Informazioni su soccorso rosso proletario

Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali "elementi di compensazione" che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di "utili" generi di occupazione. Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? ...

Migliaia in corteo a Napoli in solidarietà al movimento dei disoccupati e contro la repressione

Migliaia di persone hanno manifestato ieri pomeriggio a Napoli, sfidando il provvedimento ministeriale che vieta lo svolgimento di cortei nei centri storici delle città durante i fine settimana. Il corteo, partito da piazza Garibaldi intorno alle tre del pomeriggio, ha percorso il Rettifilovia Medinavia Acton ed è giunto fino a piazza Plebiscito, dove i manifestanti sono rimasti in presidio per circa un’ora.

Proprio in considerazione del recente divieto di svolgere manifestazioni il sabato e la domenica al centro città, la piazza napoletana ha assunto una doppia valenza. Era stata convocata infatti mesi fa dai disoccupati organizzati “7 Novembre” in risposta al crescente livello di repressione di cui è stato oggetto il movimento, e in particolar modo in segno di protesta per le indagini a carico di alcuni suoi esponenti con la pesante accusa di associazione a delinquere. Nel frattempo è arrivata, all’inizio di questa settimana, la direttiva-divieto della ministra Lamorgese, ultimo atto di strumentalizzazione politica dell’emergenza sanitaria, un tema diventato centrale nella piattaforma elaborata dagli organizzatori del corteo napoletano.

Anche alla luce delle difficili condizioni di agibilità politica nel corso di questa infinta emergenza per chi lotta sui territori, per gli operai, gli studenti, i lavoratori, i movimenti per la casa, la manifestazione si era trasformata nel giro di qualche mese dalla sua indizione in una manifestazione nazionale. Tante sono state infatti le adesioni di movimenti, sindacati di base e gruppi organizzati provenienti da tutto il paese, e tante persone si sono radunate a Napoli per mostrare solidarietà ai 7 Novembre, una solidarietà che si è poi tramutata, simbolicamente, in una presa di posizione rispetto all’ennesima limitazione della libertà di stare in piazza.

Il corteo si è svolto in maniera determinata ma tranquilla, senza interferenze da parte delle forze dell’ordine che l’hanno preceduto e seguito a una distanza di sicurezza. Ad aprire il lungo serpentone alcuni disoccupati hanno mostrato i volti di Draghi, Landini e Bonomi, accompagnati da dei cartelli con scritto: “L’associazione a delinquere sono loro”. Dietro, a seguire, lo spezzone dei 7 Novembre, e poi via via tutti gli altri partecipanti. Al microfono si sono alternati interventi di narrazione delle numerose lotte, da quelle dei facchini della logistica a quella dei No Tav, e altri di solidarietà ai disoccupati napoletani. Arrivati in piazza Plebiscito, il presidio è rimasto attivo a lungo, tra cori, fumogeni e altri interventi, davanti a un folto cordone di polizia schierato a protezione della prefettura.

Da Napolimonitor

Egitto: Salvare Ramy Shaat, nelle mani di al Sisi come Patrick Zaki

Da Osservatorio repressione

L’attivista di origine palestinese è in carcere da due anni e mezzo. La storia di Ramy Shaath ricorda in modo inquietante quella di Patrick Zaki, lo studente egiziano all’università di Bologna imprigionato in un carcere del Cairo dal febbraio del 2020 per “eversione”, “minaccia alla sicurezza nazionale” e “fiancheggiamento del terrorismo”.

di Daniele Zaccaria

Attivista di origine palestinese, Ramy Shaat da oltre due anni e mezzo è detenuto nella prigione di Tora, pochi chilometri a sud della capitale, con le stesse, vaghe accuse, del povero Zacki.

La sua unica fortuna è di essere sposato con una cittadina francese, Céline Lebrun- Shaath, che da venti mesi si sta battendo come una leonessa per la sua liberazione, portando il caso sulla ribalta mediatica e interrogando senza sosta il mondo politico transalpino. Una petizione per la rimessa in libertà di Shaat è stata ufficialmente firmata da circa duecento deputati dell’Assemblea nazionale, ma senza alcun esito concreto.

Eppure i rapporti tra Parigi e il Cairo sono eccellenti e il presidente Macron dispone di tutte le armi diplomatiche per esercitare pressione sul presidente al Sisi. “In questi due anni e mezzo ci sono stati incontri bilaterali, vertici, telefonate, ma mio marito rimane in prigione anche se non ha fatto nulla di male. Non dubito della buona fede delle nostre autorità, di sicuro metto in discussione la loro efficacia”, spiega la donna al quotidiano Le Monde. Anche se non ha mai accusato l’Eliseo, molti attivisti che oltre le Alpi si stanno occupando del caso denunciano da tempo la totale accondiscendenza della Francia nei confronti dell’Egitto sulla questione dei diritti umani, sacrificati sull’altare dei mutui interessi economici. Gli accordi commerciali tra le due nazioni sembrano così più importanti del destino di Ramy Shaat. La prossima finestra utile sarà l’11 novembre, con la visita ufficiale di al Sisi a Parigi, dove incontrerà Macron. Lo scorso anno il presidente francese aveva evocato timidamente il caso nel corso di un viaggio al Cairo, senza però ricevere alcuna risposta concreta.

In compenso ha regalato ad al Sisi la prestigiosa Legion d’onore, suscitando l’indignazione di chi da quasi 30 mesi si batte per la liberazione dell’attivista.

Shaat è stato arrestato nel 2019 mentre partecipava a una manifestazione contro il regime del generale al- Sisi. Nessuno scontro con la polizia, nessuna tensione di piazza, la sua unica colpa era il dissenso. Figlio di Nabil Shaat, uno storico dirigente dell’Anp ex negoziatore e consigliere di Abu Mazen, Shaat partecipò nel 2011 al movimento delle primavere arabe che portò alla caduta di Hosni Mubarak, finendo dopo il golpe del 2015, nel mirino della giunta militare, decisa a sbarazzarsi di qualsiasi embrionale movimento di opposizione. Pressioni su al Sisi sono arrivate anche da Ramallah da parte della dirigenza dell’Anp, ma anche in questo caso si sono rivelate inutili. L’uomo resta dietro le sbarre.

Anche perché la macchina della repressione politica funziona a ritmi spasmodici e non guarda in faccia nessuno. Se i Fratelli Musulmani sono stati messi fuori legge e i loro militanti arrestati in massa, ci sono migliaia di attivisti “laici” finiti individualmente nelle maglie della terrificante giustizia egiziana. La gran parte di loro è composta da “invisibili”, persone di cui nessuno conosce l’identità e la sorte, sepolte nelle cupe prigioni egiziane, piene zeppe di prigionieri politici.

“Ramy non ha ricevuto nessun capo formale di imputazione, non c’è stata nessuna inchiesta giudiziaria nei suoi confronti. Il regime egiziano utilizza infatti la carcerazione preventiva come strumento per mettere a tacere qualsiasi voce critica, sbattendo in prigione dei cittadini senza processo e solo per le loro opinioni politiche”, continua la moglie di Shaat, che venne espulsa dall’Egitto pochi giorni dopo l’arresto del marito. Da allora ha avuto diritto solo a delle brevi visite in prigione, ma le è vietato di soggiornare al Cairo per più di 24 ore.

da il dubbio

Equador, ennesimo bagno di sangue tra i detenuti: circa 68 detenuti uccisi e 25 feriti nella prigione di Guayaquil

Venerdì sera ci sono stati violenti scontri tra bande rivali nel carcere di Guayaquil, nell’Ecuador occidentale, durante i quali sono state uccise 68 persone e ne sono rimaste ferite almeno 25. La prigione del Litoral di Guayaquil è la più grande del paese e gli scontri si sono tenuti in un’area dove secondo le autorità si trovavano circa 700 persone. Nello stesso carcere a fine settembre erano morte più di 100 persone, sempre a causa di scontri tra gruppi rivali.

Secondo il governatore della provincia del Guayas, Pablo Arosemena, gli scontri sono dovuti a una disputa territoriale all’interno del carcere in seguito alla liberazione di uno dei leader di una banda. «Dal momento che questa sezione della prigione era senza un capobanda», ha commentato Arosemena, «gli altri gruppi hanno provato a inserirsi e hanno compiuto un vero massacro». Gli scontri sono proseguiti con minore intensità nella giornata di sabato: la polizia ha ritrovato armi da fuoco, esplosivi e coltelli, e per mantenere la sicurezza è stato chiamato anche l’esercito, che sta presidiando l’edificio con carri armati.

La rivalità tra bande criminali, legate per lo più alla droga, era stata al centro degli scontri violentissimi di fine settembre, che secondo le autorità ecuadoriane erano stati i peggiori della storia del paese: almeno cinque persone erano state trovate decapitate ed erano state utilizzate anche granate. Per fermare gli scontri erano intervenuti più di 400 agenti. A inizio novembre sempre nello stesso carcere c’era stata una rivolta più piccola, in cui erano rimasti uccisi tre detenuti.

Nelle carceri di alcuni paesi latinoamericani, che sono quasi sempre sovraffollate, gli scontri mortali tra bande sono frequenti, e perlopiù iniziano per ottenere il controllo delle strutture, spesso usate come centri di gestione dei traffici di droga e altre attività criminali. Dall’inizio dell’anno nelle prigioni dell’Ecuador sono morte quasi 300 persone in scontri di questo tipo: il carcere del Litoral è stato progettato per ospitare 5.300 detenuti, ma attualmente ce ne sono circa 8.500.

13 novembre a Napoli contro la repressione e le politiche del Governo Draghi – Nessun divieto e limitazione è accettabile per il corteo!

NESSUN DIVIETO: DOMANI CORTEO! GIÙ LE MANI DA CHI LOTTA!

info degli organizzatori

PUNTO DELLA SITUAZIONE PER CHI PARTECIPERA’ ALLA MANIFESTAZIONE DI SABATO 13 NOVEMBRE A NAPOLI

Il nostro obiettivo è garantire il corteo e l’agibilità dei disoccupati, lavoratori, precari di poter manifestare contro la repressione, l’ulteriore stretta repressiva usando la crisi sanitaria e le politiche del Governo Draghi.

La Questura di Napoli ha indicato un presidio statico a Piazza Garibaldi o Piazza Plebiscito a seguito della circolare del Ministero degli Interni sul divieto di cortei il fine settimana nei centri cittadini.

Il movimento ha deciso di organizzarsi per garantire che il corteo si faccia: chiariamo a tutte e tutti che l’obiettivo quindi della giornata è una manifestazione partecipata, ampia e che veda gli interventi di lavoratori e lavoratrici, disoccupati e disoccupate, precari e studenti, realtà di lotta. Noi vogliamo partire da Piazza Garibaldi ed arrivare a Piazza Plebiscito. E lo faremo.

Il nostro movimento è in piazza tutti i giorni e l’importanza di questa mobilitazione per noi nel rompere l’isolamento e dare visibilità ed allargare la solidarietà attorno alle ragioni della nostra lotta. Il corteo aprirà con un chiaro riferimento all’indagine di Associazione a Delinquere che coinvolgerebbe alcuni nostri portavoce a seguito di un clima repressivo che conta decine e decine di processi, multe, denunce.

Dopo l’apertura dei disoccupati, il corteo in ordine sarà composto dai lavoratori e lavoratrici solidali, i movimenti di lotta per la casa, studenti ed a seguire le organizzazioni politiche solidali che verranno a sostenere la manifestazione.

Domani h 9:00 alla Sede della Rai, Via Marconi Conferenza stampa per denunciare l’assurdo tentativo di vietare cortei e per rilanciare gli obiettivi e le ragioni della nostra mobilitazione.

Non possiamo accettare divieti da un Governo che garantisce i profitti della loro economia non di certo la salute delle classi popolari seguendo i diktat di Confindustria ed utilizza lo stato d’emergenza per portare avanti un altro attacco al diritto di manifestare ed al diritto di sciopero.

Per chi arriva in treno la fermata è quella della stazione centrale di Piazza Garibaldi, uscendo dalla stazione si arriva al concentramento andando verso la storica Piazza Mancini.

Per chi arriva con i pullman, sempre a Piazza Garibaldi, è utile indicare ai pullman nelle aree parcheggio presenti al fianco della stazione. Per il ritorno, invece, sarebbe preferibile, chiedere che i pullman possano sostare nella zona Porto dove sarà più facile ritornare a conclusione della manifestazione. Informazioni logistiche in più.

In auto: indicazioni Napoli Centro-Porto-Stazione.

In metro: linea 1 e linea 2 stazione Piazza Garibaldi-Napoli centrale.

In pullman: 151, tram 1, tram 4, R7.

In caso di pioggia di certo non ci fermeremo: portate impermeabili ed ombrelli e tanta energia.

Per le realtà che vogliono intervenire lungo il corso del corteo, chiediamo anticipatamente di contattarci, perché sarà complesso durante la manifestazione improvvisare e dare il microfono a tutti/e.

Facciamo appello a tutte e tutti ad esserci Sabato e garantire una bella, ampia e partecipata mobilitazione che rimetta al centro le ragioni dei proletari!

Una nuova caccia alle streghe in periodo pandemico: l’operazione “Sibilla” contro chi sobilla, che non ha nulla a che fare con le posizioni no-vax, condivise da anarchici, sbirri, bottegai, ristoratori e fascisti

Negli stessi giorni in cui il governo Draghi sta ulteriormente restringendo e limitando il diritto a manifestare attraverso una direttiva del Viminale, si riscatena in Umbria la caccia agli anarchici, accusati di terrorismo per aver diffuso la rivista di propaganda anarchica, niente affatto clandestina, “Il vetriolo”.

Prima dell’alba dell’11 novembre 2021 ci sono state in Italia decine e decine di perquisizioni in case di compagni e compagne anarchici a Genova, Carrara, Pisa, Cremona, Bergamo, Roma, Perugia, Viterbo, Lecce, Taranto, Cosenza e Cagliari. Le indagini svolte dai carabinieri del ROS, su ordine della Procura di Perugia, si concentrano sulle sobillazioni anarchiche e in particolar modo sul giornale Vetriolo e a “contorno” i siti di contro-informazione come roundrobin.info e malacoda.noblogs. Il reato principale che viene contestato ai compagni e alle compagne è quello di aver costituito e/o partecipato a una associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270bis), poiché, tramite le pubblicazioni sopra citate, i compagni/e avrebbero istigato a commettere atti di terrorismo contro lo Stato.

Oltre alle decine di perquisizioni in tutta la penisola, 6 le misure cautelari: l’”arresto” di Alfredo Cospito, già detenuto nel carcere di Terni, un compagno sottoposto agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e altri 4 con obbligo di dimora e firme.

Di seguito il comunicato stampa del “Comitato solidarietà inquisiti rivista vetriolo”

Dalla stampa borghese, corredata delle prove schiaccianti dei Ros contro gli anarchici inquisiti:

Neo terrorismo: la dottrina anarchica diffusa in tutt’Italia, retata dall’Umbria alla Calabria

Una rivista clandestina dal nome decisamente simbolico, ovvero “Vetriolo”: distribuita a livello nazionale dal febbraio del 2017, sarebbe servita per diffondere, in tutto il Paese, la dottrina cosiddetta “federativista anarchica”.

Dunque – e secondo gli inquirenti – uno strumento che sarebbe servito per istigare al terrorismo e all’eversione dell’ordine democratico, “distribuendo” le idee di un gruppo di anarco-insurrezionalisti, che farebbe riferimento al Fai, la Federazione Anarchica Italiana, con base nel Circolaccio Anarchico di Spoleto, in provincia di Perugia, un luogo di aggregazione dove si sarebbe discussa e approfondita e poi diffusa la stessa dottrina.

È quanto emerge dall’indagine che oggi ha portato a far scattare l’operazione chiamata in codice “Sibilla” (QUI). Su ordine della Procura del capoluogo umbro, che ha lavorato costantemente in collegamento con quella di Milano, sono oggi finite in arresto due persone, una in carcere ed una posta ai domiciliari; mentre altre quattro sono state sottoposte ad altrettanti obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria congiunti all’obbligo di dimora.

Le accuse contestate sono a vario titolo di istigazione a delinquere e istigazione a delinquere aggravata dalle finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico.

Il blitz è partito all’alba di stamani quando i Carabinieri del Ros, con il supporto dei colleghi dei relativi Comandi competenti territorialmente, hanno operato in ben dieci province di otto regioni: Cagliari, Cremona, Genova, Lecce, Massa, Perugia, Roma, Taranto, Viterbo, arrivando anche in Calabria, a Cosenza in particolare.

Come accennavamo, l’inchiesta apre uno spaccato sul presunto gruppo anarchico che avrebbe utilizzato la rivista clandestina su cui sono stati pubblicati degli articoli riconducibili ad Alfredo Cospito, considerato l’ideologo della Federazione Anarchica Informale, ma anche ad altri soggetti ritenuti appartenere allo stesso circuito eversivo.

“L’ATTACCO ALLO STATO E AL CAPITALE”
Articoli il cui contenuto – oltre a quello di propaganda e di proselitismo – secondo gli inquirenti integrerebbe l’istigazione alla commissione di “delitti non colposi contro la personalità dello Stato”.

Fin dal primo numero pubblicato, il nr. 0, infatti, gli articolisti avrebbero chiarito che il loro intento non sarebbe stato solo quello di fare un “giornale di denuncia di fatti particolarmente gravi” ma di far ripartire “l’attacco allo stato e al capitale”.

In quest’ottica gli investigatori sostengono si possano leggere una serie di danneggiamenti e attentati registrati a partire dall’ottobre 2017, e rivendicati da gruppi rientranti appunto nell’anarco-insurrezionalismo.

Fatti che dimostrerebbero quindi l’esistenza di un movimento “violento, potenzialmente interessato e recettivo rispetto ai messaggi provenienti dalla rivista Vetriolo”, spiegano gli inquirenti.

Su alcuni di questi episodi le indagini hanno portato a raccogliere degli elementi probatori anche relativi alla divulgazione sul web di documenti in chiave anti-carceraria, antimilitarista, di solidarietà ai detenuti e di istigazione alla violenza nei confronti delle Forze Armate dello Stato, oggetto di vilipendio anche attraverso scritte murali.

Contestualmente alle misure cautelari, sono state eseguite numerose perquisizioni su tutto il territorio nazionale. Inoltre, è stato eseguito un provvedimento di sequestro preventivo, emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari, che ha previsto l’oscuramento di due siti internet utilizzati dal gruppo per diffondere, anche via web, i contenuti della rivista.

Cinque poliziotti indagati per la morte di Moussa Balde al cpr di Torino

Da Osservatorio repressione

Moussa Balde

L’accusa è di omicidio colposo in concorso con il medico e il direttore della struttura

Si allarga l’indagine per omicidio colposo sulla morte, per suicidio, del giovane Moussa Balde, avvenuta nel Cpr di Torino il 23 maggio scorso. A svelarlo è La Stampa di Torino che, questa mattina, da notizia dell’iscrizione tra gli indagati, nel fascicolo aperto dai magistrati Vincenzo Pacileo e Rossella Salvati – nel quale figuravano già indagati il medico e il direttore della struttura -, di cinque poliziotti della Questura piemontese: tre agenti semplici e due graduati. A loro i pm contesterebbero il medesimo reato in concorso.

A far scattare le indagini non è stato il solo caso del giovane guineano che fu spedito nel Cpr di Torino con un foglio di via dalla provincia di Imperia, dopo essere stato aggredito nel centro di Ventimiglia (e trovato senza permesso di soggiorno), ma una serie di altri fatti anomali – in tutto una cinquantina – di migranti trattenuti nel Centro permanente per il rimpatrio del capoluogo piemontese che hanno tentato di togliersi la vita nell’ultimo periodo. La domanda che si pongono i magistrati è se questi casi sospetti, alcuni finiti in tragedia, potevano essere evitati o prevenuti. Quesiti sostenuti anche dalle associazioni umanitarie e dall’avvocato che sta seguendo il caso Balde.

da riviera24.it

Grecia: Condannato a 142 anni per aver salvato 33 vite

Rifarei tutto da capo“. Condannato a 142 anni carcere per aver salvato 33 vite umane. Quando Hanad Abdi Mohammed, somalo, nel dicembre 2020 sale sul barcone che lo deve trasportare dalla costa turca in Grecia non immagina che cosa sta per succedergli. “Avevo paura di annegare, di morire. Ma non pensavo di finire in una cella“. Al largo dell’isola di Lesbo i trafficanti turchi – come spesso accade – abbandonano il barcone e lo lasciano ai migranti. Così Mohammed, senza pensarci due minuti, afferra il timone e si mette alla guida. Ha paura ma è determinato a salvare se stesso e i suoi compagni di viaggio.

Poi, però, una volta arrivato a terra, Mohammed viene arrestato. L’accusa è di traffico internazionale di esseri umani. E in primo grado viene condannato a 142 anni di cella. “È una sentenza ingiusta e crudele“, spiega  il deputato greco di Syriza Stelios Kouloglou che domenica ha fatto visita a Mohammed in carcere sull’isola di Chios insieme a una delegazione di eurodeputati. “Nonostante la situazione, l’ho trovato calmo e lucido“, spiega ancora.

Per arrivare a questa sentenza “i giudici si sono basati su una legge greca del 2014, articolo 30 della legge 4251/2014 – spiega ancora Kouloglou – chi prende il timone è considerato un contrabbandiere e riceve una condanna a 15 anni per persona trasportata e l’ergastolo per ogni persona morta durante il viaggio“. Ma non solo. “All’imputato sono stati forniti inizialmente avvocati d’ufficio che non hanno studiato il caso e non gli è stata fornita un’appropriata assistenza nella traduzione durante gli interrogatori“, denuncia Kouloglou. Così, dopo un’udienza di circa quarantacinque minuti e di un’ora e mezza di Camera, arriva il verdetto. Uno choc.

Il caso di Mohammad non è l’unico. Secondo un rapporto pubblicato a novembre da Border Monitoring, una ong tedesca, sono stati identificati almeno 48 casi solo a Chios e Lesbo, dove “gli imputati non hanno tratto alcun profitto dal business del contrabbando“. Nella stessa prigione di Chios sono rinchiusi due afghani, di 24 e 26 anni, entrambi condannati a 50 anni sulla base della stessa accusa. “Uno di loro ha viaggiato con la moglie incinta e il figlio, nessun trafficante farebbe una cosa del genere“, dice Kouloglou.

E un uomo siriano di 28 anni è in prigione ad Atene dopo aver ricevuto una condanna a 52 anni ad aprile dopo aver attraversato la Turchia con sua moglie e tre figli, mentre un altro afghano è stato accusato per la morte del figlio durante la traversata provocata invece – secondo i testimoni – dallo speronamento della Guardia costiera greca. Una prassi comune, secondo le associazioni per i diritti umani. E proprio la condanna di Mohammad è stata aggravata dal fatto che due donne sono annegate in quella traversata. “Ma otto migranti che erano sulla barca hanno testimoniato come il trafficante turco che li trasportava avesse abbandonato l’imbarcazione dopo che una nave della Guardia costiera turca l’ha spinta a entrare in acque greche”, spiega ancora.

Il meccanismo dunque è chiaro. Accusare i migranti per cercare di fermare il flusso. Una deterrenza che “oltre che a violare i diritti umani non funziona“, concordano gli esperti. La pratica di processare i migranti per traffico di migranti è iniziata nel periodo della crisi del 2015-2016, quando più di 1 milione di rifugiati hanno attraversato la Grecia.

E si è intensificata da quando la Turchia all’inizio del 2019 ha smesso di far rispettare un accordo raggiunto con Bruxelles nel 2016 per fermare il flusso e rimpatriare tutti coloro che riescono a entrare illegalmente in Grecia che non hanno diritto alla protezione dell’UE“, dicono alcuni osservatori. Inoltre “è molto difficile per la Grecia, ma anche per l’UE, cooperare con la Turchia per reprimere il traffico”. La Grecia, dal canto suo, si difende, affermando che i suoi tribunali sono equi e che ha l’obbligo di sorvegliare i propri confini.

Negli ultimi due anni, secondo Dimitris Choulis e Alexandros Georgoulis, gli avvocati che difendono Mohammad e altri come lui, le accuse vengono mosse senza prove reali, come prova il fatto che un uomo afghano sia sotto processo contrabbando semplicemente perché aveva il Gps aperto sul suo cellulare durante un attraversamento. Ma nei confronti dei veri trafficanti non viene fatto nulla. Con il risultato che nulla cambia. Perché, come ha sintetizzato al New York Times Clio Papapadoleon, un importante avvocato per i diritti umani, “processare un rifugiato come contrabbandiere significa trattare un piccolo criminale per droga come Escobar. E forse anche peggio“.

Marta Serafini

da il Corriere della Sera