- Al concentramento
Importante manifestazione a Melfi per Anan, da fine settembre trasferito nel carcere di questo paese della Basilicata. Come diceva un cartello: hanno voluto isolare Anan ma in realtà hanno esteso anche in questa Regione la lotta per la sua liberazione e rafforzato la battaglia per la Palestina.



Un centinaio di compagne, compagni, studenti della zona, giovani immigrati di Rionero, lavoratori in lotta alla Stellantis; tanti giovani palestinesi da Napoli, delegazioni da Taranto, Brindisi, Arezzo e tanti altri hanno fatto un corteo combattivo, nuovo a Melfi, accolto bene dalle persone del posto. Per più di 2 ore il corteo è sfilato compatto, unitario, in un bel clima di calore umano, senza mai fermarsi negli slogan che via via sono stati gridati in palestinese, con al centro: Anan libero! Palestina libera! Israele terrorista!

Il corteo è arrivato al carcere dove si è svolto un lunghissimo presidio, aperto da numerosi e rumorosi saluti in arabo ad Anan, seguiti da un collegamento col presidio sotto il carcere di Rossano Calabro in solidarietà con Ahmad Salem, e numerosi slogans e interventi che hanno fatto arrivare all’interno della nera galera la forte solidarietà ad Anan e l’impegno a continuare fino alla sua liberazione.
Durante la manifestazione è stato letto un messaggio di Tahar Lamri, e il presidio si è concluso con l’appello, fatto in particolare dalla compagna de L’Aquila di Soccorso rosso proletario, ad essere il 19 il più possibile alla nuova manifestazione a L’Aquila, giorno della sentenza per Anan, Alì e Mansour.

Intervento della compagna SRP L’Aquila
Messaggio da un ragazzo di Gaza
Operaio Ex-Ilva Taranto
Saluto ad Anan
Messaggio di Tahar Lamri
“C’è un uomo all’Aquila che porta nel corpo undici proiettili e quaranta schegge. Le torture israeliane gli hanno scritto la storia sulla carne, ma ora l’Italia vuole riscriverla nei codici del terrorismo. Anan Yaeesh aspetta la sentenza in un processo dove l’assurdo è diventato procedura.
Ma c’è posto per l’ambasciata israeliana. La Procura la convoca a testimoniare sulla natura della colonia di Avnei Hefetz. Israele – la parte che ha chiesto l’estradizione, che ha fornito le prove, che ha torturato l’imputato – diventa testimone nel processo italiano. Il nodo è cruciale: se Avnei Hefetz è insediamento civile, Anan è terrorista. Se è base militare, è resistente. Chi meglio di Israele può definirlo?
L’ambasciatore non si presenta. All’ultimo momento, il 21 novembre, si presenta una funzionaria dall’ambasciata di Parigi. Dietro di lei, in videoconferenza, la bandiera israeliana. Testimonianza vaga, poco convincente. Ma è bastato l’azzardo: far parlare lo Stato occupante sulla legittimità della resistenza all’occupazione. Come chiedere al carceriere di testimoniare sulla libertà del prigioniero.
L’avvocato Rossi Albertini la chiama “arroganza di Israele verso l’autorità giudiziaria italiana”. Ma è qualcosa di più: è uno Stato che processa dall’Aquila fatti avvenuti in Cisgiordania, che esclude la Storia e include l’oppressore, che chiama giustizia questa farsa.
C’è un ragazzo di ventiquattro anni in alta sicurezza a Rossano Calabro. La sua colpa? Otto minuti di video, parole contro un genocidio, immagini già trasmesse dalla Rai. Ahmad Salem ha sognato l’asilo e ha trovato una cella dove ogni sillaba di solidarietà diventa “autoaddestramento”.
C’è un imam strappato ai figli dopo vent’anni, rinchiuso in un CPR. Un altro padre di tre figli italiani espulso dopo trent’anni. Mohamed Shahin e Zulfiqar Khan hanno parlato di Palestina quando dovevano tacere. Uno in un CPR a Caltanissetta, l’altro rispedito in Pakistan. Decreti firmati, tribunali che convalidano, ministri che esultano. Il reato? Le parole.
Sono corpi palestinesi, corpi musulmani, corpi che parlano quando dovrebbero tacere. Sono voci che dicono Gaza, che dicono occupazione, che dicono genocidio. E per questo diventano minacce. Non importa se hanno famiglie, permessi, anni di radici. Non importa se le loro parole sono pensiero, non azione. Non importa se la Procura dice “nessun reato”.
Importa solo che abbiano rotto il silenzio.
L’Italia ha imparato da Israele la lezione più antica: chiamare terrorismo la resistenza, chiamare sicurezza la repressione, chiamare giustizia la vendetta. Ha imparato che si può processare un uomo per la Storia, espellerlo per le parole, rinchiuderlo per i pensieri. Ha imparato che si può rifiutare la relatrice ONU e convocare l’ambasciata occupante.
Ma le undici pallottole nel corpo di Anan non mentono. I quarantasette testimoni rifiutati non mentono. La bandiera israeliana in aula non mente. Le sbarre della cella di Ahmad non mentono. Il CPR dove hanno rinchiuso Mohamed non mente. L’aereo che ha portato via Zulfiqar non mente..
Questa non è giustizia. È silenzio imposto con la forza dello Stato. È la criminalizzazione della solidarietà. È un processo dove l’occupante testimonia e l’occupato è accusato.
Ma i corpi resistono. Le parole restano. La memoria non si espelle.
E il 19 dicembre, quando a L’Aquila caleranno le sbarre su Anan, o quando si apriranno per miracolo di una giustizia che ancora respira, sapremo se questo paese ha ancora il coraggio di guardare in faccia la Palestina, o se preferisce continuare a processarla, imprigionarla, deportarla.
Undici proiettili, quaranta schegge, quarantasette testimoni rifiutati, una bandiera israeliana in aula.
E una sola domanda: da che parte sta la legge?”
Qui il collegamento con ROR:






















