Ahmad Salem, Palestinien de 24 ans né dans le camp de réfugiés d’al-Baddawi au Liban, est emprisonné en Italie depuis plus de six mois après avoir appelé, dans une vidéo de huit minutes, à la mobilisation contre le génocide à Gaza, à un soulèvement en Cisjordanie et à des manifestations au Liban. Arrivé en Italie pour demander l’asile, son téléphone a été saisi lors de son audition, et il a été accusé d’« incitation à commettre un crime » et d’« auto-formation en vue du terrorisme ». Les autorités italiennes l’ont présenté comme un « jihadiste », en s’appuyant sur quelques phrases sorties de leur contexte et sur des vidéos de la résistance palestinienne déjà largement diffusées par les médias italiens et ne contenant aucun contenu technique. Malgré cela, Ahmad est détenu en régime de haute sécurité à Rossano Calabro dans l’attente de son procès ; ses avocats ont saisi la Cour de cassation et contestent la constitutionnalité de l’article 270 qui étend la criminalisation des discours. Ce cas n’est pas isolé, comme en témoigne la situation d’Anan Yaeesh, Ali Irar et Mansour Doghmosh (voir notre article).
Un second échange international antimilitariste s’est tenu à Hambourg en novembre 2025, réunissant des militants de plusieurs pays pour réfléchir aux luttes contre la militarisation et le service militaire. Vendredi 21 novembre, cinq militant·e·s anarchistes arrivant de Milan ont été arrêtés par la police fédérale allemande dès leur sortie de l’avion à l’aéroport de Hambourg. Ils ont été contrôlés, interrogés sur la rencontre et sur leurs activités anarchistes. Face à leur refus de coopérer, et après plusieurs heures, il leur a été notifié qu’ils seraient refoulés. Après avoir passé la nuit au poste de police, la police fédérale a modifié leur réservation de vol pour le lendemain matin. Leurs documents ont été remis au pilote et ils ont été renvoyés en Italie, où ils ont été accueillis par la police italienne et relâchés. Les documents remis aux militants justifiaient leur interpellation par leur échange contre un service militaire et leur rejet du militarisme au cours de l’année précédente.
Il recente dibattito del governo israeliano su una proposta di legge sulla pena di morte segna una forte escalation nelle misure punitive contro i prigionieri politici palestinesi. Per la prima volta, il direttore dello Shin Bet, David Zini, ha pubblicamente appoggiato le esecuzioni, descrivendole come “uno strumento altamente deterrente”.
Le sue osservazioni hanno rappresentato un allontanamento dalla posizione storicamente cauta dell’agenzia, sottolineando come l’apparato di sicurezza si stia allineando alle richieste politiche dell’estrema destra.
Posizioni di sicurezza
Zini ha sostenuto che le esecuzioni “aumenterebbero la deterrenza” anche se provocassero rapimenti di ritorsione. Ha sottolineato che il suo sostegno si basa su considerazioni operative piuttosto che su motivazioni politiche o legali.
L’esercito di occupazione israeliano, attraverso un rappresentante del Capo di Stato Maggiore, ha espresso una posizione più misurata: “l’esercito non si oppone alla pena di morte, ma è favorevole all’applicazione discrezionale piuttosto che alla condanna obbligatoria”.
Il ministro della Sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben Gvir, ha salutato la proposta come “storica”, affermando che “farebbe giustizia e impedirebbe ulteriori rapimenti”.
Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich ha aggiunto che la legge potrebbe applicarsi anche ai “cittadini ebrei che commettono omicidi per conto di attori ostili come l’Iran”.
Disposizioni del disegno di legge
Secondo i principi trapelati e diffusi tramite un gruppo WhatsApp collegato al Comitato per la sicurezza nazionale, la legge:
Si applicano esclusivamente ai casi che comportano l’uccisione di ebrei.
Essere promulgato con una semplice maggioranza di voti in tribunale.
Eliminare la discrezionalità giudiziaria ed eliminare il diritto di appello.
Richiedere al Servizio penitenziario israeliano di effettuare le esecuzioni entro 90 giorni, utilizzando l’iniezione letale.
Il canale israeliano Channel 12 News ha osservato che la formulazione e la tempistica del disegno di legge suggeriscono che il suo scopo primario sia elettorale.
Channel 12 ha osservato che le possibilità che la legge sopravviva alla revisione della Corte Suprema israeliana nella sua forma attuale sono minime.
Prigionieri politici e contesto di occupazione
Gli individui presi di mira da questa legge sono nella stragrande maggioranza prigionieri politici palestinesi, detenuti sotto occupazione militare e spesso processati in tribunali militari privi delle garanzie di giusto processo riconosciute a livello internazionale.
Presentarli come criminali oscura la realtà politica: la loro prigionia è inscindibile dal più ampio sistema di occupazione, controllo e resistenza.
Introdurre le esecuzioni in questo contesto trasformerebbe la detenzione politica in un omicidio sancito dallo Stato, intensificando l’apparato punitivo dell’occupazione.
Preoccupazioni legali e umanitarie internazionali
Israele non ha più eseguito condanne a morte per reati comuni dall’impiccagione del criminale di guerra nazista Adolf Eichmann nel 1962. La legge attuale consente la pena capitale solo in casi eccezionali, come il genocidio o i crimini contro l’umanità.
Estenderla ai prigionieri politici palestinesi rappresenterebbe una rottura fondamentale con le norme giuridiche vigenti.
Il diritto internazionale pone seri ostacoli. La Quarta Convenzione di Ginevra richiede garanzie di giusto processo per i detenuti nei territori occupati e vieta l’applicazione discriminatoria delle pene.
Una legge che si applicasse solo agli incidenti che coinvolgono vittime ebree verrebbe quasi certamente contestata come discriminatoria.
Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno ripetutamente condannato l’estensione della pena capitale, sottolineandone l’incompatibilità con i moderni standard dei diritti umani.
Tribunale blindato, ma anche massicciamente presidiato oggi, da circa 200 persone, una parte delle quali ha riempito l’aula in cui si è tenuta l’udienza che avrebbe dovuto audire la testimonianza dell’ambasciatore israeliano in Italia.
La difesa ha chiesto che venisse ascoltato per primo Anan, e ha aggiunto che il teste della difesa, il professor Chiodelli, docente di geografia economico-politica all’Università di Torino, non poteva intervenire per l’impossibilità, quest’oggi, di essere fisicamente presente, quindi ha chiesto che venisse ascoltato il 28 novembre.
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Dichiarazione di Anan del 21/11/2025
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Nell’udienza precedente il Pubblico Ministero ha chiesto di togliere la bandiera palestinese
Io chiedo che sia tolta la bandiera israeliana (il giudice dice che non c’è nessuna bandiera, ma poi lascerà deporre la rappresentante dell’ambasciata israeliana a Parigi davanti a una bandiera israeliana, mentre toccava una pallina antistress dai colori della bandiera israeliana)
È successo in passato che mi sono trovato di fronte a testimoni israeliani, ma era in un tribunale militare israeliano. C’erano i soldati a testimoniare contro di me ed io ero di fronte alla giustizia militare dell’occupazione. Io non riconosco questo tribunale.
Ma oggi che sono in Italia, nelle mani di una giustizia vera, che opera attraverso la legge, l’equità e le prove, non mi aspettavo, né attendevo, di dovermi trovare ancora una volta ad ascoltare la testimonianza dello stato israeliano che occupa la nostra terra e che pratica la pulizia etnica contro il popolo palestinese.
Come potete permettere a chi ci ha oppressi, ha ucciso il mio popolo, ha invaso la nostra terra, ha torturato me personalmente e ucciso tanti membri della mia famiglia, di testimoniare contro di me oggi in questo tribunale?
Come potete permettete ad un governo che è stato condannato per crimini di guerra di testimoniare contro di me in un tribunale italiano e sul suolo italiano?
Come potete permettete che questi criminali vengano in un tribunale in Italia a testimoniare contro di me?
Il pubblico ministero ha violato tutte le leggi internazionali e non le ha nemmeno riconosciute.
Avnei Hefetz è stata costruita sul terreno di Ṭūlkarm, che sta sotto l’autorità palestinese.
Perché non sono stati chiamati testimoni del governo palestinese?
Nonostante tutta la causa sia incentrata su fatti che dovrebbero essere accaduti sul territorio palestinese, il Pubblico Ministero non ha fatto alcuna richiesta alle autorità palestinesi, perché tutti i testimoni e tutte le domande vengono da Israele.
Non so più se mi trovo in un tribunale militare israeliano e se vengo processato in base alla legge militare israeliana
Se sono davanti a un Pubblico Ministero israeliano che lavora dentro il Mossad.
Chiedo se Israele ha davvero tutto questo potere in Italia
Avnei Hefetz non è solo una postazione militare. Dentro c’è la stanza delle operazioni speciali, la sala in cui vengono decise e gestite tutte le operazioni di eliminazione dei resistenti palestinesi.
Dentro la città di Ṭūlkarm gli agenti coordinati da Avnei Hefetz sono sempre in borghese
E la loro operazione più famosa è l’assassinio del martire Amir Abu Khadijeh
Viva la Palestina!
Viva il popolo palestinese!
Viva la Resistenza palestinese fino alla libertà!
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Il tribunale de L’Aquila viola le nostre leggi al servizio di Israele
Dopo la dichiarazione di Anan, abbiamo appreso dell’assenza del teste dell’accusa e del videocollegamento con un’addetta diplomatica dell’ambasciata israeliana a Parigi, Zaharira Bar Yehuda Etzion. Nonostante le eccezioni di nullità sollevate dalla difesa, il Presidente della Corte ha deciso di procedere, per non meglio precisati motivi di “urgenza”. Prima che costei iniziasse a parlare, con alle spalle una bandiera israeliana, sono passati almeno 3 quarti d’ora per risolvere problemi di audio, altrettanti ci sono voluti per identificare chi dovesse identificare chi, dato che nella stanza dell’ambasciata erano presenti, oltre alla diplomatica, altri 2 soggetti israeliani.
Alla fine, come sempre, Israele si è autocertificato, e il teste che avrebbe dovuto riferire sull’ubicazione, natura, struttura e caratteristiche dell’insediamento della colonia di Avnei Hefetz, non ha saputo dire altro che Avnei Hefetz è un insediamento civile, “precisando” che si trova in Cisgiordania e citando come fonte l’ufficio statistico del governo israeliano. A tutte le domande della difesa rispondeva non so, cercando di trovare le risposte probabilmente su internet, mentre stringeva tra le mani una pallina antistress bianca con due strisce azzurre.
Prima della conclusione dell’udienza, la PM D’Avolio ha chiesto che venissero messe agli atti immagini satellitari scaricate da Google Earth, che evidenzierebbero l’assenza di avamposti militari nell’area.
Cercando invece su software open-source, emerge invece tutta un’altra realtà, quello sotto è uno screenshot scattato su MapCarta.Alla fine di questo osceno processo, violativo non solo del diritto internazionale, ma anche di quello italiano, il presidente della corte ha dato appuntamento al 28 novembre per ascoltare il teste della difesa e per la requisitoria dell’accusa, ordinando di non fare “cori”.
Dopo aver commentato per tutta l’udienza l’atteggiamento arrogante israeliano e quello indulgente verso di esso della corte, che minacciava invece di cacciare il pubblico fuori dall’aula, un silenzio assordante, che sembrava infinito, ha seguito quell’ordine. Vedere Anan nello schermo, rimasto solo con la corte, ha come paralizzato il pubblico, che si avviava in silenzio verso l’uscita.
E’ bastato un grido, quello del soccorso rosso proletario, ad accendere la miccia e a riscaldare il cuore ad Anan. Non avevano spento i microfoni: “Anan Libero” è risuonato sempre più forte nell’aula sollevando le braccia di Anan in segno di saluto e affetto.
All’esterno del tribunale, in contemporanea, si è svolto un presidio con numerose realtà e delegazioni, provenienti, oltre che dall’Abruzzo, da tutta Italia. Puglia, Basilicata, Umbria, Toscana, Lazio, Napoli, Roma, Bologna, Trento, Treviso, solo per citarne alcune.
Tra i tanti striscioni anche uno per Tarek Dridi, condannato a 4 anni e 8 mesi per aver difeso la piazza del 5 ottobre per la Palestina dalla violenza delle F.O.
Oggi si sarebbe dovuta tenere a Roma l’udienza di appello per Tarek, ma è stata rinviata al 5 dicembre perché la sua richiesta di essere presente in aula non è stata rispettata. Inoltre, mancando la corrente nel carcere di Pescara, dove è detenuto, non è stato possibile fare il collegamento in videoconferenza.
Anche a Roma comunque si è tenuto un presidio di solidarietà, e nono stati fatti collegamenti tra i due presidi tramite Radio Onda Rossa.
La mobilitazione tuttavia non è ancora, come dovrebbe essere, di massa, rispetto alle mobilitazioni che ci sono state a settembre-ottobre. Uno spunto di riflessione su questo lo fornisce questo interessante articolo di Laila Hassan
il 21 novembre la Corte di Assise dell’Aquila, ospiterà un rappresentante dello stato terrorista di Israele come teste di accusa nei confronti del partigiano palestinese Anan Yaeesh e di due suoi amici, accusati di “terrorismo” per l’appoggio alla resistenza palestinese in Cisgiordania.
FUORI L’AMBASCIATORE ISRAELIANO DALLE AULE DI TRIBUNALE ITALIANE!
IL SUO POSTO È SUL BANCO DEGLI IMPUTATI NELLE AULE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA INTERNAZIONALE!
Si avvia a conclusione il processo ai tre cittadini palestinesi Anan, Ali e Mansour, in corso presso il tribunale de L’Aquila.
Finora non è emerso alcun elemento incriminante a carico degli imputati: il diritto del popolo palestinese alla resistenza anche armata contro l’occupazione militare illegale è riconosciuto daldiritto internazionale purché non vengano coinvolti civili estranei al conflitto, e nel corso del processo non è emerso alcun superamento di questo limite.
Il tentativo da parte dell’accusa di far passare come civile un insediamento che ospita anche una base militare è fallito, e non è stata fornita alcuna prova su un presunto attentato che sarebbe stato pianificato dall’Italia verso quell’insediamento.
Per sostenere questa tesi, tuttavia,la Procura ha cercato di inserire nel fascicolo un documento redatto dall’ufficiale di collegamento tra Israele e il Sud Europa che afferma che l’insediamento in questione, Avnei Hefetz, deve essere indicato come un insediamento di civili.
Trattandosi di un documento con contenuto dichiarativo, il giudice ne ha negato l’ammissione. In risposta, l’accusa ha richiesto di convocare l’ambasciatore israeliano come testimone nell’udienza del 21, violando apertamente quanto disposto dalla Corte Internazionale di Giustizia nel luglio 2024, che oltre a condannare l’occupazione israeliana e le politiche di insediamento, stabilisce che tutti gli stati membri dell’ONU hanno non solo l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale derivante dall’occupazione, ma anche di non fornire assistenza o aiuto al mantenimento di tale situazione.
La presenza stessa dello stato genocidario di Israele in aula è purtroppo coerente con la politica di attiva collaborazione dell’Italiacon l’occupazione israeliana, dimostrata anche nel corso di due anni di conclamato genocidio.
Due anni in cui l’Italia ha continuato ad armare Israele e i coloni. Da Leonardo alla Beretta, sono italiane le armi dell’occupazione.
Due anni in cui il Ministro della Sicurezza Nazionale, Ben-Gvir ha distribuito 40 mila di queste armi ai coloni che vivono sulle colline della Cisgiordania per aggredire i palestinesi, occupare le loro terre, rubare le loro fonti di acqua, uccidere il loro bestiame, incendiare le loro case, gli ulivi, le auto, cementificare le loro terre per costruirvi altri insediamenti illegali israeliani.
Due anni in cui i coloni hanno compiuto 4.306 aggressioni e atti di vandalismo nella Cisgiordania occupata, 264solo nell’ottobre di quest’anno, causando la morte di 36 civili palestinesi. Uno dei gruppi più estremisti ed aggressivi di questi “civili” armati sono i “giovani delle colline”, checontrollano la vasta area a est della Cisgiordania, e stanno promuovendo una lista da candidare alle primarie interne del Likud la prossima settimana, dove, secondo il quotidiano ebraico Yediot Aharonot, ci sono personaggi sospettati di crimini nazionalisti come atti di terrorismo, non solo nei confronti dei palestinesi, ma anche verso militari israeliani.
Che il diritto internazionale consideri “civili” anche questi coloni non sorprende, lo stesso Israele è stato fondato da bande terroristiche di coloni che poi sono stati integrati nell’IDF. Ciò che può sorprendere, se non si conoscono le radici fasciste e razziste alla base del sionismo e un po’ di storia anche italiana, è il fatto che questo governo continui a dichiararsi sovranista e spalanchi le porte allo stato israeliano.
Ma la storia in Corte di Assise dell’Aquila non deve entrare. Deve entrare invece l’ambasciatore di uno Stato genocida, il cui Primo Ministro è stato condannato dalla CIG come criminale di guerra, a riscrivere la storia, a raccontarci cosa dobbiamo intendere per Avnei Hefetz, nel tentativo di condannare la legittima resistenza del popolo palestinese e di legittimare gli insediamenti illegali israeliani quantunque ospitino le basi militari di uno stato occupante.
La normalizzazione del genocidio a Gaza, dopo la finta tregua annunciata il 10 ottobre, ha invisibilizzato anche la pulizia etnica e la repressione in Cisgiordania, dove si contano almeno 1107 martiri e 23718 arresti tra i palestinesi dal 7 ottobre 2023. Anche le torture e gli stupri all’interno dei centri di detenzione israelianihanno subito un’escalation senza precedenti e il 3 novembrela Knesset israeliana ha approvatoun disegno di legge per applicare la pena di morte ai palestinesi.
Ebbene, il 21 novembre, il “democratico”stato sionistasarà presente in un’aula di giustizia italiana per accusare di terrorismo chi il vero terrorismolo ha vissuto e continua a viverlo sulla propria pelle e sulla pelle del suo popolo.
Invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio nazionale davanti al Tribunale dell’Aquila, contro la complicità dell’Italia con Israele, per ribadire che la resistenza non si arresta né si processa, in solidarietà ad Anan, Ali, Mansour e Ahmad Salem, palestinese in carcere da sei mesi per aver chiamato alla mobilitazione contro il genocidio.
La manifestazione del 21 a L’Aquila sarà inoltre collegata con un presidio a Roma per il processo di appello a Tarek Dridi, ragazzo tunisino condannato a 4 anni e 8 mesi per aver difeso la piazza per la Palestina del 5/10/24 a Roma.
La Resistenza non si arrende/ La Palestina si difende!
Ahmad Salem è un giovane palestinese di 24 anni, nato e cresciuto nel campo profughi palestinese al-Baddawi in Libano, arrivato in Italia in cerca di protezione internazionale e che dopo il suo arrivo, si è recato a Campobasso per presentare richiesta di asilo politico.
Durante l’audizione davanti alla Commissione territoriale, il suo telefono è stato sequestrato e perquisito ed a Salem sono stati contestati gli articoli 414 (istigazione a delinquere) e 270 quinquies (autoaddestramento con finalità di terrorismo) del cp.
Le autorità italiane, così come la stampa, lo hanno descritto come un “jihadista” che incitava all’odio e istigava a compiere atti terroristici, sostenendo che sul suo telefono fossero presenti “materiali istruttivi” utili a fini terroristici.
L’intero impianto accusatorio si basa su un paio di frasi decontestualizzate estratte da un video di otto minuti pubblicato online, in cui Ahmad invitava alla mobilitazione contro il genocidio in corso a Gaza, alla sollevazione in Cisgiordania e a scendere nelle piazze in Libano; e per un passaggio del video in cui Ahmad condanna il silenzio e l’immobilismo del mondo arabo e musulmano davanti ai crimini commessi da Israele, diventa, per la Digos di Campobasso, un video di “propaganda jihadista”.
Quanto ai presunti “video istruttivi”, è emerso che si trattava di filmati degli attacchi della resistenza palestinese a Gaza contro mezzi militari israeliani, gli stessi video che per mesi sono circolati su canali e mezzi d’informazione; questi si sono rivelati non contenere alcuna indicazione di natura tecnica o addestrativa come sostenuto dall’accusa; tant’è che gli stessi video diffusi dalla resistenza palestinese a Gaza sono stati a più riprese, negli ultimi due anni, pubblicamente resi accessibili e trasmessi da testate italiane tra cui Rai News, La Repubblica, La Stampa e altre.
Nonostante ciò, Ahmad si trova da oltre sei mesi in carcere, in regime di alta sicurezza, a Rossano Calabro, in attesa di giudizio. I suoi legali hanno presentato ricorso in Cassazione e hanno sollevato la questione di costituzionalità dell’articolo 270 quinquies, articolo noto come “terrorismo della parola” recentemente introdotto con il “DL Sicurezza” (ex DDL 1660) ad aprile, ampliando ulteriormente il margine repressivo in Italia.
Questo caso si inserisce in un contesto politico e giuridico più ampio, ossia quello in cui lo Stato italiano si dota di strumenti repressivi sempre più stringenti, non solo per colpire le lotte sociali e il movimento di solidarietà, ma anche ogni espressione di appoggio alla Palestina e alla legittima lotta del popolo palestinese per l’indipendenza e l’autodeterminazione.
Il 21 novembre 2025 saremo tutti davanti al Tribunale di L’Aquila non solo al fianco di Anan, Ali e Mansour, imputati del processo che vuole privare il popolo palestinese del legittimo diritto a resistere, ma anche in solidarietà con Ahmad, affinché venga liberato dalle carceri italiane.
Quando furono redatti i trattati internazionali, dopo che il mondo aveva visto ciò che l’umanità è capace di infliggersi, alcuni atti erano contrassegnati come linee rosse assolute. Stupro. Violenza sessuale. Nudità coercitiva. Umiliazione sessualizzata. Crimini che spogliano l’essere umano fino alla sua più cruda vulnerabilità. Crimini che, se commessi sistematicamente, sono definiti crimini contro l’umanità.
Eppure, all’interno dei centri di detenzione israeliani, secondo sopravvissuti, medici, avvocati e organizzazioni per i diritti umani, queste linee rosse non solo sono state oltrepassate; sono state cancellate.
Quando la conduttrice televisiva canadese Samira Mohyeddin ha chiesto all’avvocato Ben Marmarelli del video dello stupro trapelato nel campo di Sde Teiman, lui non ha usato mezzi termini.
“Stuprano tutti i prigionieri a Sde Teiman”, ha detto. Per lui, il caso emerso pubblicamente non è stata una rivelazione; è stato un capro espiatorio. “Se ci fossero state telecamere accese 24 ore su 24, 7 giorni su 7, il mondo avrebbe visto che stupri e torture sono all’ordine del giorno”.
Secondo Marmarelli, una volta scoperto un caso, le autorità israeliane si sono mosse rapidamente per isolarlo, trasformando i soldati accusati in simboli di sacrificio nazionale.
La sua dichiarazione è in linea con un crescente numero di testimonianze raccolte da detenuti di Gaza rilasciati durante brevi pause nella guerra, testimonianze che descrivono la violenza sessuale non come un’aberrazione, ma come una politica.
All’ospedale Shuhada’a Al-Aqsa, il dottor Ezeddin Shaheen, specialista in terapia intensiva e anestesia, ha inaspettatamente iniziato a ricevere ex detenuti dopo l’inizio dell’attuale tregua.
“Dall’inizio della tregua, ho curato sei o sette pazienti che in seguito mi hanno detto di essere stati violentati dagli israeliani”, ha dichiarato a Quds News Network. “Non venivano da me per cure legate allo stupro; venivano per altri problemi medici. Ho ricevuto questo numero anche se non sono specializzato nel trattamento di detenuti rilasciati. Ma durante la visita, la verità è emersa”.
Ha anche documentato ferite causate da cani, bastoni di legno e, cosa orribile, da un trapano elettrico.
“Hanno usato un trapano sui loro corpi, mani e testa. C’erano dei buchi”.
Sottolinea che questa tortura è sistematica e non occasionale.
Il prigioniero rilasciato Khaldoun Barghouti ha descritto i primi giorni del genocidio nella prigione del Negev come una scena di nudità di massa, percosse di massa e cani che attaccavano i detenuti. Ha affermato che il ministro israeliano Itamar Ben-Gvir ha persino camminato sul petto e sulla testa dei prigionieri nudi.
“Lo stupro con bastoni di legno o di ferro è diventato comune”, ha detto.
Ben-Gvir si è poi vantato su X:
“Ho visto ciò che mi piaceva nella prigione del Negev”.
Lo psichiatra Dr. Alaa Al-Froukh, ex presidente dell’Associazione Psichiatrica Giordana, spiega che molti sopravvissuti non parlano immediatamente perché la tortura sessuale porta con sé un profondo stigma sociale e il trauma stesso innesca evitamento, flashback e dissociazione. Rivivere l’esperienza, anche a parole, può dare la sensazione di essere nuovamente aggrediti.
“Le vittime spesso la nascondono. Cercano di cancellarla dalla memoria. La vergogna non è loro, ma è la società a riversarla su di loro”, ha detto.
Avverte che quando tale tortura diventa sistematica, serve a un chiaro scopo: fornire una copertura istituzionale ai soldati che altrimenti potrebbero esitare.
“Una volta che diventa una politica”, ha detto, “trasforma ogni detenuto in un bersaglio.”