Informazioni su soccorso rosso proletario

Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali "elementi di compensazione" che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di "utili" generi di occupazione. Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? ...

Pestaggi e torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, misure cautelari per 52 agenti. “Domate il bestiame”, “Li abbattiamo come vitelli”, queste alcune frasi estratte dalle chat degli agenti

Dai messaggi compiaciuti per come avevano “ristabilito l’ordine” a quelli di paura, quando avevano saputo che gli inquirenti avevano acquisito le immagini della videosorveglianza e che, da quei video, sarebbero arrivati a loro. E che non l’avrebbero passata liscia. Tutto ricostruito nelle indagini che hanno portato oggi all’esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti di poliziotti e impiegati del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria della Campania, firmate dal gip di Santa Maria Capua Vetere dopo la richiesta della Procura locale.

Il gip che ha firmato le misure, parlando di raid pianificati e studiati, non usa mezzi termini: “una orribile mattanza”. Le accuse sono gravi: torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.

Le punizioni dopo la rivolta in carcere
La vicenda è collegata alla rivolta che scoppiò nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, quando circa 150 detenuti “presero possesso” di sei sezioni della struttura e costrinsero ad allontanarsi gli agenti, inscenando una protesta dopo aver saputo di un contagio Covid dietro le sbarre. Secondo l’ipotesi della Procura dopo quella rivolta, che rientrò con la promessa che venissero effettuati i test, ci furono perquisizioni punitive e ritorsioni. A denunciarlo, pochi giorni dopo, furono i garanti dei detenuti campani.

Precedentemente, nello stesso carcere, c’era stata un’altra protesta. Il 9 marzo un gruppo di 160 detenuti del reparto Tevere si era rifiutato di rientrare in cella dopo l’ora del passaggio, protestando per l’interruzione dei colloqui imposta per le norme anti Covid, ma in quella circostanza non ci furono incidenti, danni o episodi di violenza.

Detenuti picchiati, costretti a strisciare e lasciati senza cure
Dopo la seconda protesta, nella giornata del 6 aprile, ci fu una perquisizione straordinaria nei confronti di quasi tutti i ristretti del reparto Nilo, quello dove c’era stata la protesta. Ma, ricostruiscono i magistrati, il vero intento degli agenti non era di cercare armi: si trattava di violente rappresaglie, a cui avevano partecipato 283 unità, sia interne all’organico del carcere sia provenienti dal Gruppo di Supporto agli Interventi. Erano state perquisite 292 persone.

I video della videosorveglianza, sottolinea in un comunicato il procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone, dimostrano “l’arbitrarietà delle perquisizioni, disposte oralmente”, e fanno emergere “il reale scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale della Polizia Penitenziaria, essendosi conseguentemente utilizzato un atto di perquisizione”.

Le immagini, prosegue il procuratore, “rendevano una realtà caratterizzata dalla consumazione massificata di condotte violente, degradanti e inumane, contrarie alla dignità ed al pudore delle persone recluse”. Dopo la denuncia dei garanti c’era stata una visita ispettiva del Magistrato di Sorveglianza, durante la quale diversi detenuti avevano riferito delle violenze.

Era emerso che alcuni ristretti erano stati lasciati senza biancheria e che non erano stati visitati nonostante avessero contusioni ed ecchimosi evidenti, e gli fosse impedito qualsiasi contatto telefonico coi familiari. Da qui, la decisione di acquisire i nastri della videosorveglianza, con delega ai carabinieri della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere.

I video dell’orrore nel carcere di Santa Maria Capua Vetere
Dai video acquisiti, scrive il Procuratore, “era possibile accertare, in modo inconfutabile, la dinamica violenta, degradante e inumana che aveva caratterizzato l’azione del personale impiegato nelle attività, persone difficilmente riconoscibili perché munite di DPI ed anche, quanto a numerosissimi agenti, di caschi antisommossa, unitamente a manganelli in dotazione, illegalmente portati con sé, ed anche di un bastone”.

I detenuti del reparto Nilo, ricostruiscono i magistrati, erano stati costretti a camminare attraverso un “corridoio umano” formato dai poliziotti e percossi al passaggio con “un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello, che le vittime non riuscivano in alcun modo ad evitare”.

Altri video, che inquadrano le sale della socialità, mostrano detenuti costretti a stare in ginocchio per lungo tempo e picchiati anche quando, ormai esanimi, crollavano a terra. Uno di loro viene ripreso mentre cerca di riparare la testa dai colpi e un agente lo colpisce col manganello sulle nocche delle dita.

Gli inquirenti hanno ritenuto la gravità indiziaria per il delitto di concorso in tortura nei confronti di 41 detenuti, di maltrattamento aggravato verso 26 detenuti e di lesioni personali volontarie nei confronti di 130 detenuti.

Il gip: “Nel carcere una orribile mattanza”
Il Procuratore ricorda poi le parole del gip, che nell’emettere i provvedimenti aveva parlato di “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania”, “un vero e proprio uso diffuso della violenza, intesa da molti ufficiali ed agenti della Penitenziaria come l’unico espediente efficace per ottenere la completa obbedienza dei detenuti” e “una orribile mattanza”.

Le chat tra gli agenti da “Li abbattiamo come vitelli” a “Finisce come la cella zero”
Altri elementi sono emersi dall’analisi delle chat intercorse tra gli agenti della Penitenziaria, i loro dirigenti e altre persone dopo il sequestro dei telefoni cellulari. Il tenore dei messaggi cambia sensibilmente da prima delle perquisizioni, quindi nelle fasi preparative, a quando si diffonde la notizia dell’acquisizione dei video.

“Allora domani chiave e piccone in mano”, “li abbattiamo come vitelli”, “non sempre il mefisto serve ai banditi per fortuna”, “spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovare tutti malati”, “si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, il tempo delle buone azioni è finito”, scrivono prima delle perquisizioni.

Subito dopo gli eventi, altri messaggi che li commentano: “Il sistema Poggioreale”, “quattro ore di inferno per loro”, “qualche ammaccato tra i detenuti… cose normali”; “Abbiamo ristabilito un po’ l’ordine”, “ho visto cose che in sei anni non immaginavo nemmeno”, “c’è stato un carcerato che ha dato addosso a un collega e lo hanno portato giù alle celle e come di rito ha avuto pure la parte sua”, “Dalle 16 alle 18 abbiamo fatto tabula rasa” e “Oggi si sono divertiti al Nilo”.

Dopo l’acquisizione dei video, invece, il tenore cambia. C’è la paura di venire identificati, di pagare le conseguenze. Quindi i messaggi sono del tutto diversi: “Temo che da domani sarà una carneficina”, “Ci andranno pesante”, “mò succede il terremoto”, “pagheremo tutti, 300 agenti e una decina di funzionari”, “decapiteranno mezza regione”, “è stata gestita male e sta finendo peggio” e “finirà come la cella zero”.

I detenuti picchiati accusati di resistenza e lesioni
Nei giorni successivi, già a partire dal 7 aprile 2020, agenti e ufficiali della Penitenziaria avevano inoltrato una informativa di reato nei confronti di 14 detenuti, accusandoli di resistenza e di lesioni. Per la Procura si trattava di accuse false: in realtà quelle ferite “non erano sicuramente state procurate dai detenuti ma risultavano conseguenza delle violenze consumate dagli stessi agenti, mediante pugni, schiaffi, calci e ginocchiate ai danni dei reclusi”.

Inoltre, sempre per coprire le violenze, gli agenti e diversi ufficiali sono accusati di avere prodotto delle false fotografie, scattate ad armi e oggetti atti a offendere sequestrati in altre circostanze, spacciandole per materiale trovato durante e subito dopo la protesta. Tra questi, gli scatti che ritraevano dei pentolini sui fornelli, che nei racconti sarebbero diventati quelli utilizzati per riscaldare olio e acqua da gettare sui poliziotti.

Detenuti picchiati a Santa Maria Capua Vetere, 52 misure cautelari
Delle 52 misure cautelari eseguite oggi, 28 giugno, 8 sono con custodia in carcere, nei riguardi di un ispettore coordinatore del reparto Nilo e di 7 tra assistenti e agenti della Penitenziaria, tutti in servizio nel carcere sammaritano.

Disposti i domiciliari per 18 persone: per il comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del carcere di Secondigliano /comandante del Gruppo di Supporto agli interventi, del comandante dirigente della Penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, della commissaria capo responsabile del reparto Nilo dello stesso carcere, di un sostituto commissario, di 3 ispettori coordinatori Sorveglianza Generale e di 11 tra assistenti e agenti della Penitenziaria, sempre in servizio a Santa Maria Capua Vetere.

Tre misure di obbligo di dimora sono state notificate a 3 ispettori della Penitenziaria, tutti in servizio a Santa Maria Capua Vetere. Infine, sono state disposte 23 misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio, per un periodo tra i 5 e i 9 mesi, nei confronti della comandante del Nucleo Investigativo Centrale della polizia Penitenziaria, Nucleo Regionale Napoli, del Provveditore Regionale per la Campania, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e per 21 tra assistenti e agenti della Penitenziaria, questi ultimi quasi tutti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Qui le testimonianze dei pestaggi raccolti da il Dubbio

Svuotare le carceri a tutela della salute dei detenuti. Chiacchiere e niente fatti dalla ministra Cartabia. E intanto nel carcere di Taranto, il più sovraffollato, aumentano ancora i contagiati da Covid 19.

In tre giorni i casi positivi tra i detenuti sono passati da 40 a 46. Uno è in ospedale

Tentò di uccidere la ex a Ginosa si suicida nel carcere di Taranto

Taranto – Aumentano ancora i contagiati nel carcere di Taranto, dove in tre giorni i casi positivi tra i detenuti sono passati da 40 a 46, uno dei quali ricoverato in ospedale.

E’ quanto emerge dal report nazionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato al 24 giugno.

Rivolta del Sant’Anna e morti archiviate «le indagini si possono riaprire»

Cercare nuovi elementi per riaprire le indagini: è l’obiettivo che si è dato il comitato “Verità e Giustizia” per le morti durante la rivolta al Sant’Anna. Davanti al carcere modenese, ieri mattina, circa quindici persone hanno contestano l’archiviazione disposta dal giudice per le udienze preliminari Andrea Salvatore Romito.

«S’è deciso di insabbiare la più grande strage a Modena dal dopoguerra a oggi – esordisce Alice Miglioli a nome del comitato – Inoltre, le due opposizioni all’archiviazione dell’associazione Antigone (l’autrice dei report sulle carceri) e dal Garante nazionale dei detenuti non sono state prese in considerazione. Non sappiamo cosa sia successo, ma crediamo ci siano tanti “buchi” nella vicenda».

Il comitato ha redatto un dossier a partire dalla rivolta dell’8 marzo 2020 e il testo sarà presentato in varie città. Oggi alle 15 una delegazione andrà, ad esempio, al campo No Tav di Acquaviva (Trento); mercoledì, alle 18.30, lo Spazio Nuovo ospiterà “8 marzo 2020: Modena è diversa”. Tra gli avvocati ospiti ci saranno Mario Marcuz (difensore dei firmatari degli esposti di Ascoli) e Luca Sebastiani (difensore dei familiari dell’8 marzo), Mariachiara Gentile e Filomena Chiarelli di Antigone. Sono attese testimonianze anche del Gruppo Carcere e Città. «Non staremo in casa a piangere in un angolo – ribatte Miglioli – ma cercheremo nuovi dati e testimonianze nella tutela di tutti i testimoni: le indagini si possono riaprire».

E mentre Giovanni Iozzoli accusa («In tribunale si liquida spesso la verità»), Miglioli invita a riflettere sulle origini delle otto vittime archiviate: Slim Agrebi, Ali Bakili, Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Ben Mesmia Lofti, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan e Artur Iuzu. «L’unica persona inserita in una rete sociale era Sasà Piscitelli – evidenzia Miglioli – e il suo fascicolo resta aperto».

Accanto a “Verità e Giustizia” si sono schierati anche i Si Cobas («Il nostro interesse sull’eccidio è immutato», avverte il coordinatore provinciale Enrico Semprini) e il gruppo di Castelfranco, Idee in Movimento, rappresentato da Paolo Malvone: «Non ci fermeremo davanti all’archiviazione e in Consiglio portiamo un ordine del giorno sulle carceri». «Occorre lottare per avere la verità – è l’appello di Sara De Nunzio – e un modello di giustizia non repressiva». —

G.F.

Inizia il 30 giugno il processo di primo grado contro i detenuti accusati per la rivolta a Rebibbia del marzo 2020

Il 17 giugno un giudice di Modena ha deciso di archiviare il fascicolo delle indagini aperte sui responsabili della strage avvenuta durante la rivolta dell’8 marzo 2020: 9 i morti tra i detenuti rinchiusi in quel carcere. 14 in totale in Italia.
Lo Stato non processa chi gli è fedele.
Nel frattempo, tanti i processi iniziati contro i detenuti ritenuti responsabili dei seri danneggiamenti all’interno delle galere. Per questi processi nessuna richiesta di archiviazione è stata mai avanzata dalle procure.

Come dimenticare quel marzo 2020? Quel costante susseguirsi di notizie di contagi, ammalati e morti da Covid. Chi è detenuto/a, conosceva bene le gravi mancanze già esistenti del sistema sanitario penitenziario e sapeva che nessun governante avrebbe mosso un dito per mettere in salvo dal contagio chi è rinchiuso dentro le galere. In quei giorni, l’unica decisione presa dal Ministero di Giustizia e dal DAP è stata quella di chiudere l’ingresso del carcere a tutti coloro che non lavorano all’interno. Decisione che come si è visto, e come era ovvio, non ha certo fermato i contagi.
Alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari, la miccia si è accesa.
Chi ha deciso di ribellarsi ha avanzato richieste a difesa della propria e altrui salute, all’interno di un luogo già di per sé malsano e sovraffollato. Ha deciso di agire per far sì che qualcuno si accorgesse della drammatica situazione degli istituti carcerari di questo Paese. E, infatti, qualcosa seppur minima è stata ottenuta. C’è chi è riuscito ad ottenere delle misure alternative, di detenzione domiciliare e prolungamento di permessi e licenze. Nulla di risolutivo, certo. Ma chi rinuncia a lottare ha già perso.

Il 30 giugno nell’aula bunker a pochi passi da qui si aprirà il processo di primo grado contro i 46 detenuti di Rebibbia accusati di devastazione e saccheggio, violenza, sequestro e altro. Tutti reati che prevedono pene molto pesanti.
È la necessità di scongiurare nuove proteste a scatenare questa pesante vendetta dello Stato. Le giuste rivendicazioni vengono messe a tacere con la violenza più feroce. E le morti durante le rivolte parlano chiaro. Raccontano quello che lo Stato è disposto a farci: governare con la paura, ribadire la sua arroganza se alziamo la testa, impedire la solidarietà e vicinanza.
Sì, lo Stato non rinuncia alle sue galere, a quelle mura e a quelle sbarre così alte che hanno un effetto su milioni di esistenze, anche quelle “libere”. Le condizioni di vita di ognuno di noi, se non reagiremo, peggioreranno di giorno in giorno, fatta eccezione per quella strettissima minoranza che continua a far profitto speculando e passando sopra i corpi di tantissime persone. Questo, ad oggi, dovrebbe essere chiaro a tutte e tutti.
E quelle galere sono lì apposta, perché servono da avvertimento: “Abbassa la testa e tira avanti”.
Lo dicono a noi qui fuori, utilizzando come monito migliaia di vite isolate dal resto del quartiere.
Per questo il carcere non può restare un qualcosa di distante dalle nostre vite, una bolla separata da chi abita la città.
Per questo non possiamo permetterci di girare le spalle a chi è imprigionato/a.
Per noi le accuse per cui saranno a processo i 46 detenuti non sono reati ma atti di dignitosa rabbia.

Sempre il 30 giugno, alle 18:30, nel Parco di Aguzzano (entrata alla fine di via Bartolo Longo) davanti il carcere, ci sarà la presentazione del fumetto di Zerocalcare “Lontano dagli occhi – Lontano dal cuore”, sulle rivolte dei prigionieri di Rebibbia lo scorso marzo, con la presenza dell’autore. Sarà un altro momento per incontrarci, conoscerci e parlare di carcere.

L’UNICA SICUREZZA E’ LA LIBERTA’!

Per restare in contatto, potete scrivere a dulceri211@gmail.com

Da rete evasioni

Covid, nel carcere di Taranto più contagiati dell’intera Puglia. Proteste al carcere di Lecce per la mancaza di acqua e luce

E’ esploso un focolaio di covid anche nel carcere di Taranto, uno dei più sovraffollati della penisola. Circa una settimana fa il SAPPE rappresentò la preoccupante situazione nel carcere, che aveva registrato almeno 36 detenuti positivi. In quell’occasione il SAPPE denunciò le responsabilità sia dell’ASL di Taranto che dell’amministrazione penitenziaria che nonostante la pandemia, continuava a riempire il penitenziario di detenuti che arrivavano da ogni dove.
«Chiedemmo – si legge nella nota diffusa da Federico Pilagatti, a nome della Segreteria Nazionale Puglia del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Puglia (Sappe) – anche l’intervento della magistratura per verificare eventuali comportamenti irresponsabili, poiché è inaccettabile che per situazioni che creano grande pericolo ed allarme sociale non paghi mai nessuno. Purtroppo da allora nessun serio provvedimento è stato adottato, nonostante i positivi al covid nella giornata di giovedi 24 siano arrivati a quota 54, (con circa 300 detenuti in quarantena) e con una previsione di ulteriore innalzamento.

Il SAPPE ritiene che allo stato per evitare situazioni di grande allarme nonchè riportare il tutto in un clima meno pericoloso, bisogna inviare a Taranto almeno 50 poliziotti da reperire con un interpello istantaneo da tutte le carceri della Nazione, nonché sfollare il carcere di Taranto di almeno 200, 250 detenuti che non hanno nulla a che vedere il focolaio, e trasferirli in penitenziari limitrofi della Calabria, Campania ecc.ecc. che non sono certo affollate come il penitenziario del capoluogo Jonico che, conta circa 670 detenuti con 300 posti.
Se ciò non dovesse avvenire con la massima urgenza, non ci saranno scusanti per nessuno, e non ci fermeremo fino a quando i responsabili pagheranno, poiché troppi sono stati gli errori e le disattenzioni commesse che, hanno portato il carcere di Taranto sull’orlo del precipizio».

Situazione critica anche al carcere di Lecce, dove i detenuti, rimasti senza acqua e senza luce, hanno protestato nella notte

NO ALLE ARCHIVIAZIONI : oggi, 26 giugno davanti al Sant’Anna. SRP sostiene e invita a partecipare

Non si può archiviare così.
Non è accettabile che una strage come quella del Sant’Anna venga liquidata in questa maniera, con tre paginette scarse e la volontà palese di mettere la parola “fine” sul “caso carcere”, così come l’ha definita vergognosamente una testata locale lanciando la notizia dell’archiviazione. Il “caso carcere”, 9 morti di cui 8 già archiviate dopo appena un anno da quanto accaduto. Una strage carceraria senza precedenti nella storia repubblicana e alcun paragone a livello europeo seppellita in fretta e furia. Otto vittime, tutte di origine straniera, per le quali verosimilmente non si saprà mai ciò che realmente è accaduto loro. E loro – delle vittime stesse – e di nessun altro è la responsabilità della loro morte per il Tribunale di Modena che nella giornata di oggi è riuscito a scrivere, con questa decisione, una pagina nerissima non solo per la città ma per l’intero Paese. Rimangono la rabbia, il dolore e la consapevolezza che in Italia alcune vite valgono meno di zero, che la giustizia è una chimera e che lo Stato, quando vuole, ha totale licenza d’uccidere. Nell’avallare la richiesta d’archiviazione, il gip Andrea Salvatore Romito è riuscito ad affermare che sia Antigone sia il Garante nazionale dei detenuti sono «soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati» smentendo senza pudore decisioni analoghe ma di segno opposto prese da altri tribunali. Una volontà d’archiviare che sembra mossa esclusivamente dalla volontà di insabbiare.
Come comitato riteniamo l’archiviazione di oggi non solo vergognosa ma anche pericolosa per la salute complessiva del Paese e delle sue istituzioni cosiddette “democratiche”.
Proprio per questo continueremo a tenere vive le fiammelle della ricerca, della memoria e della verità su quella strage.
SAB 26 GIUGNO ORE 10.00 DAVANTI AL SANT’ANNA

Il caso Persichetti, quando la verità scotta perché è rivoluzionaria

Pubblichiamo di seguito 2 articoli sul sequestro dell’archivio storico di Paolo Persichetti, sul quale si continua sin troppo a tacere.

Caso Persichetti, procura e riesame non pervenuti

di Frank Cimini, da Osservatorio repressione

Dopo il sequestro dell’archivio storico di Paolo Persichetti dove tra l’altro ci sono le carte per un nuovo libro sul caso Moro sembra esserci un gioco delle parti tra il Tribunale del Riesame e la procura.

A fronte dell’istanza di dissequestro presentata dall’avvocato Francesco Romeo i giudici non hanno fissato la data dell’udienza perché la procura di Roma non ha depositato atti a supporto del sequestro e delle accuse di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento di latitanti, reati per i quali Persichetti appare come l’unico indagato.

Insomma chi indaga e chi dovrebbe controllare il lavoro degli inquirenti prendono tempo senza che Persichetti possa avere la possibilità non solo di ribattere alle accuse ma di cercare di riavere a disposizione il principale strumento del suo lavoro di storico. Il procuratore Michele Prestipino, la cui nomina è stata considerata irregolare dal Tribunale amministrativo regionale e dal Consiglio di Stato, e il sostituto Eugenio Albamonte ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati hanno scelto la linea del silenzio, di mantenere le carte coperte puntando sul disinteresse quasi generale per la vicenda appena scalfito a quanto pare dall’appello con 500 firme a tutela della ricerca storica indipendente.

Insomma nulla è possibile sapere di questa fantomatica associazione sovversiva che opererebbe secondo le motivazioni scritte nel decreto di perquisizione da almeno sei anni, divulgando molto presunti atti segreti prodotti e/o elaborati dalla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Una commissione che non è stata ricostituita in questa legislatura ma che continua a pendere con una spada di Damocle sulla vita politica e giudiziaria del paese, nonostante le sue teorie dietrologiche e complottarde non abbiano trovato alcun riscontro, a cominciare dalle tonnellate di atti processuali dove persino “pentiti” e “dissociati” affermino che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse e non pezzi di servizi segreti di mezzo mondo.

Persichetti con la sua attività e i suoi libri ha contribuito enormemente a confutare i dietrologi che però continuano a riscuotere le simpatie delle alte cariche dello Stato perché il più attivo a dire che bisogna ancora cercare “la verità” è il presidente della Repubblica il quale come capo supremo del Csm avrebbe ben diverse e altre trame di cui occuparsi.

A iniziare dalla famosa loggia Ungheria di cui i giornali hanno smesso praticamente di scrivere. La sensazione è che la magistratura e la politica in questo unite nella lotta abbiano un interesse spasmodico a convincere della caratteristica ancora “calda” dell’argomento anni ’70, con l’attenzione rivolta soprattutto a Parigi chiamata a decidere sull’estradizione di nove rifugiati, “la banda dei nonni” per fatti di 40 anni fa. Anzi 50 considerando che ieri nella capitale francese c’è stata l’udienza per Giorgio Pietrostefani, condannato per il delitto Calabresi, 17 maggio 1972.

La scoria armata

di Giovanni Iozzoli, da Carmilla

Con indignazione – ma anche con sincera meraviglia, per la inesauribile follia repressiva che manifestano gli apparati italiani – apprendiamo che Paolo Persichetti è oggetto di indagine per reati pesanti quali favoreggiamento e il famigerato 270 bis, l’associazione a delinquere con finalità di terrorismo. La sua colpa sarebbe il possesso e la divulgazione di materiale “riservato” elaborato dall’ultima Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, la più sgangherata di quella produzione seriale che dura dal novembre 79. Paolo Persichetti, oltre ad essere un ex militante delle BR, è uno dei più attivi studiosi del fenomeno armato; in particolare, insieme ad una nuova generazione di giovani ricercatori di ambito accademico, si è specializzato nella meritoria opera di debunking circa l’affaire Moro: smentendo e decostruendo le teorie complottiste che da quarant’anni cercano di inquinare la verità storica del conflitto negli anni 70 – operazione di revisionismo di cui le varie commissioni parlamentari sul rapimento Moro sono state uno strumento di punta.

Probabilmente è questo suo rigoroso lavoro di ricerca che ha dato fastidio a qualcuno: un ex brigatista dovrebbe starsene zitto, in un angolo, a scontare i suoi residui di pena e a meditare sui propri peccati; che pretenda di mettersi a fare ricerca storica deve essere sembrato un affronto; che poi contribuisca a smontare minuziosamente le nuove traballanti verità di regime, può risultare un atteggiamento addirittura criminale. Gli sconfitti dovrebbero tacere e lasciarsi cucire addosso gli abiti di scena che in questa o quella stagione, altri provano a imbastire. E poi è meglio non far sapere troppo in giro qual è stato l’esito di questa nuova Commissione di cui Persichetti ha diffuso il prezioso “materiale riservato” e cioè che: “Moro è stato rapito, interrogato e giustiziato dalle BR” – testuale suggello finale del presidente on. Giuseppe Fioroni al termine dei lavori della Commissione medesima. Bella scoperta no? – formulata da chi ha diretto l’illustre team investigativo, che decisamente non lascia dietro di sé rivelazioni epocali, tali da riscrivere la storia d’Italia. Grandi vecchi, agenti infiltrati di ogni nazionalità, motociclisti e ‘ndranghetisti fantasma, covi ballerini e fantascenari globali, hanno riempito solo gli scaffali delle librerie e le carriere tristi di personaggi – di solito ex PCI – che hanno provato a esorcizzare il conflitto col complotto. Mai si è usciti dalla fantanarrativa, anche se probabilmente, tra un paio d’anni, qualcun altro riproporrà l’urgenza di una nuova commissione d’inchiesta sui “misteri del caso Moro”: producendo il solito mix di solennità parlamentari, teoremi paranoici e fuffa, che pare essere ormai l’ultima eccellenza produttiva italiana.

Se promuovere una riflessione storico-politica sugli anni 70 e la lotta di classe in questo paese, può costare l’iscrizione nel registro degli indagati per “associazione sovversiva”, la redazione di Carmilla dovrebbe essere ascritta in blocco a tale sodalizio delinquenziale – basterebbe dare un’occhiata ai nostri archivi. E così per molte altre riviste, siti e centri studi. Siamo tra coloro che hanno continuato a tenere aperta una memoria critica e viva, sulla storia del conflitto – anche armato – senza rimozioni o autocensure. E ci siamo sempre schierati contro il clima fetido di vendetta di Stato che periodicamente riemerge ad ammorbare l’aria. E’ evidente che la storia di quel decennio non è roba vecchia, da soffitta, ma una potente scoria radioattiva mal interrata. Periodicamente qualcuno tenta di ritirarla fuori a proprio uso e consumo, ma i veleni che si liberano da queste operazioni sono imprevedibili. Anche perché disotterandola, quella memoria potrebbe uscire dalle letture mainstream e diventare in qualche modo “contendibile”. E il lavoro di Paolo Persichetti, in tutti questi anni, è andato proprio in questa direzione: un lavoro per il quale merita la solidarietà e la vicinanza di tutti quelli che si schierano sul fronte della verità e della giustizia.

Vendetta di Stato, dicevamo. Cesare Battisti è una specie di incarnazione di questo concetto. Mostrificato per anni quale simbolo di impunità e arroganza radical chic; sequestrato e illegalmente spedito in Italia, a seguito di un decennale accanimento diplomatico ed una meschinissima operazione politico-mediatica; oggi recluso in condizioni di tale durezza, nel carcere di Rossano, da indurlo ad uno sciopero della fame dal quale annuncia di non voler recedere, a costo della vita. Non sta chiedendo condizioni di favore, ma almeno che il Ministero di Grazia e Giustizia rispetti la “propria” legalità. Cesare è un anziano scrittore 66enne, pieno di patologie, che non fa politica da 40 anni: quale accidenti di logica c’è nell’infilarlo in una sezione di Alta Sicurezza – dentro il reparto dei reclusi Isis! –, se non la perversa vocazione alla vendetta verso ogni sia pur lontanissima memoria ribelle? Possibile che a nessun “sincero democratico” ripugni questa condizione pre-moderna di annichilimento del nemico?

E la reclusione al 41 bis di Nadia Desdemona Lioce, 18 anni dopo lo scioglimento della sua organizzazione – a che criteri giuridici o di sicurezza, risponde? E che logica c’è, nella sbandieratissima operazione Ombre Rosse, fortunatamente sgonfiatasi prima di poter distruggere concretamente delle vite? Nei giorni in cui l’operazione furoreggiava sulle prime pagine, Mentana constatò che la ministra Cartabia aveva cominciato a decollare nei sondaggi di gradimento; il vecchio marpione di redazione, non trovando motivazione razionale a tale ascesa, attribuì candidamente “alla cattura dei terroristi latitanti” la ragione di questo consenso. Un ministro anonimo e impotente davanti al disastro delle carceri italiane – fresche di strage –, prova a guadagnare qualche punto, inseguendo fantasmi parigini e vendendoli all’opinione pubblica come “risarcimento morale per le famiglie delle vittime”. Ecco, questo è il nostro paese in estrema sintesi: cinismo di governo, sondaggi, trombonismo giustizialista contro i deboli e disprezzo per le “vite degli altri” – ridotte a copione funzionale a questo o quell’allestimento scenico.

Ma abbiamo anche gli “esuli in patria” – quelli che pur non essendo usciti dal paese, vivono una condizione di minorità, precarietà, ridotta dotazione di diritti – più o meno come i fuoriusciti, ospiti provvisori di uno stato estero. Sono ad esempio i lavoratori della Fedex, rimbalzati negli ultimi giorni tra le pagine della cronaca sindacale e non. In occasione della chiusura del magazzino Fedex di Piacenza – circa 300 famiglie, una grossa azienda, per le dimensioni attuali – non si è vista alcuna mobilitazione civile o istituzionale, come pur avviene (se non altro per motivi di opportunità politico-elettorale) in diverse vertenze aperte sui territori. La chiusura della Fedex piacentina non ha indignato nessuno – a parte i soliti comunicati di rito. Solo i lavoratori, organizzati nel loro comitato di base, stanno tenendo alta la bandiera delle proprie ragioni: da soli, affidandosi alla solidarietà di classe proveniente dagli altri magazzini del gruppo e della filiera. Sono i “brutti, sporchi e cattivi” dell’agire sindacale, quelli che hanno conquistato negli anni qualche elemento concreto di potere operaio: quindi se uno stabilimento infestato da gente così chiude, non è poi una grave perdita per la comunità. Del resto, parecchi di quei lavoratori, in quanto stranieri, non votano neppure – perché preoccuparsi per loro? Frantumare le concentrazioni industriali eccessivamente sindacalizzate è sempre una strategia all’ordine del giorno. All’alba del 10 giugno, ai cancelli di un magazzino Fedex di Lodi, davanti al quale era atteso un presidio di solidarietà ai colleghi piacentini, i padroni hanno allestito una squadraccia antisciopero, spalleggiata dall’eloquente appoggio della polizia in assetto di guerra, pronta a intervenire nel caso i crumiri avessero avuto la peggio. Immagini vergognose che hanno avuto ampia circolazione in rete, che si sommano a mille altri episodi che non hanno goduto di pari visibilità. Nel settore, le teste rotte, le macchine bruciate, le coltellate, le minacce mafiose degli sgherri dei padroncini, sono da anni all’ordine del giorno. Tra un po’ la lotta armata la faranno dall’altra parte, contro gli scioperi e la sindacalizzazione – parallelismi paradossali della vicenda italiana: la vendetta padronale si organizza attivamente contro chi non si dissocia, non si rassegna, non rientra nei ranghi. Quei lavoratori rappresentano un pezzo di Italia “minore” che vuole uscire all’invisibilità: per raccontare la loro condizione di esiliati dalle fasce protette (sempre meno) del mercato del lavoro tradizionale, spediti a produrre ricchezza nei territori ancora non pienamente colonizzati della circolazione frenetica delle merci.

Occorre esprimere contemporaneamente solidarietà a Paolo, a Cesare, agli esuli parigini e a questi nuovi esuli “interni” della Fedex – e di tutte le altre mille realtà produttive che vivono lo stesso minaccioso degrado. Che c’entrano, dirà qualcuno, gli anni 70 con i facchini in lotta? C’entrano. C’entrano eccome – per chi cerca di uscire dalle secche del pensiero corto e debole, e prova dare una lettura complessiva, storica e generale della lotta delle classi subalterne e del loro orizzonte di emancipazione. Dalle galere, alle aule di tribunale, ai cancelli degli stabilimenti: nessuno resti solo, davanti al suo carico di repressione.