Libertà per Ahmad Salem, in carcere da sei mesi per aver chiamato alla mobilitazione contro il genocidio

Ahmad Salem è un giovane palestinese di 24 anni, nato e cresciuto nel campo profughi palestinese al-Baddawi in Libano, arrivato in Italia in cerca di protezione internazionale e che dopo il suo arrivo, si è recato a Campobasso per presentare richiesta di asilo politico.

Durante l’audizione davanti alla Commissione territoriale, il suo telefono è stato sequestrato e perquisito ed a Salem sono stati contestati gli articoli 414 (istigazione a delinquere) e 270 quinquies (autoaddestramento con finalità di terrorismo) del cp.

Le autorità italiane, così come la stampa, lo hanno descritto come un “jihadista” che incitava all’odio e istigava a compiere atti terroristici, sostenendo che sul suo telefono fossero presenti “materiali istruttivi” utili a fini terroristici.

L’intero impianto accusatorio si basa su un paio di frasi decontestualizzate estratte da un video di otto minuti pubblicato online, in cui Ahmad invitava alla mobilitazione contro il genocidio in corso a Gaza, alla sollevazione in Cisgiordania e a scendere nelle piazze in Libano; e per un passaggio del video in cui Ahmad condanna il silenzio e l’immobilismo del mondo arabo e musulmano davanti ai crimini commessi da Israele, diventa, per la Digos di Campobasso, un video di “propaganda jihadista”.

Quanto ai presunti “video istruttivi”, è emerso che si trattava di filmati degli attacchi della resistenza palestinese a Gaza contro mezzi militari israeliani, gli stessi video che per mesi sono circolati su canali e mezzi d’informazione; questi si sono rivelati non contenere alcuna indicazione di natura tecnica o addestrativa come sostenuto dall’accusa; tant’è che gli stessi video diffusi dalla resistenza palestinese a Gaza sono stati a più riprese, negli ultimi due anni, pubblicamente resi accessibili e trasmessi da testate italiane tra cui Rai News, La Repubblica, La Stampa e altre.

Nonostante ciò, Ahmad si trova da oltre sei mesi in carcere, in regime di alta sicurezza, a Rossano Calabro, in attesa di giudizio. I suoi legali hanno presentato ricorso in Cassazione e hanno sollevato la questione di costituzionalità dell’articolo 270 quinquies, articolo noto come “terrorismo della parola” recentemente introdotto con il “DL Sicurezza” (ex DDL 1660) ad aprile, ampliando ulteriormente il margine repressivo in Italia.

Questo caso si inserisce in un contesto politico e giuridico più ampio, ossia quello in cui lo Stato italiano si dota di strumenti repressivi sempre più stringenti, non solo per colpire le lotte sociali e il movimento di solidarietà, ma anche ogni espressione di appoggio alla Palestina e alla legittima lotta del popolo palestinese per l’indipendenza e l’autodeterminazione.

Il 21 novembre 2025 saremo tutti davanti al Tribunale di L’Aquila non solo al fianco di Anan, Ali e Mansour, imputati del processo che vuole privare il popolo palestinese del legittimo diritto a resistere, ma anche in solidarietà con Ahmad, affinché venga liberato dalle carceri italiane.

“Li stuprano tutti”: come Israele ha trasformato la tortura sessuale in un’arma contro gli ostaggi palestinesi

Di Malak Radwan – Quds News Network
Quando furono redatti i trattati internazionali, dopo che il mondo aveva visto ciò che l’umanità è capace di infliggersi, alcuni atti erano contrassegnati come linee rosse assolute. Stupro. Violenza sessuale. Nudità coercitiva. Umiliazione sessualizzata. Crimini che spogliano l’essere umano fino alla sua più cruda vulnerabilità. Crimini che, se commessi sistematicamente, sono definiti crimini contro l’umanità.
Eppure, all’interno dei centri di detenzione israeliani, secondo sopravvissuti, medici, avvocati e organizzazioni per i diritti umani, queste linee rosse non solo sono state oltrepassate; sono state cancellate.
Quando la conduttrice televisiva canadese Samira Mohyeddin ha chiesto all’avvocato Ben Marmarelli del video dello stupro trapelato nel campo di Sde Teiman, lui non ha usato mezzi termini.
“Stuprano tutti i prigionieri a Sde Teiman”, ha detto. Per lui, il caso emerso pubblicamente non è stata una rivelazione; è stato un capro espiatorio. “Se ci fossero state telecamere accese 24 ore su 24, 7 giorni su 7, il mondo avrebbe visto che stupri e torture sono all’ordine del giorno”.
Secondo Marmarelli, una volta scoperto un caso, le autorità israeliane si sono mosse rapidamente per isolarlo, trasformando i soldati accusati in simboli di sacrificio nazionale.
La sua dichiarazione è in linea con un crescente numero di testimonianze raccolte da detenuti di Gaza rilasciati durante brevi pause nella guerra, testimonianze che descrivono la violenza sessuale non come un’aberrazione, ma come una politica.
All’ospedale Shuhada’a Al-Aqsa, il dottor Ezeddin Shaheen, specialista in terapia intensiva e anestesia, ha inaspettatamente iniziato a ricevere ex detenuti dopo l’inizio dell’attuale tregua.
“Dall’inizio della tregua, ho curato sei o sette pazienti che in seguito mi hanno detto di essere stati violentati dagli israeliani”, ha dichiarato a Quds News Network. “Non venivano da me per cure legate allo stupro; venivano per altri problemi medici. Ho ricevuto questo numero anche se non sono specializzato nel trattamento di detenuti rilasciati. Ma durante la visita, la verità è emersa”.
Ha anche documentato ferite causate da cani, bastoni di legno e, cosa orribile, da un trapano elettrico.
“Hanno usato un trapano sui loro corpi, mani e testa. C’erano dei buchi”.
Sottolinea che questa tortura è sistematica e non occasionale.
Il prigioniero rilasciato Khaldoun Barghouti ha descritto i primi giorni del genocidio nella prigione del Negev come una scena di nudità di massa, percosse di massa e cani che attaccavano i detenuti. Ha affermato che il ministro israeliano Itamar Ben-Gvir ha persino camminato sul petto e sulla testa dei prigionieri nudi.
“Lo stupro con bastoni di legno o di ferro è diventato comune”, ha detto.
Ben-Gvir si è poi vantato su X:
“Ho visto ciò che mi piaceva nella prigione del Negev”.
Lo psichiatra Dr. Alaa Al-Froukh, ex presidente dell’Associazione Psichiatrica Giordana, spiega che molti sopravvissuti non parlano immediatamente perché la tortura sessuale porta con sé un profondo stigma sociale e il trauma stesso innesca evitamento, flashback e dissociazione. Rivivere l’esperienza, anche a parole, può dare la sensazione di essere nuovamente aggrediti.
“Le vittime spesso la nascondono. Cercano di cancellarla dalla memoria. La vergogna non è loro, ma è la società a riversarla su di loro”, ha detto.
Avverte che quando tale tortura diventa sistematica, serve a un chiaro scopo: fornire una copertura istituzionale ai soldati che altrimenti potrebbero esitare.
“Una volta che diventa una politica”, ha detto, “trasforma ogni detenuto in un bersaglio.”