sapremo se questo paese ha ancora il coraggio di guardare in faccia la Palestina, o se preferisce continuare a processarla, imprigionarla, deportarla.
Undici proiettili, quaranta schegge, quarantasette testimoni rifiutati, una bandiera israeliana in aula.
E una sola domanda: da che parte sta la legge?”
Qui il collegamento con ROR:
Verso l’udienza finale del processo alla resistenza palestinese, manifestazione interregionale a Melfi

Il 19 dicembre, presso il Tribunale penale de L’Aquila, potrebbe chiudersi con una condanna, il processo farsa sul prigioniero politico Anan Yaeesh, e su due palestinesi suoi amici, Ali e Mansour, che rischiano rispettivamente 12, 9 e 7 anni di carcere: molti di più rispetto a quelli che Anan ha scontato nelle carceri sioniste dopo essere stato condannato per fatti relativi alla seconda Intifada.
In questo clima di terrore generalizzato, dove l’intero sistema politico ed economico è complice attivo del genocidio e dell’occupazione sionista, dove il DDL Gasparri che equipara antisionismo ad antisemitismo prende sempre più forma, dove esporsi a favore della Palestina significa essere sbattuti in carcere o in un CPR, è NECESSARIO continuare a mobilitarci in modo determinato e collettivo contro un sistema che prova a delegittimare ogni giorno le nostre lotte, che prova ad intimidire chi dissente con arresti arbitrari, deportazioni e fogli di via e che processa la Resistenza.
Mentre i media di regime legittimano guerra e repressione, questo processo di evidente natura politica rischia di creare un pericoloso precedente per chiunque sia solidale con la causa Palestinese e per chiunque si opponga alle politiche guerrafondaie del governo Italiano, NATO e UE.
Per questo, sabato 13 DICEMBRE scenderemo in piazza a MELFI al fianco di Anan e della Resistenza Palestinese, al fianco di chi si oppone alla guerra e al genocidio.
Noi sappiamo da che parte stare.
Complici e solidali al fianco di chi lotta.
LIBERTA PER ANAN, ALI E MANSOUR!
LA RESISTENZA NON SI ARRESTA!
LA RESISTENZA NON SI PROCESSA!
PALESTINA LIBERA!
CONCENTRAMENTO IN VIA DELLA CITTADINANZA ATTIVA E CORTEO FINO AL CARCERE IN VIA LECCE DOVE SI TERRÀ IL PRESIDIO PER ANAN.






















