Solidarietà alla Palestina, il governo si vendica con la repressione: 6 studenti minorenni ai domiciliari a Torino

Questa mattina la questura di Torino ha effettuato perquisizioni a casa di giovanissimi con la conseguente applicazione di 6 misure cautelari ai domiciliari. Giovani che hanno preso parte alla mobilitazione di massa con lo slogan “Blocchiamo tutto” che ha visto manifestazioni oceaniche, blocchi nei principali snodi della logistica e delle infrastrutture dei trasporti, scioperi effettivi dalla fabbrica della guerra, estesa a tutto il nostro territorio nazionale. Il governo Meloni ha tentennato e ha avuto la dimostrazione che la popolazione non è disponibile a rendersi complice del genocidio in Palestina e ad arruolarsi nella guerra di domani. Per questo, dopo pochi mesi, la morsa inizia a stringere laddove si individua che possa fare più male. Creare un precedente come questo, selezionando scientificamente persone minorenni che frequentano collettivi studenteschi e hanno partecipato, insieme ad altre migliaia di giovani, alle manifestazioni dell’autunno è un colpo vile che va nella direzione di voler recidere alla base una prospettiva futura fatta di legami di solidarietà per costruire un vivere migliore.

Di seguito pubblichiamo il comunicato dell’Assemblea Studentesca di Torino

Questa mattina ci siamo svegliati con la notizia di 6 nostri compagni di scuola minorenni sottoposti a perquisizioni e agli arresti domiciliari come misura cautelare, in risposta alle mobilitazioni del movimento “blocchiamo tutto”, contro la complicità del governo Meloni nello sterminio dei palestinesi, che ha preso piede in tutta Italia durante l’autunno.

Al centro dell’indagine, la contestazione alla giovanile del primo partito di governo, che portava avanti un volantinaggio di propaganda razzista davanti al liceo Einstein.

Durante le occupazioni di tutte le scuole d’Italia nelle quali i giovani si sono resi protagonisti del movimento per la Palestina, alla polizia è stato ordinato di recarsi davanti al Liceo Einstein per difendere il volantinaggio, manganellando gli studenti che protestavano, ammanettando un minorenne. La risposta da parte di professori, genitori, studenti di tutte le scuole e della città intera è stata immediata e di massima solidarietà e sdegno verso le modalità repressive del governo.

Quello che viene fatto passare come un caso isolato rientra perfettamente all’interno di un piano di disciplinamento giovanile funzionale alla preparazione della società e delle scuole ad un clima di guerra.

I messaggi d’odio portati avanti dai volantini che il governo tiene tanto a difendere sono uno degli strumenti che questo usa per riaprire una divisione tra popoli che si era superata con il movimento per la Palestina.
Tra i motivi degli arresti i blocchi delle stazioni, avvenuti mentre in tutta Italia si bloccavano porti, autostrade, e blocchi della logistica di guerra.

Nel giorno in cui si vota la legge finanziaria, che aumenterà la spesa bellica di 23 miliardi nei prossimi tre anni, e mentre il governo si prepara alla reintroduzione della leva per i giovani, questi arresti domiciliari nei confronti di studenti giovanissimi, non sono casuali, ma una chiara intimidazione ai giovani che si sono mobilitati: non c’è spazio nelle scuole per organizzarsi contro la guerra!

Il governo si trova in una situazione complicata e per questo attua misure così aspre, in tutto ciò sappiamo bene che non possiamo fermarci davanti a questo, la posta in gioco è troppo alta. Continueremo ad andare a scuola e a porci le stesse domande sul nostro futuro a testa alta, perchè liberare tutti vuol dire lottare ancora.

Vogliamo la liberazione immediata di tutti i compagni!
INTIFADA FINO ALLA VITTORIA.

Davvero la volontà di Israele è “legge” in Italia?

Da Contropiano, interventi, analisi e interviste

Il CRED (Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia) esprime forti perplessità per le misure cautelari emesse nei confronti di Mohammed Hannoun e di altri attivisti impegnati nella solidarietà con la popolazione palestinese.

L’impianto accusatorio palesa un elemento di eccezionale criticità: una parte rilevante delle contestazioni si fonda su documentazione prodotta dall’esercito israeliano nel corso di operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. Tali materiali vengono recepiti come prove documentali senza un effettivo vaglio di terzietà, attendibilità e verificabilità.

Israele non è un soggetto neutrale né una semplice “parte in conflitto”. È uno Stato attualmente sotto scrutinio per genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia e destinatario di misure provvisorie vincolanti. Questo dato giuridico non può essere ignorato nel momento in cui le sue forze armate producono materiale probatorio destinato a incidere sulla libertà personale di cittadini e residenti in Italia.

Si tratta di documenti formati in un contesto radicalmente incompatibile con le garanzie del giusto processo: assenza di contraddittorio e produzione da parte di un apparato militare direttamente coinvolto in crimini oggetto di indagine internazionale. Il loro utilizzo determina un grave slittamento tra cooperazione giudiziaria e recepimento acritico di intelligence militare.

Particolarmente allarmante è la qualificazione di attività di assistenza umanitaria come “finanziamento al terrorismo”, fondata sull’inclusione delle organizzazioni beneficiarie in liste predisposte da un governo straniero. In tal modo, l’etichettamento politico sostituisce l’accertamento giudiziale: se l’esercito israeliano qualifica un soggetto come “familiare di un terrorista”, tale definizione viene assunta come presupposto di reato dal giudice italiano, senza alcuna verifica autonoma.

In questo quadro, l’azione penale sembra piegarsi a una rilettura unitaria di oltre vent’anni di attività, tentando di dare rilievo penale a fatti già oggetto di passate archiviazioni. L’uso di presunti “nuovi elementi” forniti dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre 2023 configura una sorta di “clima di emergenza interpretativa” che travolge i principi di legalità e certezza del diritto, agendo retroattivamente su condotte nate come solidarietà lecita.

Ciò che si delinea è un caso paradigmatico di lawfare: l’uso del diritto penale come proiezione di una strategia politica e militare esterna, in cui l’intelligence di uno Stato accusato di genocidio finisce per orientare le valutazioni di un tribunale della Repubblica Italiana. È un corto circuito istituzionale che compromette la sovranità della funzione giurisdizionale.

Il CRED richiama la magistratura al rispetto rigoroso dei principi di autonomia e indipendenza. L’accertamento penale non può fondarsi su prove prodotte da un apparato militare in guerra, né su etichette politiche. In gioco non vi è soltanto la posizione degli indagati, ma la tenuta dello Stato di diritto e il confine, sempre più fragile, tra giustizia e guerra giuridica.

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L’inchiesta sui presunti finanziamenti ad Hamas vuole criminalizzare chi si oppone al sionismo e all’imperialismo genocida

Non ci siamo mai lasciati davvero alle spalle gli spettri del Novecento. Negli anni Settanta, in Italia, il cosiddetto “teorema Calogero” trasformò il dissenso sociale in un’ipotesi criminale: un’equazione giudiziaria che stabiliva un nesso implicito tra conflitto politico, lotta di classe e insurrezione armata. Un dispositivo interpretativo tanto elastico da consentire indagini, arresti e processi non su prove, ma su possibilità: bastava condividere assemblee, riviste, slogan, frequentazioni, per essere risucchiati nel cono d’ombra del sospetto.

Cinquant’anni dopo, quella logica non è scomparsa: ha cambiato linguaggio, bersagli e strumenti, ma non la sua funzione. Oggi il “solidale” diventa pericoloso, il dissenso destabilizzante, la critica radicale delegittimazione. L’inchiesta sui presunti finanziamenti ProPal ripropone lo stesso meccanismo a catena: qualsiasi sostegno umanitario o politico a un popolo sotto attacco rischia di essere decodificato non come atto di solidarietà, ma come indizio di complicità con il “terrorismo”. Un clima che non nasce nelle aule dei tribunali, ma nei dogmi geopolitici dell’impero, dove la paura non è un effetto collaterale: è un metodo di governo delle coscienze.

La guerra nella Striscia di Gaza ha amplificato un dibattito globale senza precedenti sul peso delle parole e sulle responsabilità del potere. Organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International parlano apertamente di atti riconducibili alla definizione giuridica di genocidio: accuse respinte con fermezza dalle autorità israeliane, ma che segnano un punto di frattura nel racconto pubblico occidentale, un tempo quasi monolitico. In Italia, questa tensione si è abbattuta anche sull’accademia.

Il professor Luciano Vasapollo, economista marxista e fino a novembre decano di Economia alla Sapienza di Roma, ha subito una campagna di delegittimazione mediatica violentissima per aver denunciato in un’assemblea studentesca il «genocidio a Gaza» e definito Israele uno «Stato terrorista». Non era un intervento didattico, ma un atto politico, pronunciato in un’assemblea pubblica: eppure tanto è bastato per scatenare attacchi frontali, richieste di licenziamento da parte di esponenti del governo – tra cui Matteo Salvini – e servizi televisivi che, denunciano il docente e i suoi legali, hanno travisato i fatti fino alla calunnia.

Ne sono nate querele per diffamazione. Ma ne è nata anche un’ondata di solidarietà trasversale da parte di docenti, sindacati di base, movimenti sociali e studenti: un argine, fragile ma reale, a un riflesso repressivo che si pensava  confinato ai libri di storia.

Oggi, l’arresto di Mohammad Hannoun – attivista palestinese molto noto per il suo impegno umanitario – ha riaperto il vaso di Pandora della criminalizzazione del dissenso internazionalista e della critica al sionismo. Ne abbiamo parlato con il professor Vasapollo, che non si sottrae alle parole forti, ma le inserisce in un quadro teorico e storico più ampio, che va ben oltre il singolo caso giudiziario.

Professore, cosa sta accadendo oggi in Italia sul piano della repressione del dissenso?

Stiamo assistendo a un salto di paradigma. Negli anni Settanta si criminalizzava l’idea di rivoluzione; oggi si criminalizza l’idea di autonomia critica. Non si tratta più soltanto di colpire un’ideologia politica: si vuole spegnere la possibilità stessa di una voce alternativa, non allineata. È un’operazione culturale prima ancora che penale.

Il potere non vuole convincerti: vuole farti sentire isolato. E per farlo usa etichette assolute, come “Stato canaglia”, “regime terrorista”, “studente estremista”, “movimento violento”. Il messaggio è intimidatorio: non donare, non sostenere, non schierarti, perché un gesto di umanità potrebbe essere trasformato in indizio penale.

È la pedagogia della paura: un dispositivo che frantuma la comunità, isola l’individuo e lo riduce a ingranaggio economico, merce tra le merci. La repressione non agisce più solo sulle piazze: agisce sui legami, sulle parole, sui sentimenti collettivi. È un maccartismo liquido, compatibile con la società dei consumi, dove il nemico non va confutato: va reso impensabile.

I media hanno preso di mira movimenti, sindacati e realtà sociali. Qual è il disegno?

È il disegno della deterrenza sociale. Guardate come vengono descritti sindacati come USB, collettivi come OSA, reti come la Rete dei Comunisti, spazi sociali come il Leoncavallo: non vengono criticati per ciò che fanno, ma per ciò che rappresentano. Sfide al pensiero unico, al dogma dell’Occidente come “unico orizzonte possibile”. Se una petroliera porta energia a Cina o Cuba scatta l’accusa di “pirateria” o “sostegno al nemico”.

Non importa il diritto internazionale: importa solo chi ha la forza di farsi rispettare. Uno Stato che si autoproclama polizia del mondo non garantisce la pace: la sostituisce con l’interesse economico dell’impero. E quando questo modello entra in crisi, chi prova a dire una parola diversa diventa una minaccia interna da neutralizzare. I media preparano il terreno: poi la magistratura, in un clima già avvelenato, trova sponda culturale per l’intervento repressivo. È un circuito perfetto, come nel Novecento, ma con i “like”, la pubblicità e l’indignazione algoritmica al posto delle adunate di massa.

Professore, Faro di Roma parla di una corrispondenza tra il teorema Calogero degli anni ’70 e le logiche repressive odierne. Che cosa le unisce?

Le unisce il metodo della colpa preventiva. Negli anni ’70 si diceva che “il dissenso prepara le armi”, oggi si sostiene che “i solidali finanziano il terrorismo”. In entrambi i casi non si colpiscono prove, ma possibilità, frequentazioni, parole. È una costruzione di nemici simbolici che serve a isolare chiunque sfidi il paradigma dominante.

All’epoca io stesso fui colpito in modo durissimo. Venni tradotto nelle carceri speciali, con mandati di cattura a catena basati sulla parola dei pentiti, spesso indiretta, fondata sul “sentito dire”. Mi fu applicato l’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario, un regime molto peggiore del 41-bis: isolamento estremo, trasferimento a oltre 700 km da Roma, a 600–700 km dalla mia città, colloqui a vetro, censura, stigmatizzazione sociale. E non colpiva solo me, ma i miei legami familiari: i miei familiari subirono trattamenti umilianti, controlli, viaggi estenuanti, ostacoli burocratici, un impatto punitivo sugli affetti, non solo sull’imputato.

Oggi, a distanza di cinquant’anni, in che forma questa logica si ripresenta?

Si ripresenta come un teorema del potere costituito. La solidarietà internazionale diventa indizio, l’aiuto umanitario sospetto, la critica politica “odio”, l’incompatibilità al pensiero unico un pericolo sociale. È lo stesso schema: costruzione del nemico, criminalizzazione preventiva, intimidazione delle coscienze.

La criminalizzazione della solidarietà a chi serve davvero?

Serve a isolare, intimidire, neutralizzare. A impedire che una sola scintilla accenda la prateria, come diceva Mao. E invece la scintilla può ancora incendiare le coscienze. Ribellarsi è giusto! Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria. Il capitalismo teme l’individuo pensante, non quello che consuma. Il consumismo è il catechismo laico del capitalismo.

Dopo gli orrori del Novecento, il controllo totale non è scomparso: si è esternalizzato nel mercato. Non servono più soltanto leggi speciali: basta programmare i desideri, modellare i bisogni, saturare l’orizzonte dell’immaginazione. Un popolo che consuma senza pensare non si ribella, non solidarizza, non immagina alternative. E chi prova a farlo – un movimento studentesco, un centro sociale, un sindacato di base, un internazionalista – viene raccontato come minaccia all’ordine, alla “sicurezza”, alla “governabilità”.

La libertà di espressione è tollerata solo se non produce conseguenze reali. Ma la critica a un potere che fa la guerra, occupa territori o pratica pulizie etniche non è mai neutra: genera scelte, legami, azione collettiva. Ed è questo che il mercato e la politica di sistema temono davvero: non la piazza in sé, ma l’individuo pensante che ritrova la comunità e smette di riconoscersi come merce.

Lei parla di “incompatibili” che oggi sono a rischio. Chi sono nell’Italia in cui viviamo gli incompatibili?

Sono tutti coloro che non rientrano nel recinto della compatibilità sistemica. Il perimetro del “legittimo” arriva al massimo al PD, ad AVS, al Movimento 5 Stelle e a Rifondazione Comunista quando si piegano alla governabilità. Tutto ciò che eccede – i sindacati conflittuali, i centri sociali, le reti internazionaliste, i movimenti studenteschi radicali, chi denuncia l’imperialismo come sistema di guerra permanente – viene spinto fuori dal campo del legittimo. E ciò che è fuori dal legittimo diventa minaccia. Allora eri “eversore”, oggi diventi potenziale terrorista. La vera colpa non è un atto, è l’incompatibilità all’obbedienza preventiva.

Professore, lei cita spesso il grido dei nativi americani “Hoka Hey”. Che valore ha oggi?

“Hoka Hey” non è un inno alla morte, come spesso viene travisato, ma al coraggio radicale. Per i nativi significava “È un buon giorno per combattere”, l’affermazione suprema della dignità in battaglia, il rifiuto dell’assoggettamento. I Klingon lo ripresero come metafora cinematografica della gloria nella lotta; Mao lo tradusse nel linguaggio della rivoluzione popolare: «una scintilla può incendiare la prateria».

Oggi quella scintilla non è soltanto l’insurrezione fisica: è la rottura del dispositivo della paura. È il rifiuto dell’etichetta come destino, della merce come identità, dell’omologazione come unica via. È il gesto minuscolo ma irriducibile di chi dice: io non mi lascio dissuadere dall’umano. Anche se fosse l’ultimo giorno, sarebbe un buon giorno per lottare: non per morire, ma per svegliarsi. Perché lottare non significa scegliere la fine, ma scegliere l’inizio: la possibilità di essere comunità, popolo, storia, e non solo mercato.

In questa battaglia, qual è l’orizzonte politico?

Il socialismo come liberazione dell’umano, non come marchio geopolitico. Un’idea di decolonizzazione delle relazioni, delle coscienze e dei diritti, che include tutte le esperienze che sfidano l’impero della merce: Cuba, Nicaragua, Venezuela, Vietnam, Laos, e soprattutto la Palestina autodeterminata. Hamas, al di là della sua cornice religiosa, nasce come movimento di resistenza, eletto nel 2006 in un voto libero che l’Occidente ha poi preferito rimuovere.

Oggi la solidarietà internazionale viene trasformata in ipotesi criminale per dissuadere la gente dal mettere anche solo un euro per chi muore sotto le bombe. Ma il punto di non ritorno non è l’arresto: è il tentativo di spezzare la solidarietà come categoria politica e umana. Se la repressione vuole rendere impensabile la scintilla, il nostro compito è opposto: riaccendere le coscienze. Perché senza coscienza non c’è liberazione, e senza liberazione non c’è solidarietà. E la solidarietà di classe non è terrorismo: è autodifesa dell’umano contro l’impero della merce.

Insomma, professore: il vero terrorismo del nostro tempo?

Non è un movimento, ma un metodo di potere. È il terrorismo di Stato che si fa norma geopolitica, l’imperialismo armato che pretende obbedienza preventiva, il capitalismo che ammette la critica solo se non produce alternative. A me non interessa il catechismo religioso dell’imperialismo: interessa la libertà concreta, quella che si misura nella possibilità di pensare, scegliere, donare, solidarizzare, lottare. Anche con un euro, anche con una parola. Soprattutto con una parola.

Qual è allora l’orizzonte di questa “battaglia delle coscienze”?

Socialismo, qui e ora. Non come brand geopolitico, ma come orizzonte di liberazione e decolonizzazione. Un sogno di battaglia che include Cuba, Nicaragua, Venezuela, Cina, Vietnam, Corea, Laos, e soprattutto l’autodeterminazione della Palestina e di tutti i popoli che lottano contro l’imperialismo. Lottare per vivere – qui e ora – significa vivere senza se e senza ma: Socialismo.

Lo slogan di Mao esalta il potere di mobilitazione delle masse e l’importanza delle insurrezioni popolari. Sottolinea come un piccolo atto di ribellione possa innescare un vasto movimento rivoluzionario, come evidenziato in documenti e pubblicazioni dedicate al pensiero rivoluzionario e marxista. Mao si riferiva alle insurrezioni contadine nel Kiangsi, vedendo in esse una grande potenzialità rivoluzionaria contrapposta all’influenza imperialista di Hong Kong. La frase vuole comunicare che anche un piccolo gruppo di combattenti o un singolo atto rivoluzionario (“la scintilla”) può accendere la “prateria” (il popolo), portando a una rivoluzione su larga scala.

Un messaggio che invita a non sottovalutare i movimenti di base, ma a considerarli come il seme di una rivoluzione più ampia, un concetto centrale nel pensiero politico di Mao. Celebra il potenziale rivoluzionario del popolo e l’efficacia dell’azione diretta per innescare il cambiamento.

“Ribellarsi è giusto!” è anche un pamphlet di Jean-Paul Sartre, in cui l’intellettuale francese riflette provocatoriamente sulle ingiustizie e il perbenismo della società occidentale. Scritto negli anni Settanta, in un periodo di militanza politico-intellettuale, Sartre si avvicina ai gruppi di estrema sinistra, assume la responsabilità giuridica del periodico La Cause du Peuple e contribuisce alla fondazione del quotidiano Libération. Le sue pagine restano attuali di fronte alla crisi sistemica del Capitale.

Rita Martufi e Salvatore Izzo

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Nel caso dell’arresto di Mohamed Hannoun e degli altri fratelli, la tesi investigativa appare francamente grottesca. Si sostiene che il terrorismo si finanzierebbe tramite bonifici bancari ordinari, completamente tracciati, intestati a una persona pubblica, costantemente esposta, attiva da anni alla luce del sole e sottoposta a controlli continui. È una ricostruzione che fa sorridere per quanto è poco credibile.

Le presunte “indagini in Palestina” non risultano tali: non emergono accertamenti autonomi, ma solo informazioni fornite da fonti israeliane, non verificabili e già più volte rivelatesi false o strumentali. Su questa base si costruisce un impianto accusatorio che arriva a criminalizzare persino il sostegno umanitario, come dare da mangiare agli orfani o aiutare famiglie colpite dalla guerra.

Il paradosso è evidente: mentre si partecipa politicamente e diplomaticamente a un genocidio, si criminalizza chi svolge lavoro umanitario. Chi soccorre viene trattato come un criminale, mentre chi sostiene l’oppressione viene normalizzato. Un rovesciamento morale e giuridico inquietante.

Ancora più grave è il ruolo di una magistratura che, in questa vicenda, sembra oltrepassare il proprio perimetro, erigendosi a giudice della politica internazionale e improvvisandosi esperta di Medio Oriente, conflitto israelo-palestinese e diritto internazionale, sulla base di narrative politiche esterne.

Il tutto si inserisce in un quadro di evidente sudditanza dell’Italia verso Israele, che compromette l’autonomia delle istituzioni e la credibilità dello Stato di diritto. Questa vicenda non riguarda solo Hannoun: riguarda lo spazio democratico, la libertà di azione umanitaria e il diritto di dissentire.

La resa dei conti non sarà giudiziaria, ma storica, politica e morale.

Davide Piccardo

Caso Hannoun, la lunga mano di Israele sull’ordinanza del Tribunale di Genova

Di Lorenzo Poli, da Pressenza

Il Caso Hannoun e le accuse a suo carico, e d altri attivisti, stanno mettendo in scena uno spettacolo dell’assurdo. Persone che fino all’altro giorno sono state punto di riferimento democratico in Italia delle associazioni palestinesi, legalmente riconosciute, di punto in bianco sono state definite dalla magistratura e dai media come “terroriste”, con tanto di teorema giudiziario sui presunti finanziamenti ad Hamas (senza prove). Il tutto espresso con una certezza disarmante, ma senza prove.

Ma di questo non dobbiamo troppo preoccuparci: Nelson Mandela fu sempre considerato un pericoloso comunista dagli USA – che sostennero per decenni il regime dell’apartheid bianca in Sudafrica insieme ad altri Paesi occidentali – e fu arrestato nel 1960 grazie a una soffiata della CIA e soltanto il 1 luglio 2008 il presidente degli Stati Uniti George Bush firmò il provvedimento che lo cancellava dalla lista nera dei “terroristi”. Avete letto bene: fino al 2008 – 18 anni dopo la liberazione dal carcere, anni dopo la fine della sua presidenza sudafricana – fino all’età di 90 anni, gli Stati Uniti d’America hanno mantenuto il Premio Nobel per la Pace Mandela nell’elenco dei “terroristi”.

Questo episodio è emblematico di come le definizioni politiche di “terrorismo” possano essere soggettive e influenzate dagli interessi geopolitici del momento, trasformando un liberatore in un “terrorista” secondo la prospettiva di alcune nazioni.

Ritornando a noi, è estremamente interessante notare che proprio l’Antimafia e l’Antiterrorismo, dal 2023, abbiano attivato un’indagine (l’Operazione “Dominio”) tale da fare così rumore. In meno di due anni, Antimafia e Antiterrorismo sarebbero riusciti a risalire a tutti i collegamenti tentacolari dei “finanziatori di Hamas”, quando le stesse hanno arrestato Matteo Messina Denaro, ultimo boss stragista di Cosa Nostra, dopo 30 anni di latitanza. Ma dove era Matteo Messina Denaro? Era latitante a casa sua, a Tre Fontane, frazione di Campobello di Mazara: si trovava semplicemente nella zona balneare vicino a Castelvetrano, sua città natale, ad 8 minuti di distanza da una caserma di carabinieri. Farebbe ridere se non facesse piangere, o urlare dalla disperazione in un Paese, come il nostro, le cui istituzioni sono attraversate dalla Trattativa Stato-Mafia.

E proprio come sono attraversate dalla Trattativa Stato-Mafia in questi casi di cronaca, sono attraversate da altre collaborazioni quando si parla di repressione della militanza filopalestinese: Israele.

L’operazione “Domino”, avviata dopo il 7 ottobre 2023 su segnalazione della Direzione Nazionale Antimafia, si fonda su intercettazioni, analisi finanziarie e su una vasta cooperazione giudiziaria internazionale, in particolare con Israele. Un Paese che però ha un interesse militare e politico chiaro, è oggetto di un procedimento per genocidio alla Corte Internazionale di Giustizia e sui cui capi politici pende l’accusa di crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale.

Negli ultimi anni, Israele ha bollato come “terroristiche” numerose organizzazioni umanitarie, “colpevoli” soltanto di criticare e di opporsi attivamente al genocidio perpetrato ai danni della popolazione palestinese. Basti pensare all’UNRWA, definita «un focolaio di terrorismo», e alla Global Sumud Flotilla, più volte etichettata come “Hamas Sumud Flotilla”. Anche in quest’ultimo caso, le accuse israeliane hanno fatto riferimento a presunti finanziamenti di Hamas, basati su documenti che gli organizzatori e diverse fonti indipendenti hanno definito infondati o manipolati.

Ma cosa hanno trovato di illegale gli inquirenti? Nulla e ce lo dice anche l’ordinanza del GIP. E’ da 25 anni che l’ABSPP è  soggetta ad indagini consistite in intercettazioni telefoniche, ambientali, informatiche e sistemi di videosorveglianza (cimici installate nelle case e nelle automobili), analisi patrimoniali e finanziarie. Negli anni intercettazioni telematiche sugli apparati informatici hanno consentito, attraverso attività “sotto copertura”, l’estrazione di copia di dati accumulati dai vari computer utilizzati dall’associazione ABSPP (quasi 4 TB). Conclusione: nelle 306 pagine dell’ordinanza contro i 9 sospettati di aver costituito una cellula di Hamas in Italia, non c’è uno straccio di prova che anche un solo euro sia stato utilizzato per finanziare attività terroristiche.

I Tg ci hanno mostrato immagine di macchine conta-soldi e mazzette di contanti che i sospettati trasportavano in valigette verso Egitto e Turchia per farli arrivare a Gaza, però nelle carte dell’ordinanza si dice chiaramente che sono tutti soldi regolarmente contabilizzati provenienti dalle elemosine delle moschee e dichiarati alla frontiera. Le associazioni sotto accusa mantenevano registri contabili molto precisi, è possibili ricostruire dove finivano questi soldi: rispettivamente in adozioni a distanza di bambini orfani palestinesi, in impianti di desalinizzazione per ospedali di Gaza, in sostegno di famiglia di caduti in guerra.

Questo lo scrivono gli stessi inquirenti che, in 25 anni di indagini – con una serie di indagini aperte e poi archiviate – cercano di mandare in galera chi fa della beneficenza. Tutte indagini archiviate negli anni proprio perchè i PM hanno sempre affermato che la beneficenza non può essere un reato. Ma qualcosa ora è cambiato.

Mohammad Hannoun, 64 anni, presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia (API) e residente a Genova da oltre quarant’anni, è stato arrestato insieme ad altre otto persone con l’accusa di “associazione a delinquere con finalità di terrorismo internazionale”. Per la gip di Genova Silvia Carpanini, Hannoun sarebbe «membro del comparto estero dell’organizzazione terroristica Hamas» e al vertice di una rete di associazioni attive in Europa che, sotto la copertura di raccolte fondi umanitarie, avrebbero finanziato la lotta armata palestinese. E le prove di tutto questo dove sono? La prova sta in quello che Israele ha riferito all’autorità giudiziaria italiana in un lungo dossier, ovvero che le associazioni destinatarie dei fondi sarebbero collegate a Hamas.

A pagina 10 dell’ordinanza si afferma che i “suddetti documenti”, che sarebbero le prove per le indagini – a carico di Hannoun e della sua associazione – sono per la maggior parte stati acquisiti dichiaratamente dall’esercito israeliano (IDF) nel corso di operazioni militari “Defensive Shields” (3), realizzata all’inizio degli anni 2000 e “Sword of Iron” (Operazione Spade di Ferro), giustificata falsamente come risposta dopo i fatti del 7 ottobre 2023. Oltretutto – sempre secondo l’ordinanza – Israele non ha fornito la documentazione originale, ma solo delle sintesi: motivo per cui l’ordinanza parla di misure cautelari e non di arresto vero e proprio, proprio perchè le documentazioni rappresentano meno della metà del concetto di “parziale”.

Ma basta la parola viziata da Israele per rendere incontrovertibili le fondamenta su cui si basa un teorema giudiziario? In termini platonici, si parlerebbe di sofismi e falsi sillogismi, ovvero discorsi che non stanno in piedi e che hanno la finalità di spacciare per base razionale ciò che razionale non è.

Inoltre bisogna sottolineare che i documenti forniti da Israele sono atti extraprocessuali, acquisiti da un’Autorità estera (Israele) nel corso di operazioni militari e poi trasmessi all’Autorità giudiziaria italiana. Sempre secondo l’ordinanza, l’acquisizione del materiale per queste indagine non risulterebbe lecita. Come evidenziato dal PM Carpanini non esistono norme nel nostro ordinamento che espressamente regolano l’acquisizione nel procedimento penale di tale tipo di documentazione; va quindi fatto riferimento ai principi generali che regolano le prove, ed in particolare l’art. 234 c.p.p., per cui possono essere acquisiti nel procedimento italiano, “sempre che non sussistano ipotesi di inutilizzabilità per essere stati acquisiti in violazione di divieti di legge a tutela di principi fondamentali del nostro ordinamento” – si legge.

Nonostante ciò, l’ordinanza cita la raccomandazione CM/Rec(2022) 8 del marzo 2022 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e il Memorandum 2020 del Eurojust (Agenzia UE per la cooperazione giudiziaria) i quali, facendo riferimento al “battlefield evidence” (4) giustificherebbero l’uso dei materiali trasmessi dall’esercito israeliano. Si legge nell’ordinanza: “analizzando il contenuto del server di ABSPP, gli operanti hanno rinvenuto documenti da cui si ha conferma dell’autenticità di alcuni di quelli autonomamente trasmessi dall’Autorità israeliana, il che consente di attribuire generale attendibilità al complesso del materiale inviato”.

In sostanza, dal contenuto dei server dell’associazioni di Hannoun si è potuto confermare che “alcuni” documenti dell’Autorità israeliana sono autentici, quindi tutti i documenti israeliani sono “generalmente” attendibili e quindi si possono usare per le indagini, violando anche la legge italiana.

In queste pagine vi è tutto il fideismo della magistratura italiana nei documenti racimolati dall’autorità israeliana, senza minimamente porre dubbi a riguardo e senza minimamente tenere in conto l’uso strumentale che Israele fa del termine “terrorismo” (uso fatto in decine e decine di casi).

Sul piano giuridico, emergono dunque diversi punti controversi: l’inchiesta si sta basando su documenti raccolti dall’intelligence che non sono prove. Per essere definito tale un “terrorista” serve dimostrare che svolga attività di carattere terroristico concrete, mentre qui abbiamo una serie di destinatari di somme di denaro con delle causali che sulla carta fanno ritenere si tratti di beneficenza. Ad oggi non ci sono prove che siano state utilizzate per un’attività terroristica, laddove il terrorismo ha delle caratteristiche ben precise, cioè quello di “aggredire la popolazione per creare terrore”.

E in questo contesto che si inserisce il rinnovato interesse investigativo nei confronti di Mohammad Mahmoud Ahmad considerato – secondo l’ordinanza -, “a livello europeo, uno dei soggetti più rappresentativi per la raccolta dei fondi pro-Palestina e già sospettato in passato di destinare le somme raccolte al finanziamento del terrorismo”.

Hannoun ha sempre respinto le accuse, sostenendo: «Ho sempre destinato i soldi raccolti in Italia a chi ne ha bisogno, a orfani e famiglie non a militari». Nelle oltre 300 pagine di ordinanza, non viene indicata la destinazione finale dei fondi: si parla di sostegno alle “istituzioni” di Gaza e al dipartimento dei «martiri, feriti e prigionieri».

Anzi, è la stessa ordinanza che a pagina 9, afferma chiaramente che Hannoun era già stato indagato in passato “nel P.P. 20179/01/21 RGNR concluso con una richiesta di archiviazione non essendo pervenuti dalle Autorità israeliane, entro il termine delle indagini preliminari, gli atti di assistenza giudiziaria richiesti”. In seguito è stato autorizzata la riapertura delle indagini da parte delle Autorità Israeliane degli atti richiesti, così determinando l’iscrizione del procedimento 15003/03/21, concluso peraltro anch’esso con richiesta di archiviazione accolta dal Gip per mancanza di prove. In data 26/10/2023 veniva richiesta una ulteriore “autorizzazione alla riapertura delle indagini del procedimento n. 15003.2003 R.G.N.R. autorizzata in data 30/10/2023 e cui ha fatto seguito l’iscrizione del procedimento recante il numero di R.G. 13154/2023 RG.N.R”.

Questo vuol dire che già in passato analoghi procedimenti erano stati aperti contro Hannoun, che sono stati poi archiviati. La riapertura delle indagini è un segnale di persecuzione politica per il suo attivismo per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese (1) e per essere punto di riferimento della comunità palestinese in Italia. Intanto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso «apprezzamento e soddisfazione» per gli arresti.

Inoltre Hannoun ha dichiarato più volte la sua distanza da Hamas. Nell’agosto 2025, a margine della carovana per la Palestina organizzata a Milano, Hannoun era stato inserito nella blacklist del Dipartimento del Tesoro statunitense con l’accusa di essere un finanziatore del terrorismo e di promuovere manifestazioni contro Israele. Le sue dichiarazioni furono chiarissime, nonostante vengano strumentalizzate dai media:

“Io non appartengo a Hamas, questo lo dico ufficialmente, non faccio parte di Hamas però faccio parte del popolo palestinese, rispetto ogni fazione palestinese che rispetta i diritti del popolo palestinese, che lotta per strappare questi diritti per l’autodeterminazione. (…) Io sono simpatizzante di Hamas come sono simpatizzante di ogni fazione che lotta per i miei diritti. Per cui questa frottola, questa accusa di far parte di Hamas, di essere un leader di Hamas è una bugia, una bufala. Io non faccio parte di Hamas, io non sono leader di Hamas, io sono un palestinese, io mi impegno, mi sono impegnato da decenni nella lotta per i diritti del popolo palestinese”.

L’assunto acritico per cui il legame con Hamas viene dato per presupposto, sulla base di report militari israeliani, rischia di ribaltare l’onere della prova. Ciò che è assurdo è che quello che si dovrebbe dimostrare, viene dato per presupposto incontrovertibile. Molti hanno affermato in questi gironi “di avere fiducia nella giustizia”, ma l’indagine stessa e i suoi documenti sono un esempio di come la neutralità della magistratura o è un concetto valido non applicato, o è un concetto ipocrita.

Altro punto interessante nell’ordinanza è la volontà categorica, da parte della GIP Carpanini, di dimostrare che Hamas (2) non è un movimento di liberazione nazionale della Palestina, ma un “movimento jihadista”, una minaccia globale che vuole ribaltare ogni Stato che non si fonda su presupposti fondamentalisti, che lo sosterrebbero con metodi violenti per sostituirlo con uno Stato di stampo “islamista”.

Basta leggere le 306 pagine dell’Ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere per Mohammad Hannoun e altri attivisti palestinesi redatta dalla GIP del Tribunale di Genova, Silvia Carpanini, per capire che non si tratta di un semplice documento di misura cautelare, ma un tentativo palesemente ideologico di riscrivere la storia con innumerevoli strafalcioni e imprecisioni, facendo della sociologia spiccia nelle prime 50 pagine. L’ordinanza è un lungo e radicale elogio del suprematismo occidentale – nonchè una difesa implicita del sionismo – che parte dal presupposto che la parola dell’Occidente e la sua visione siano sempre superiori rispetto ai “barbari” che vivono fuori.

Carpanini scrive a pagina 9: “HAMAS ha nel suo stesso statuto la ratifica della distruzione di Israele e presenta il jihad contro il sionismo come rispondente alle parole che, secondo alcuni studiosi dell’lslam, sarebbero state proferite dallo stesso Maometto “l’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno…”. Alla luce di tali principi e a fronte delle azioni realizzate nel tempo e culminate nell’ultimo drammatico attacco del 7 ottobre poteva quindi ipotizzarsi HAMAS come organizzazione terroristica”.

Partendo dal fatto che forse i magistrati in questione non hanno ben presente cosa sia successo il 7 ottobre 2023 con la Direttiva Hannibal, nell’ordinanza si “ipotizza” che Hamas sia un’organizzazione terroristica a partire da quello che avrebbe detto Maometto. Se per dichiarare “terrorista” Hamas basta attingere vagamente dai testi di riferimento dell’Islam, si potrebbe in egual modo dichiarare il sionismo come “movimento terrorista” a partire dalla sua storia (il ruolo dell’Irgun, del Laganah e della Banda Stern nella pulizia etnica della Palestina fino alla Nakba del 1948) e dalle dichiarazioni dei suoi esponenti più accaniti. Senza dover fare l’elenco delle bestialità espresse dai sionisti negli ultimi 80 anni, a partire da Menachem Begin fino ad Itamar BenGvir e Bezael Smotrich, basterebbe citare Netanyahu e la giustificazione biblica dell’attuale genocidio a Gaza attraverso il libro del Deuteronomio (25,17): «Ricorda ciò che ti hanno fatto gli Amaleciti» – aggiungendo – «Ricordiamo e combattiamo. (…) I meravigliosi soldati ed eroi dello straordinario esercito israeliano […] bramano di ricompensare gli assassini per gli atti orribili che hanno perpetrato sui nostri figli, sulle nostre donne, sui nostri genitori e sui nostri amici […] [i nostri soldati] sono impegnati a sradicare questo male dal mondo, per la nostra esistenza, e aggiungo, per il bene di Tutta l’umanità».

Inoltre non è vero che Hamas vuole la distruzione di Israele, ma anzi dal 2007 riconosce la soluzione binazionale per Palestina e Israele (soluzione per altro impraticabile per un lungo elenco di motivi che non starò qui ad elencare). Occorre ricordare che Hamas viene classificata come “organizzazione terroristica” da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e altri Stati, mentre altri Paesi la considerano una legittima organizzazione di resistenza, quale per altro è. Hamas è stata dichiarata “organizzazione terroristica” inizialmente solo da Israele e dagli USA, tant’è vero che l’UE ne ratifica la vittoria nelle elezioni del 2006: anno in cui Hamas si presenta come legittimo partito politico. In seguito, su pressione USA, si è adeguata anche l’UE insieme al Regno Unito. In totale si tratta di 32 Paesi che considerano Hamas un’organizzazione terrorista, mentre il resto del mondo (162 paesi), con una mozione approvata all’ONU, dichiara Hamas un “legittimo partito del popolo palestinese”.

Anche il Presidente brasiliano Lula ha dichiarato: “Hamas terrorista? No, per noi e per l’ONU non è affatto terrorista. È un legittimo partito politico palestinese.” Russia, Cina, India, Giappone, America Centrale e del Sud, e la vasta maggioranza del mondo non la pensa come Europa e Stati Uniti. Questo dimostra che a prevalere è una visione eurocentrica dei fatti, che si discosta da tutto il resto del mondo. Vogliamo forse credere che tutto il resto del mondo, escluso il “paradisiaco” Occidente, sostiene il terrorismo? Che piaccia o no al mondo occidentale, Hamas come movimento politico ha avuto – alle ultime elezioni – più del 70% dei voti del popolo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e come tale deve essere un interlocutore.

Dal 2017, nei suoi Statuti, Hamas rifiuta ufficialmente ogni tipo di violenza fuori dai Territori Occupati Palestinesi e ammette la resistenza all’entità occupante sionista all’interno della Palestina. Non vi è alcuna ambizione espansionistica di Hamas fuori dalla Palestina, a differenza di quello sostenuto dall’ordinanza del GIP Carpanini.

L’ordinanza del tribunale in una nota afferma che “From the River to the Sea” sarebbe “lo slogan di HAMAS che, spesso inconsapevolmente rispetto alle origini dello stesso, viene utilizzato nelle manifestazioni di supporto al popolo palestinese tenute anche in Italia e nel resto d’Europa”.

Forse i consulenti storici che hanno redatto l’ordinanza non sanno che lo slogan “From the River to the Sea” è usato dai movimenti in solidarietà con il popolo palestinese e dal popolo palestinese fin dagli anni Sessanta, ovvero più di vent’anni prima della nascita di Hamas. Che poi sia sopravvissuto nei decenni e compaia nel 2017 nel manifesto programmatico di Hamas vuol dire solo una cosa: che riflette il desiderio di tutto il popolo palestinese di tornare nelle terre abitate prima del 1947 e che si estendevano dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Interessante sarebbe ricordare, ai presunti consulenti storici (se mai ci sono stati), che c’è un movimento politico che ha sempre pensato di espandersi in tutto il Medioriente buttando fuori da quelle terre le popolazioni arabe. Quel movimento si chiama sionismo, ovvero il fondamento politico dell’entità sionista, ovvero Israele.

Non è un caso che in questi decenni Israele abbia avverato quello che è il sogno biblico della “Grande Israele” (5), espressione usata in ambito sionista per riferirsi ai confini auspicati di Israele: dal fiume Nilo all’Eufrate, costituito da tutto l’attuale Israele, i territori palestinesi, il Libano, gran parte della Siria, la Giordania e parte dell’Egitto.

Considerando la sequenza degli eventi anche fuori dai confini della Palestina – l’occupazione israeliana della Cisgiordania, le alture del Golan siriano, l’ accerchiamento di Gaza e il suo assedio, le ripetute invasione e attacchi militari del Libano, il bombardamento dell’Iraqgli attacchi aerei in Siria e i tentativi di contenere le capacità nucleari dell’Iran – sembrerebbe che la “Grande Israele” sia stia sempre più realizzando e che il sionismo, insieme all’Entità sionista, siano una “minaccia globale” per la stabilità del Medioriente.

Con il senno di poi, alla luce della crescente balcanizzazione del suo vicinato, possiamo affermare che Israele e i suoi governi stanno attuando con enormi successi ciò che furono gli obiettivi del Piano Yinon (ideato e scritto da Odeon Yinon nel 1982), che prevedeva una “grande Israele” creato un giorno dalla distruzione delle nazioni arabe oggi percepite come minacce per Israele. Il piano prevedeva di rovesciare i governi arabi esistenti, lasciandosi alle spalle sette caotiche e contrapposte di enclave musulmane facilmente conquistabili, che avrebbero, di fatto, giustificato una “grande Israele” dominante dal Mar Mediterraneo attraverso i fiumi Tigri ed Eufrate. Il Piano Yinon era pensato come una campagna sistematica per minare, dividere e distruggere con ogni mezzo necessario le diverse nazioni arabe per consentire a Israele di progredire senza ostacoli con il sostegno esterno delle correnti sioniste nei movimenti neoconservatori americani e fondamentalisti cristiani.

Nel 2017, Ted Becker, ex professore di diritto Walter Meyer alla New York University e Brian Polkinghorn, illustre professore di analisi dei conflitti e risoluzione delle controversie alla Salisbury University , hanno argomentato come il Piano Yinon fu adottato e perfezionato in un documento politico del 1996 intitolato A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm (Rapporto Clean Break), scritto da un gruppo di ricerca guidato da Richard Perle e Paul Wolfowitz presso l’Institute for Advanced Strategic and Political Studies, affiliato a Israele, a Washington. Sionisti neoconservatori statunitensi come Richard Perle e Paul Wolfowitz si aggrapparono a questo piano di Oded Yinon, lo infilarono silenziosamente nei think tank di destra ben finanziati di Washington (ad esempio, l’American Enterprise Institute). Alcuni anni dopo, Richard Perle divenne una delle figure chiave nella formulazione della strategia di guerra in Iraq adottata durante l’amministrazione di George W. Bush nel 2003. Il Rapporto Clean Break divenne famoso per aver sostenuto una nuova politica aggressiva, tra cui la rimozione di Saddam Hussein dal potere in Iraq e il contenimento della Siria attraverso l’impegno in una guerra per procura e sottolineando il suo possesso di “armi di distruzione di massa” (mai esistite realmente).

Sembrerebbe che il Likud, partito d’estrema destra di Netanyahu, stia attuando entrambi i piani.

Nell’agosto 2025, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato di essere impegnato in una “missione storica e spirituale” e che sente un legame con la visione della “Grande Israele”. Nello stesso mese ha espresso, nel contesto del genocidio a Gaza, l’intenzione di occupare Gaza per smantellare Hamas e l’anno precedente il ministro della difesa israeliano Israel Katz aveva affermato che Israele continuerà a mantenere il controllo militare della Striscia di Gaza anche dopo la guerra. Sempre nell’agosto 2025, il governo israeliano ha approvato la costruzione di 3.000 nuovi insediamenti illegali in Cisgiordania, dichiarando che l’obiettivo è quello di compromettere definitivamente la possibilità di nascita di uno Stato palestinese.

Ma nonostante ciò, un Paese come l’Italia preferisce perseguire legalmente, senza prove, attivisti palestinesi e filopalestinesi e le loro associazioni, con l’aiuto del loro carnefice.

(1) Con la Risoluzione n. 3236/1974, l’Assemblea generale dell’Onu ha riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese https://www.un.org/unispal/wp-content/uploads/2016/05/ARES3236XXIX.pdf

(2) “Harakat al-Mugawama al-Islamiyya” (tr. “Movimento Islamico di Resistenza”), meglio noto con acronimo HAMAS.

(3) L’operazione Scudo Difensivo è stata una grande operazione militare condotta dalle forze di difesa israeliane nel 2002, nel corso della Seconda Intifada. È stata la più grande operazione militare nella Cisgiordania, dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967.

(4) battlefield evidence (BE) è la possibilità per gli Stati di usare nei processi penali nazionali le informazioni raccolte in zone di conflitto – in modo conforme allo Stato di diritto e ai diritti umani – con la peculiarità che, in tali contesti, le potenziali prove vengano raccolte da militari, servizi segreti o altri soggetti che comunque “non agiscono in qualità di forze dell’ordine” né con lo specifico fine di raccogliere prove per tribunali, il che peraltro non toglie che tali prove siano comunque estremamente utili e gli Stati devono quindi attivarsi perché possano essere acquisite nei procedimenti, purché raccolte nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Ma chi ha le prove i documenti forniti dall’IDF siano stati raccolti nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali? Come si può non dubitare della raccolta rispettosa dello Stato di Diritto da parte di un esercito che viola sistematicamente i diritti umani e commette crimini di guerra?

(5) “Grande Israele” è occasionalmente riferito alla Terra Promessa (definita nel libro della Genesi 15:18-21) od alla Terra di Israele ed è anche chiamato “Completa Terra d’Israele” o “Tutta la Terra d’Israele” (in ebraico: ארץ ישראל השלמהEretz Yisrael Hashlemah).

Ulteriori informazioni:

Ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere per Mohammad Hannoun e altri 9 attivisti palestinesi – GIP Tribunale di Genova

https://badil.org/phocadownload/Badil_docs/publications/IT-Rifugiati-Palestinesi-e-il-diritto-al-Ritorno.pdf

Becker, Ted; Polkinghorn, Brian (2017). A New Pathway to World Peace: From American Empire to First Global Nation, Resouce Pubblications, Eugene, Oregon.

Un articolo di Angela Lano, tra i 25 indagati/e nell’operazione “Domino”

Siamo in una pericolosa spirale totalitaria: tra necropotere e morte dello stato di diritto

Di Angela Lano. Da alcuni anni siamo pienamente entrati in una pericolosa spirale totalitaria: operazioni di guerre biologiche; guerra USA-NATO contro la Russia per interposta Ucraina – ancora in corso e verso rapidi orizzonti di guerra mondiale, voluta dalle elite corrotte e guerrafondaie europee, sempre più lontane e scollegate dai popoli che governano e da cui sono profondamente disprezzate. E, dal 2023 in poi, siamo spettatori impotenti del genocidio gazawi e dell’espansione del colonialismo di insediamento israeliano in tutta la Palestina storica, in Libano e in Siria…

Mentre il Sud globale si stacca dall’Occidente egemonico e strutturalmente bellico e violento e non ne vuole più sapere di guerre, massacri, furti e pirateria di risorse, il Sistema-mondo (i colleghi incolti si leggano Grosfoguel e Quijano) imperniato sui disvalori di 500 anni di colonialismi brutali e genocidari (leggere David Stannard) volge gli artigli repressivi e totalitari verso tutte le forme di dissidenza, di difesa dei popoli oppressi e di informazione indipendente. E il passo verso la persecuzione politica è breve o immediato, come in tutte le dittature.

Sistema-Italia e vassallaggio.

Il Sistema-Italia, vassallo della più ampia struttura egemonica occidentale e sionista in declino (il sionismo niente altro è se non un’emanazione del colonialismo occidentale, e suo braccio armato nell’Asia occidentale e non solo), scatena l’inferno, aiutato da un giornalismo disinformativo e sempre più ridicolo e immorale, contro associazioni umanitarie e contro giornalisti engagé, in senso gramsciano, nella denuncia delle atrocità israeliane a Gaza e in Cisgiordania.

Per tappare la bocca all’informazione libera e alle pratiche di assistenza umanitaria a quasi due milioni di sfollati gazawi, ha tirato fuori la collaudata – da tutti i regimi totalitari passati e presenti – accusa di “terrorismo” e minaccia alla democrazia – in una palese proiezione freudiana – contro chi non si allinea o dissente. La libertà di stampa è dunque finita, in cambio della libertà di mentire, denigrare, distruggere antropologicamente e svilire l’altro, su ordini e veline straniere. Il tutto, mentre è ancora in corso il lento sterminio di un popolo, che questi stessi giornali fanno finta di non vedere, sempre per ordini esteri.

Stato di diritto e necropotere (leggasi Foucault e Mbembe).

Lo stato di diritto è morto. Non esiste più. Prendiamone atto. L’Italia è una povera colonia di Poteri e Entità Straniere. Lo era già prima e lo è ancora di più oggi. Rappresentanti, forze politiche e tutto il resto, vengono mossi, non muovono, o quando lo fanno è per eseguire ordini che sanciscono la morte sociale, economica e politica dei cittadini scomodi o “eretici”. Non ci sono più i roghi della Santa Inquisizione, ma c’è la morte decretata dai media asserviti al potere. E asserviti al Potere supremo: Israele.

Israele è, di fatto, il nostro governo, le nostre istituzioni, il nostro giornalismo e tutto il resto?

Uomini e donne perbene sono strasformati in terroristi per lo schioccare del dito del padrone? Ma siamo tornati al Feudalesimo? Esiste un limite alla Barbarie politico-mediatica?

Scrivere di Palestina, di genocidio a Gaza, raccontare di morti e feriti, di bambini fatti a pezzi, di donne e uomini stuprati nelle prigioni israeliane vale l’accusa di terrorismo, a quanto pare. Per renderla più credibile, viene nominato Hamas – il movimento di resistenza islamica palestinese che lotta, secondo quanto garatito dall’ONU, per la liberazione dal colonialismo israeliano in terra nativa palestinese -, e mi si trasforma, da giornalista e ricercatrice, nientepopodimeno nella portavoce o nell’addetta alla propaganda ufficiale. Tutto ciò, su informative di Israele, entità genocida e coloniale, che, come consueto, proietta e attribuisce agli altri gli strumenti e le azioni che lui utilizza: in questo caso la hasbara, ricca e potente propaganda.

InfoPal e la hasbara israeliana.

Chiariamo, dunque, alcune cose: 1) non sono, non siamo, la propaganda o il megafono di Hamas, ma del popolo palestinese oppresso e schiacchiato, e informiamo sugli effetti, ben visibili a tutti, ma occultati da Israele e dai media ad esso connessi, che il colonialismo di insediamento ha prodotto in oltre 100 anni nella Palestina storica, e negli ultimi tre nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania – stiamo parlando di qualcosa come 300-400 mila morti e dispersi da ottobre 2023, oltre a un numero spaventoso di feriti e mutilati, tra cui decine di migliaia di bambini e donne.

Stiamo svolgendo un ottimo e seguito lavoro di controinformazione, contrastando, per come possiamo, la milionaria hasbara israeliana e i suoi valvassini in Italia: per questa ragione, Israele ci ha inseriti nella sua mappa del “terrorismo” – di nuovo, una proiezione freudiana del crimine di cui si macchia e che è condannato dal mondo intero.

2) L’agenzia InfoPal è edita dall’omonima associazione, che provvede a sostenerla materialmente: non sono soldi di Hamas o da Hamas o per Hamas, ma dei musulmai italiani, che, come tradizione islamica, si tassano periodicamente per la zakat e altre forme di offerte. A me spetta il compito di gestire il lavoro di informazione, come qualsiasi altro giornalista di testate piccole o grandi, mainstream o indipendenti.

Inoltre, come giornalista, storica e antropologa del Nord Africa e del Medio Oriente, ho viaggiato, studiato, ricercato, incontrato, intervistato chi mi pareva più interessate e utile, raccogliendo materiale, fotografie, registrazioni, badge, cartoline, spillette, collane, bracciali, simboli, gadget vari, di popoli, organizzazioni e fazioni politiche, culture, religioni e tradizioni, o ricordi associati a interviste e incontri professionali. E’ un mio diritto, fa parte della mia libertà di ricerca e lavoro, e non deve essere oggetto di speculazioni o accuse, o di attacco della macchina del fango.

3) La “bandiera di Hamas”, annoverata tra le accuse a mio carico, e rinvenuta in vecchi e polverosi scatoloni accatastati in uno sgabuzzino, insieme a badge delle tante conferenze internazionali, cartoline e altro, provano solo che la considero un oggetto da raccolta di viaggi di lavoro. Chi ha perquisito a fondo la mia ampia e affollata casa, avrà visto oggetti – lampadari, maschere, collezioni da mezzo mondo – libri e infinità di cose. Oppure si pensa seriamente che se fossi associata a quell’organizzazione avrei tenuto quei “cimeli”? Ripeto, come giornalista-antropologa mi do il diritto di raccogliere tracce e passaggi del mio lavoro, insieme a migliaia di foto e articoli. Scatoloni di copie cartecee di articoli, taccuini, agende, biglietti aerei…, come un giornalista alla vecchia maniera, non come quelli odierni da copia-incolla senza vergogna…

Ripeto, sono una giornalista professionista, ma anche una ricercatrice, una storica e un’antropologa, con titoli accademici e pubblicazioni da far invidia alla media del giornalismo italico.

Sono anche un’intellettuale politicamente e socialmente impegnata, non organica al Sistema (per i colleghi poco colti è un riferimento a Gramsci), cosa di cui vado assolutamente fiera. Pertanto, lo squallido sbertucciamento di articoli, uno clone dell’altro, in stile gossip, contro di me, rappresenta una palese manifestazione di un giornalismo degno della scadente posizione in cui si trova nelle classifiche internazionali: la più recente, sulla libertà di stampa nel 2025, lo colloca al 49° posto globale, secondo Reporters Without Borders (RSF), la peggiore dell’Europa occidentale, indicando una salute precaria dell’informazione nel nostro Paese…  Un Paese, inoltre, che sta precipitando rapidamente in forme totalitarie di tragica memoria, insieme alla sempre più devastante situazione economica, e che ha bisogno più che mai di politici, di uomini e di donne, etici e dediti al bene della Nazione e dell’Umanità.

Solidarietà a Angela Lano, grande combattente per i diritti umani

Sui media mainstream oggi si sentono serpeggiare calunnie, infamie, vita privata raccontata al mondo senza un minimo di contesto. Il contesto che non vogliono raccontare proprio perchè se raccontato sarebbe molto più chiaro, quindi meno appetibile, ed ogni persecuzione intellettuale risulterebbe vana.

Quello a cui stiamo assistendo è una spirale del necropotere: il 15 dicembre 2025 la Corte d’appello di Torino ha disposto “la cessazione del trattenimento al CPR di Caltanissetta” dell’imam Mohamed Shahin, dopo aver subito persecuzione intelletuale e politica per il suo sostegno al popolo palestinese; e poi nei giorni scorsi sono arrivate le vergognose misure cautelari contro l’architetto Mohammed Hannoun, presidente dell’API e tra i fondatori dell’ABSPP Odv, insieme ad altri attivisti filopalestinesi.

Ora, tra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sui finanziamenti a Hamas avviata e coordinata dalla Direzione antimafia e antiterrorismo di Genova, figura anche Angela Lano, 62 anni – giornalista e orientalista, autrice di diversi libri sul mondo arabo e islamico, nonchè direttrice dell’agenzia di stampa Infopal.

Storica attivista No Tav di Sant’Ambrogio di Susa, combattente per i diritti umani, attiva in moltissime cause sociali nonchè tra le più grandi esperte della questione palestinese, volto noto del giornalismo non-embedded, Angela è oggi vergognosamente e antidemocraticamente accusata di “concorso e partecipazione in associazione con finalità terroristica”. Ieri all’alba gli agenti della Digos di Genova, insieme ai loro colleghi torinesi, hanno effettuato una lunga perquisizione nell’abitazione di Angela Lano, a Sant’Ambrogio. Se ne sono andati dopo aver sequestrato soldi contanti, alcuni dispositivi informatici e delle bandiere palestinesi.

Gli investigatori considerano oggi Angela “la responsabile della propaganda di Hamas in Italia”, poichè – si apprende dalla stampa mainstream – “in rapporti quasi quotidiani con l’imam di Genova Mohammed Hannoun, presidente dei Palestinesi d’Italia, accusato ora di essere membro del comparto estero di Hamas”. Nell’articolo de La Stampa viene accusata di essere “stipendiata dall’associazione di beneficenza Abspp (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese)”, come se fosse una notizia segreta e un atto illegale, quando in realtà non c’è nulla di illegale e di assurdo.

Infopal, l’agenzia che dirige, è nata nel 2006 ed è registrata al Tribunale di Genova, conta una decina di collaboratori – tra cui il sottoscritto – fra cui studiosi, giuristi e giornalisti, e alcuni corrispondenti da Gaza. Da sempre InfoPal è un punto di riferimento nell’ambito dell’informazione e fornisce news, resoconti e reportage sulla situazione in Palestina e, in particolare, sulla striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata.

Le accuse nei suoi confronti di Angela sono assurdità paranoidi al limite della fantasia e dell’isteria narrativa, degna di uno scrittore di thriller. Una guerra mediatica scatenata contro una seria e professionale giornalista che ha fatto della ricerca della verità, dello studio, dell’approfondimento dei dettagli, della ricerca accademica e indipendente la sua vita con estrema onestà e coerenza, condannando servilismi e collusioni del giornalismo mainstream.

Fa ridere istericamente l’idea che Angela venga considerata una “terrorista” (sembra assurdo solo scriverlo, oltre che pensarlo): lei che ha fatto della militanza ambientalista, pacifista, nonviolenta e antimilitarista la sua vita. Per chi la conosce sa di cosa sto parlando. Angela ha sempre agito con profondo senso etico nel suo lavoro e nella sua vita con la ferma convinzione che le ingiustizie sono intollerabili e non normalizzabili e che i diritti umani non sono negoziabili.

Angela ha uno spessore culturale che la metà dei giornalisti mainstream di sogna. Laureata nel 1990 in lingua e letteratura araba con una tesi sulla questione palestinese, ha scritto saggi sulla condizione femminile, sulla guerra in Iraq, sull’islam in Italia. Nel 1996-97 ha aggiornato il «Grande dizionario enciclopedico» della Utet per le voci «letteratura araba» e «letteratura persiana», uscito nel 2003 anche nell’Enciclopedia di Repubblica.

Tra il 1997 e il 1999 ha svolto una ricerca sul fenomeno delle conversioni all’islam e sulla presenza dell’islam in Italia pubblicata a puntate sulla rivista Missioni Consolata, organo dell’omonimo istituto missionario. PhD in Studi Etnico-Africani e del Medio Oriente e post-dottoranda in Scienza delle Religioni, da anni si occupa di storia e geopolitica del Mondo arabo e islamico oltre ad essere autrice di numerosi libri, articoli e reportage sulla Palestina e sull’“altro mondo”, quel mondo che non viene mai raccontato.

Collabora da anni con la rivista Tempi di Fraternità. Recentemente, insieme ad un gruppo di accademici dell’Università Federale brasiliana di Bahia, Angela ha costituito il “Nucleo di ricerca sugli studi coloniali e de-coloniali nel Nord Africa e Medio Oriente” con l’obiettivo di analizzare e decostruire le congiunture geopolitiche neocoloniali occidentali in atto nel mondo arabo e islamico (Africa settentrionale e orientale, Vicino e Medio Oriente).

Angela ha vissuto la militarizzazione del suo territorio, la Val Susa, fin dal 1989 con l’inizio dei cantieri TAV a cui tutta la popolazione si oppose e si oppone ancora oggi in blocco.

Divenne famosa per un fatto che l’ha segnata particolarmente. Era il 3 giugno 2010 quando Angela Lano arrivò all’aeroporto di Malpensa dalla Palestina acclamata da familiari, amici, compagni di lotte e da grande parte della comunità palestinese residente in Italia.

In qualità di giornalista si trovava a bordo della Nave 8000, facente parte della Freedom Flotilla, flotta navale carica di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza, per documentare sul posto l’arrivo degli aiuti. La Flotilla aveva il fine di rompere l’assedio coloniale e l’embargo che durava da quattro anni. Nonostante le intuizione di attacco da parte di Israele, nessuno avrebbe mai pensato che qualcuno la potesse sequestrare e farne strage. A bordo erano presenti attivisti, medici, parlamentari e giornalisti di cui Angela era l’unica donna italiana. La nave venne intercettata e, a 75 miglia dalle coste di Gaza in acque internazionali, venne assaltata illegalmente dall’esercito israeliano il 31 maggio 2010.

La nave turca Mavi Marmara andava in fumo mentre la Nave 8000, completamente priva d’armi, subiva la violenza scatenata dell’esercito israeliano. Furono sei gli attivisti italiani reduci dalla spedizione della flottiglia di aiuti per la Striscia di Gaza e furono tutti detenuti in Israele in attesa della pronuncia del tribunale essendosi opposti, come numerosi altri, al loro immediato rimpatrio.

Solo 25 attivisti su 581 (fonte: Reuters) accettarono di farsi espellere da Israele, mentre tutti gli altri vennero arrestati, identificati, schedati, interrogati, divisi per nazionalità e in seguito trasferiti in carcere, presumibilmente in quello di Beersheba, nel bel mezzo del Negev. Tra questi anche Angela venne imprigionata e sequestrata da Israele dopo che si oppose al provvedimento amministrativo di rimpatrio.

I suoi familiari nella casa di Sant’Ambrogio di Susa non ebbero sue notizie per quattro giorni. Il marito Fernando la sentì l’ultima volta, alle due della mattina di domenica 31 maggio, al telefono satellitare di cui Angela era dotata. Ancora oggi non è dato sapere perché la zona di Ashdod, dove Angela e altri sequestrati erano rinchiusi, era inaccessibile a tutti e per quale motivo la Farnesina non riuscì a reperire notizie certe. L’1 giugno Angela e gli altri cinque incontrarono i rappresentanti del Consolato italiano a Tel Aviv.

Israele iniziò a dare notizie false su come si era svolta la vicenda. La propaganda israeliana iniziò a mandare video e immagini di personaggi con le spranghe in mano che si ribellavano all’esercito, quando in realtà sulla Flotilla nulla di questo si era avverato. Una false flag ben architettata che portò a vociferare che persino Angela fosse armata di pistola. Nulla di più falso. Israele quindi annunciò di avviare procedimenti giudiziari contro gli attivisti con la scusa che avessero aggredito i soldati israeliani, quando in realtà sulla Flotilla ci fu una resistenza di massa passiva nonviolenta che utilizzava i propri corpi come unica arma di fronte a bombe, lacrimogeni e mitra.

Fu l’ennesima operazione, dopo “Piombo Fuso” a cavallo tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, che scioccò l’opinione pubblica italiana per le vessazioni dell’esercito israeliano. Nel libro “Verso Gaza”, Angela ha documentato il vile attacco sionista contro la Freedom Flotilla, colpevole di aver voluto aiutare e soccorrere la popolazione gazawi ormai stremata dall’embargo economico a cui era ed è sottoposta.

Mentre svolgeva la sua professione di giornalista, Angela veniva fortemente attaccata da molti suoi colleghi come Giuliano Ferrara, che denigrando il suo lavoro la raffigurò come “collaboratrice di siti antisemiti, negazionisti dell’Olocausto”.

Magdi Cristiano Allam e il sito Dagospia furono impegnatissimi nella campagna mediatica contro la Freedom Flotilla, contro gli aiuti umanitari imbastendo una squallida retorica che raffigurava gli attivisti e pacifisti come “solidali con il terrorismo”. Solo becere costruzioni linguistiche giornalistiche che, non essendo sul posto, non rispecchiavano la realtà. Claudio Pagliara, giornalista che vanta decenni di collaborazione da New York, all’epoca la accuso di fare “giornalismo con la kefiah”.

La solidarietà ad Angela arrivò da ambienti risicati della sinistra radicale, dalla Val di Susa, dal movimento No Tav nella quale ha militato, dalla comunità palestinese e da associazioni per i diritti umani. Anche Dario Fracchia, allora sindaco del Comune di Sant’Ambrogio, espresse forte solidarietà ad Angela e ai suoi compagni: “Esprimo piena solidarietà alla nostra concittadina Angela Lano e a tutti gli attivisti e volontari che hanno partecipato alla missione” – continuando poi – “La Freedom Flotilla è stata brutalmente stroncata in acque internazionali da un’azione militare di una violenza inaudita che deve essere condannata a livello sovranazionale il prima possibile. Stigmatizzo il governo israeliano che ritengo di essere di tipo fascista, criminale ed altamente irresponsabile. A questo abominevole episodio di violenza seguirà purtroppo altra violenza

Quello di Angela è il giornalismo “non embedded”, quello conquistato sul campo, documentato in maniera seria, frutto di interviste tra la gente del posto e nelle zone di guerra in cui il giornalista, come direbbe Pasolini, “si sporca le mani con la realtà” e non sta dall’alto dei suoi alberghi di lusso in attesa d’essere collegato in studio per leggere le veline che gli passano. Il giornalismo “non embedded” è il giornalismo non compromesso che non ha padroni e legge la realtà secondo i rapporti di forza e non sta seduto sulla sedia di pelle del suo ufficio pubblicando filippiche contro popoli e territori che nemmeno conosce.

Oggi Angela si occupa di Islam, guerre in Medioriente, Palestina, geopolitica, radicalismo islamico e immigrazione. Non è un caso che sta riscontrando molto successo il suo ultimo libro, molto ben documentato, sull’attuale genocidio a Gaza, intitolato “Olocausto Palestinese”.

Grazie ad Angela per quello che ha fatto, scritto, raccontato e documentato e per il lavoro che continuerà a fare come direttrice di InfoPal ed accademica. La persecuzione nei confronti di Angela, oltre ad essere di stampo politico ed intellettuale, è una palese violazione dello Stato di Diritto in una post-democrazia europea, come l’Italia, oltre che una violazione della libertà d’espressione e della libertà d’associazione.

Solidarietà totale ad Angela, combattente per i diritti umani e per i diritti del popolo palestinese.

* da Pressenza