Informazioni su soccorso rosso proletario

Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali "elementi di compensazione" che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di "utili" generi di occupazione. Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? ...

Rivolta nel carcere di Isernia durante il lockdown, chiesto il processo per 16 detenuti

La Procura di Isernia ha chiesto il rinvio a giudizio per 16 detenuti per la sommossa nel carcere pentro. I fatti risalgono al 9 marzo 2020, all’inizio del lockdown quando molte strutture carcerarie erano in rivolta per la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari e le pessime condizioni sanitarie in carcere, aggravate dall’emergenza pandemica da Covid-19.
Come affermato a suo tempo dallo stesso Procuratore della Repubblica Carlo Fucci, nel carcere di Isernia le forze dell’ordine circondarono la casa circondariale con una doppia cinturazione e l’unico detenuto che tentò la fuga fu bloccato, facendo desistere anche gli altri dall’evasione. La rivolta rientrò quando, in seguito a una trattativa, fu garantito ai detenuti il ripristino dei colloqui via skype e la dotazione di mascherina agli agenti di polizia penitenziaria.
Ora 16 detenuti sono accusati di devastazione e saccheggio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale ed evasione, rischiando pene pesantissime per aver preteso il rispetto minimo dei loro diritti.
Lottare per la propria e altrui salute, lottare per il diritto all’affettività delle persone detenute non è reato!

Senza le rivolte della primavera 2020 le infami condizioni di chi è recluso non sarebbero mai emerse.

15 detenuti sono morti in seguito alla feroce repressione di quelle rivolte! Altri si sono ammalati e sono morti per la mancanza di adeguate misure deflattive da parte del governo. Molti hanno avuto il coraggio di denunciare le torture, i pestaggi, le vessazioni, le umiliazioni, sfidando la rappresaglia e i ricatti, anche verso i propri familiari, nel ventre della bestia, a rischio della loro vita. Alcuni di loro, giunti a fine pena, non sono stati scarcerati, ma trasferiti in altre carceri e sottoposti a rigida censura. Di loro, soprattutto gli immigrati, non si hanno più notizie.

Le varie procure, a cominciare da quella di Bologna, si sono affrettate ad archiviare le morti come conseguenza per overdose, ma i familiari e le associazioni in loro difesa non hanno rinunciato a fare battaglia per riaprire le indagini. Su questo c’è bisogno di una mobilitazione di massa in loro sostegno, perché i vasi di Pandora, come quello scoperchiato dai video della mattanza al carcere di S. Maria Capua Vetere, vengono immediatamente richiusi, mentre avanza rapidamente la macchina dell’ingiustizia borghese contro i detenuti ribelli.

Ed è giusto e necessario opporre a questa macchina i paletti della solidarietà proletaria

Ribellarsi è giusto, solidarietà ai detenuti sotto processo!

SRP

La casa è un diritto, difenderlo è un dovere oltre che una necessità. Ma lo stato borghese non rispetta diritti se non quello della sacra proprietà privata e del profitto. Solidarietà ai compagni condannati per aver difeso il diritto all’abitare

Bologna: Condanne per lo sgombero di Via Irneri

Il Tribunale di Bologna ha condannato quattro attivisti, ad 8 mesi di reclusione, per i fatti avvenuti in occasione dello sgombero dell’occupazione abitativa di Via Irnerio 13 a Bologna. Di seguito il comunicato di AsIA/Usb e Cambare Rotta

Oggi 20 ottobre 2021 abbiamo ricevuto la condanna per i fatti avvenuti in occasione dello sgombero dell’occupazione abitativa di Via Irnerio 13 a Bologna, attuato il 3 maggio del 2016.

Il giudice ha condannato ad 8 mesi quattro compagni per resistenza a pubblico ufficiale. Il Tribunale dunque accoglie parzialmente l’istanza dell’accusa che aveva richiesto pene di 8 mesi per 10 compagni, alcuni accusati di aver occupato lo stabile, altri per resistenza e un altro ancora per manifestazione non autorizzata.

Certo siamo contenti per i compagni assolti, ma non possiamo nascondere la nostra rabbia nel vedere condannati compagni e solidali per asserita resistenza, quando le dinamiche di quella giornata sono ben riscontrabili dai numerosi video di quel giorno, che hanno visto violentissime e numerose cariche a freddo.

L’occupazione di via Irnerio13, organizzata da Asia Usb, è durata 3 anni e ha dato un tetto ad oltre 60 persone di cui 15 minori. Ha rappresentato una delle più longeve denunce di come le istituzioni pubbliche abbiano abbandonato il diritto all’abitare, garantendo piuttosto gli interessi del mercato privato che speculano e imperano sui bisogni pubblici. Ha rappresentato anche un ponte tra le istanze sociali/sindacali e quelle politiche: all’interno dell’occupazione – al Terzo Piano – è nata anche Noi Restiamo, ora Cambiare Rotta – organizzazione giovanile comunista, che da qui ha iniziato un percorso estesosi a tutti i piani della condizione giovanile: dalla questione della casa e degli alloggi, fino all’università e al precario mondo del lavoro, ha permesso di individuare la cornice di crisi di prospettive che questo sistema offre alle giovani generazioni.

Questa sentenza, a cui sicuramente faremo appello, non ci fermerà nelle nostre battaglie per il diritto all’abitare. Questo processo infatti vede come condannati non solo gli attivisti, ma anche i solidali, attaccando così quella parte di città che direttamente o indirettamente ha lottato per un modello di città differente da quello sostenuto e portato avanti dalle istituzioni, anche tramite le pratiche di lotta come le occupazioni abitative per rivendicare diritti basilari per tutte e tutti.

Se negli ultimi anni la forte emergenza abitativa è stata affrontata solo con criminalizzazione e repressione, non mettendo un campo nessuna soluzione concreta, oggi l’emergenza abitativa non solo è rimasta, ma si è acuita con la crisi sociale ed economica che stiamo attraversando, dimostrando come nulla sia cambiato in questi cinque anni nell’approccio a questo tema da parte delle istituzioni.

Gli sfratti sono ripresi e aumenteranno, con migliaia di famiglie che, a fronte di lavori precari e sottopagati, non possono permettersi gli affitti del mercato privato di questa città. Le case popolari, che dovrebbero essere garanzia per il diritto alla casa, vengono invece lasciate all’abbandono, con centinaia di appartamenti sfitti e liste infinite per le assegnazioni.

Mentre amministrazioni e tribunali cercano di criminalizzare, processare e reprimere chi lotta per il diritto all’abitare e i diritti sociali, vedendo nelle nostre rivendicazioni una grave condotta da punire, noi continueremo ad organizzarci insieme a tutti quelli che subiscono condizioni di sfruttamento e precarietà.

Siamo convinti più che mai che sia necessario continuare e rilanciare quelle pratiche di lotta e organizzazione che ci appartengono, per imporre la centralità del diritto alla casa contro istituzioni capaci solo di portarci a processo e fare tante promesse che nei fatti si dimostrano solo belle parole.

Non è un caso infatti che la conferenza stampa di oggi sia stata convocata proprio in via Zampieri 13, in cui è stato occupato da Asia-USB un alloggio Acer il giorno dello sciopero generale l’11 ottobre e che non abbiamo intenzione di lasciare fino a quando non si procederà con l’assegnazione dello sfitto. Questa occupazione è in perfetta continuità con i nostri percorsi di lotta portati avanti negli anni, e non sarà di certo l’ennesima misura repressiva a fermarci.

Ieri come oggi, troppe case vuote e troppa gente senza casa. È tempo di cambiare rotta!

Asia-USB

Cambiare Rotta

Da osservatorio repressione

Il questore di Roma vieta le manifestazioni, anche statiche, a lavoratrici e lavoratori

Il governo usa le azioni dei fascisti/novax per una stretta repressiva indiscriminata contro cortei e manifestazioni. Invece di colpire seriamente i fascisti novax e rompere con i loro referenti politici Salvini/Meloni, colpisce le manifestazioni legittime e necessarie di lavoratori e lavoratrici. Proprio il questore di Roma, che il 9 ottobre si è reso responsabile dell’assalto fascista a una sede sindacale, si permette ora di sospendere il diritto a manifestare, costituzionalmente garantito, delle lavoratrici Alitalia.

Da Osservatorio repressione

“Dovete stare zitti e buoni”. La Questura di Roma sospende i diritti costituzionali

La questura di Roma vieta, senza spiegare il motivo, due manifestazioni statiche indette dall’Usb in piazza SS. Apostoli

Riceviamo notizia in queste ore di una sospensione (temporanea?) dei diritti costituzionali.

La settimana passata sono state convocate due manifestazioni statiche, una prevista in piazza SS. Apostoli venerdì 22 ottobre per la gratuità dei tamponi nelle aziende partecipate pubbliche ed una convocata sempre a piazza SS. Apostoli per oggi, mercoledì 20 ottobre promossa dalle lavoratrici Alitalia. Le due manifestazioni erano state, ovviamente, regolarmente comunicate alle autorità competenti.

Una “informale” telefonata della Questura di Roma, ricevuta dalla sede nazionale della Confederazione USB, ha comunicato verbalmente il divieto di svolgere le manifestazioni, senza spiegarne le ragioni, senza spiegarne i motivi, i fondamenti giuridici, senza indicare la fonte da cui è partito il divieto se non con un generico riferimento al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica.

È stato inoltre dichiarato il diniego a mettere per iscritto il divieto.

La mancanza di forma scritta impedisce di fatto ogni reazione che si inscriva nei fondamenti dello Stato di diritto e proietta questo divieto nella categoria, di matrice autoritaria, degli ordini indiscutibili.

Ma noi abbiamo da sempre il vizio di porre delle domande, anche quelle più scomode. Chi ha deciso che non si può più manifestare? Il divieto riguarda tutti, qualsiasi soggetto promotore di una manifestazione? Riguarda qualsiasi tema? Attiene a qualsiasi piazza? È un divieto permanente? Ed è definitivo pure il diniego a fornire motivazioni? Di indicare le fonti normative e le autorità preposte che hanno stabilito questa arbitraria sospensione delle garanzie costituzionali?

Quanto sta accadendo è di una gravità senza precedenti. USB e Centro Iniziativa Giuridica (Ce.In. G.) non staranno né zitti né buoni. Rivendichiamo “il diritto di riunirsi pacificamente”, chiederemo che ci vengano indicati “i comprovati motivi di sicurezza e si incolumità pubblica”, debitamente specificati per le due manifestazioni. Rivendichiamo il diritto di parola, di pensiero. E di dissentire. Appunto, né zitti, né buoni.

Unione Sindacale di Base

Centro Iniziativa Giuridica Abd El Salam

DIRITTO ALLA CASA: SGOMBERO POLIZIESCO AL QUARTIERE POPOLARE SAN LORENZO DI ROMA

Da radiondadurto

Il ballottaggio elettorale non ha fermato gli sgomberi abitativi a Roma, dove lunedì 18 ottobre la polizia ha atteso che il picchetto in difesa di Carlos, 68enne in difficoltà economica, terminasse – nel primo pomeriggio – per poi eseguire lo sgombero dell’appartamento dove vive ormai da un quarto di secolo, nel quartiere capitolino di San Lorenzo, da anni al centro di un processo di gentrificazione e turistificazione, con la conseguente espulsione delle classi popolari. 

Ci racconta cosa è successo Stefano Portelli, attivista di Rent Strike-Sciopero degli Affitti, raggiunto nel pomeriggio di lunedì 18 ottobre. Ascolta o scarica

Sulla vicenda va registrata anche la presa di posizione del Movimento per il Diritto all’Abitare di Roma, assieme ad Asia – Usb e Cambiamo Rotta. Convocata in piazza Santi Apostoli, sotto la Prefettura, una conferenza stampa, per le ore 12 di martedì 19 ottobre.

Di seguito, il comunicato:

“Cambia l’amministrazione, continuano gli sfratti!
Martedì 19 ottobre ore 12 conferenza stampa davanti alla Prefettura.
Nel momento in cui ci si apprestava a chiudere i seggi e contare le schede elettorali, Carlos è stato sfrattato con la forza pubblica dalla casa e dal quartiere in cui abitava da decenni, San Lorenzo, per finita locazione, senza alcuna soluzione alternativa né considerazione per le sue condizioni di fragilità economica. Uno sfratto a cui abbiamo assistito a fronte dei troppi che non conosciamo, considerato che solo nell’ultimo anno sono stati richiesti oltre 4,500 provvedimenti di sfratto esecutivi, e che già nelle prossime ore saremo impegnat* in nuovi appuntamenti (a partire dalla difesa di Marco, mercoledì 20, truffato dei Piani di Zona, a via Monte Stallonara 90).
Vogliamo chiedere direttamente a chi si appresta ad amministrare questa città, e al Prefetto Piantedosi: è questa la graduazione degli sfratti che immaginate? E’ ancora una volta la risposta muscolare e di ordine pubblico quella che, ammantata di una patina di sensibilità per le fragilità sociali, si continua ad opporre, approfittando quando la città è distratta a guardare altro?
Queste questioni le porremo martedì 19 ottobre, con una conferenza stampa convocata alle ore 12 davanti alla Prefettura, in piazza SS. Apostoli, ribadendo ancora una volta la necessità di riaprire quanto prima il confronto bruscamente interrotto dopo la soluzione positiva per viale del Caravaggio. Il diritto all’abitare non può aspettare!
Movimento per il Diritto all’abitare
ASIA-USB
Cambiare Rotta”

Arrestato l’attivista palermitano Chadli Aloui. A lui la solidarietà del SRP, che rilancia in occasione del processo che si terrà il 3 novembre

A Palermo Chadli Aloui, studente universitario, attore teatrale e istruttore sportivo, è stato arrestato nella notte tra il 13 e il 14 ottobre mentre si trovava a casa.

Della sua vicenda ne avevamo già parlato, quando ad Aprile scorso, a seguito della sentenza del Tribunale che gli ha imposto la sorveglianza speciale, è costretto all’obbligo di rientro serale presso il proprio domicilio.

La sera del 13 ottobre, durante un controllo, gli agenti di polizia hanno ripetutamente provocato i suoi familiari con insulti e spintoni.

Poi hanno anche disposto l’arresto di Chadli e denunciato un componente della sua famiglia con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale.

Il 14 ottobre c’è stato il processo per direttissima contro Chadli che si è concluso con un rinvio a giudizio al 3 novembre. Nel frattempo Chadli è stato rilasciato con obbligo di firma.

In questi giorni a Palermo è partita una campagna di solidarietà per sostenerlo di fronte all’ennesimo sopruso.

Ci racconta quanto accaduto Domiziana, compagna di Antudo Palermo. Ascolta o scarica

Da radiondadurto

Strage al carcere di Modena: la procura riapre il caso sulle violenze dopo rivolta del marzo 2020

La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate.

È lo scossone che riapre il caso del Sant’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti. Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto.

Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato “come un animale”.

“Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora”.

Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. “Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”.

Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani “rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita”.

A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura. “È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda”, commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta.

L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che “sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno”.

A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione “in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti”. Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi. Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazi, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta.

Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che “lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”. Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere. Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti.

Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura.

Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman. Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. “Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti”. Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. L’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno

Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte. Alle richieste di aiuto lanciate dal cellante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde “lasciatelo morire”. E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. “A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato”.

Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. “A Modena”, scrive, “molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle”. Ad Ascoli, invece, “la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva”.

Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso.

Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto.

“Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane”.

Pierfrancesco Albanese

da: L’Espresso

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“Due anni per vedere mio figlio, chiedo dignità per lui e verità per le vittime”

La rivolta al carcere. Dai fatti dell’8 marzo 2020, il primo incontro in carcere di Anna Maria, con il figlio, firmatario dell’esposto sulla morte di nove detenuti, e ancora in carcere. Il calvario di una madre che pare non avere fine.

Anna Maria è una madre che non si arrende e combatte ogni giorno per i diritti di suo figlio, carcerato, ma non solo. Anche per chiedere verità sulla morte dei nove detenuti deceduti durante e dopo la rivolta al carcere di Modena dell’8 marzo 2020. Quel giorno C., suo figlio, oggi 41 enne, napoletano, in carcere per scippi ed altri reati predatori, si trovava all’interno del carcere. E’ uno di coloro che si trovò nel mezzo di quella rivolta che ha scritto una pagina nera nella storia del sistema carcerario Italiano. Una volta repressa, la rivolta seguì il trasferimento dei detenuti in altre carceri d’Italia. Quello di Modena era distrutto e per mesi non avrebbe più ospitato nessuno. Pur non accusato, per lui iniziò un calvario, fatto di trasferimenti da un carcere all’altro. ‘Per più di un mese non abbiamo avuto notizia di lui.

Non ci avevano detto nemmeno se era tra i morti oppure no’ – afferma Anna Maria. La incontriamo in centro, a Modena, nel presidio organizzato dal Consiglio Popolare di Modena che si è offerto per pagarle il viaggio e la permanenza in Emilia-Romagna per il tempo necessario per la visita. E dal centro ci racconta il suo dramma. Da madre con un figlio in carcere a 700 chilometri di distanza da casa. Che per settimane dopo la rivolta non sapeva dove era o se era rimasto ferito. Durante i trasferimenti nelle carceri italiane dei detenuti, che seguirono la rivolta.

Prima Ascoli Piceno, poi il ritorno a Modena per gli interrogatori, poi altri penitenziari e poi, ultimo in ordine di tempo di una serie lunghissima di spostamenti, Parma. Dove Anna Maria lo ha incontrato sabato mattina, dopo due anni da quei fatti. Al termine di un assurdo percorso che l’ha portata, disperata, a fare appello al garante dei detenuti della Campania che ha creato un canale con il suo omologo emiliano romagnolo (con il quale la famiglia non era mai riuscita a parlare), per l’incontro in carcere a Parma. Dove Anna Maria ha potuto vedere e parlare al figlio attraverso un vetro. Lui è uno dei firmatari dell’esposto denuncia per chiedere chiarezza sulla morte la morte di Salvatore Sasà Piscitelli, avvenuta ad Ascoli Piceno, l’unico decesso non ricondotto ad una morte per overdose e per il quale ancora si indaga. E sul cui caso anche Anna Maria chiede verità: ‘Non sono ancora state rese note le immagini di ciò che successe nel carcere di Ascoli Piceno dove anche mio figlio venne subito trasferito. Se sono state diffuse le immagini dei gravi fatti di Santa Maria Capo a Vetere, perché, a due anni di distanza, non viene fatta chiarezza con le immagini su quanto successe ad Ascoli?’.

Ma il dramma vissuto ancora oggi da Anna Maria, da poco pensionata con problemi di salute che oggi le rendono difficile viaggiare da Napoli a Parma, per fare visita al figlio, si estende al trattamento dei detenuti. ‘Mio marito è morto un anno fa e a mio figlio non è stato permesso né di partecipare al funerale né di visitare la tomba, non gli hanno risposto alla domanda di potere seguire i corsi universitari che aveva ripreso, e ormai sappiamo che perderà anche quest’anno. Inoltre gli è stata negata la richiesta di ottenere un trasferimento in un carcere più vicino a Napoli per permettere i colloqui. Negata, anche se era l’unica possibilità per vederci, ogni tanto.

Siamo rimasti solo io e suo fratello ma io ho problemi di salute, presto mi dovrò operare e difficilmente riuscirò a breve a tornare a Parma. Poi c’è un fattore economico, legato al cibo e non solo. I detenuti hanno la possibilità di ordinare alcuni alimenti da una ditta in appalto che due volte la settimana si reca all’interno. Dobbiamo pagare anche un pomodoro e una fettina di carne in più, senza considerare che quando uscirà dovrà pagare il carico di 105 euro al mese per il periodo di permanenza in carcere. Migliaia di euro, non so come faremo. Non smetteremo mai di combattere per dare dignità ai detenuti come lui e affinché la verità su quelle morti emerga’

da: lapressa.it

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Contro l’archiviazione per gli episodi del marzo 2020

Le famiglie di due degli otto detenuti morti quando a marzo 2020 scoppiò una rivolta nel carcere di Modena, in concomitanza con altre sommosse simili in altri istituti penitenziari, presenteranno ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione del fascicolo, decisa lo scorso giugno. Il ricorso, come riferito dal Tgr Rai Emilia-Romagna, sarà sottoscritto dall’avvocato Luca Sebastiani, che difende i parenti di Chouchane Hafedh e di Baakili Ali, e predisposto anche dall’avvocato Barbara Randazzo e dal professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che tra l’altro ha patrocinato e vinto il caso alla Cedu sul G8 di Genova.

da: ANSA

L’antifascismo non si processa! Solidarietà agli antifascisti di Genova sotto processo

Più di 50 compagni sotto processo per “i fatti di piazza Corvetto” contro il comizio elettorale di CasaPound del 23 maggio del 2019, in piazza Marsala. A protezione di una decina di neofascisti lo Stato aveva messo in campo 300 poliziotti che avevano pesantemente caricato e pestato i manifestanti.

Lo Stato del Capitale, questo governo, continuano a colpire chi si oppone a fascismo, razzismo, sfruttamento nei luoghi di lavoro, mentre coprono e proteggono le organizzazioni fasciste che devono essere messi fuori legge. 

Giù le mani dagli antifascisti!
Chiudere le sedi/sciogliere le organizzazioni neofasciste! 

Di seguito l’appello che invitiamo a sottoscrivere

L’antifascismo non si processa!

Come Genova Antifascista scriviamo quest’appello in forma di lettera aperta che invitiamo a sottoscrivere alle realtà politiche, alle organizzazioni sindacali, alle associazioni ed ai singoli riguardo al processo in cui sono imputati una cinquantina di compagni e compagne per la manifestazione antifascista del 23 maggio 2019.

Per il 23 maggio del 2019 viene concessa alla formazione neo-fascista Casa Pound l’autorizzazione per la tenuta del comizio finale della sua campagna elettorale per le “europee” in una piazza centrale del capoluogo ligure.

La piazza concessa, antistante a Piazza Corvetto, viene data nonostante le varie forme di pressione e gli appelli alle autorità locali nel non far tenere tale iniziativa. Appelli e iniziative che sono cadute nel vuoto.

È una settimana particolare per Genova.

Lunedì mattina, grazie ad una mobilitazione che ha portato allo sciopero dei lavoratori addetti al carico-scarico del terminal e ad un presidio solidale ai varchi, era stato impedito l’imbarco di materiale militare che sarebbe stato impiegato nella guerra in Yemen sulla nave saudita Bahri Yanbu attraccata alle banchine genovesi.

Sarà la prima di numerose iniziative di azione e denuncia nella città contro il traffico di armi nello scalo ligure.

Mercoledì, vi era stata una mobilitazione degli insegnanti a Genova – come nel resto d’Italia – contro i provvedimenti per la docente in Sicilia che aveva osato criticare l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, e lo stesso giovedì in cui si sarebbe dovuta tenere la kermesse elettorale neo-fascista vi era stato uno sciopero di 24 ore in porto proclamato da differenti sigle sindacali.

La tenuta del comizio di Casa Pound è giustamente valutata come una provocazione quindi da una parte non trascurabile della città, ancor più per la sordità delle istituzioni cittadine e l’ingente militarizzazione che sin dalla mattina costruisce una specie di “cordone sanitario” attorno alla piazza concessa ai neo-fascisti.

Saranno circa 300 gli agenti impiegati per difendere alcune dozzine di neo-fascisti che si erano resi responsabili in precedenza di diverse aggressioni, tra cui un accoltellamento.

Bisogna ricordare che in quelle settimane, in differenti forme, in diverse città la presenza neo-fascista e leghista era stata duramente contestata con determinazione a Casalbruciato a Roma, come a Firenze e a Bologna.

Un segno tangibile dell’opposizione ad un governo guidato da Lega e Movimento 5 Stelle e alle loro politiche.

Per le 16:30 del 23 maggio veniva lanciato un concentramento in piazza Corvetto che in breve tempo si riempie di persone di ogni età, tra cui molti giovanissimi, mentre un nutrito numero di agenti protegge la piazza concessa ai fascisti.

Ai tentativi di forzare il cordone sanitario predisposto a difesa di Casa Pound cinturato dietro alte gabbie di metallo in direzione della piazza, viene risposto con un continuo lancio di lacrimogeni (il primo, colpisce la vetrina di una celebre pasticceria frantumandola) e la pressoché chiusura ermetica delle vie di fuga dalla piazza che però non smobilita né arretra. Il comizio che conta un numero irrilevante di persone viene svolto in fretta e furia disturbato dal fumo dei lacrimogeni che la direzione del vento sposterà verso i “camerati”, i cori contro i neo-fascisti e le canzoni partigiane.

Finito il comizio, le forze dell’ordine si impegneranno a sgomberare la piazza con cariche e manganellate ed il lancio di lacrimogeni ad altezza uomo, dando luogo a ripetuti pestaggi. Una persona, che si scoprirà essere un giornalista, verrà letteralmente massacrato di botte, “salvato” per così dire da un graduato che riconoscendolo si getta su di lui per schermarlo dagli agenti che lo stavano picchiando.

In questo contesto due persone vengono fermate. Saputa la notizia dalla piazza, parte un nutrito corteo che si dirige fuori la questura per chiedere la liberazione immediata dei manifestanti.

Per i “fatti di piazza Corvetto” sono stati denunciati ed ora sono sotto processo (diviso in due tronconi) più di una cinquantina di compagni e compagne, una parte consistente dei quali con accuse per reati che prevedono per ciascuno decine di anni di galera, qualora fossero condannati con il massimo della pena.

Si tratta di uno dei processi “politici” con più imputati e per reati più gravi che abbia visto la storia giudiziaria di Genova dal dopo-guerra ad oggi. Un tentativo di punire collettivamente chi ha voluto rispondere alla provocazione neo-fascista quel giorno, di annichilire il corpo di attivisti che in questi anni hanno portato avanti importanti battaglie politiche e sindacali in questa città che sono tra gli imputati, ed un monito verso le nuove generazioni che vogliono organizzarsi efficacemente contro la macelleria sociale e la deriva autoritaria, e l’assenza di prospettive in questo Paese.

Ma questo processo non è che un segmento di una repressione più ampia che si è abbattuta su attivisti e movimenti anche a Genova con inchieste, altri processi e provvedimenti di Sorveglianza Speciale.

È necessario fare sentire la solidarietà ai compagni ed alle compagne sotto processo e chiedere a gran voce il proscioglimento delle accuse per cui sono imputati, così come promuovere un’ amnistia politica e sociale generalizzata per chi in questi anni non ha piegato, e non intende piegare, la testa nonostante la repressione subita.

Per chi volesse sottoscrivere l’appello scrivere a: genovaantifascista@gmail.com