Lettera di Gigi dagli arresti domiciliari e appello alla solidarietà

“La cassiera del supermercato mi guarda, negli occhi.. e mi chiede come va.
Mi conosce, non bene, ma delle cose le sa.
Mi augura buona giornata e le sorrido perché la mia ora d’aria finisce lì.
Lo sa, sorride e mi dice “forza eh!”.
Lo stesso la signora incrociata tra gli scaffali.. “Siamo con te”….
È commovente l’affetto delle persone incrociate nel “tempo concesso” per poter fare la spesa e badare ad altre “funzioni essenziali”…
Come poi uno dovrebbe badare alle proprie “funzioni essenziali” non è dato sapere, visto che gli viene negata anche la possibilità di poter lavorare.
In questi giorni è uscito un bellissimo fumetto di Zerocalcare sulla vicenda di Tarek e consiglio a tutte e tutti di leggerlo.
Non parla “dell’eccezionalità” di una situazione, ma della sua “normalità”.
E la normalità, in questo caso, è quella di vite fagocitate dal sistema giustizia e vomitate nelle carceri e rinchiuse lì a “finirsi” come “eccedenze” delle nostre società.
Il vero problema è la “normalità” della struttura, così come funziona e va avanti.
E trita vita umane.
D’altronde essa non è altro che il riflesso più cruento della società “fuori”, atomizzata, sopraffatoria, tendente all’esclusione e antitetica ad ogni visione e condivisione comunitaria.
La mia, di situazione, invece vive una sorta di “eccezionalità”.
Se potessi non parlerei in prima persona (infatti mi rimarrebbe più facile parlarne in termini generali), ma a parte che è la realtà… e tanto è…
Inoltre, penso che ragionarne in questi termini risulti più comprensibile. E credo sia importante che quel che diciamo e facciamo, venga capito.
Dicevo, la mia situazione vive una sorta di “eccezionalità”.
A partire da vari aspetti:
Comunicati delle guardie e articoli di giornale che a caratteri cubitali dichiarano la “pericolosità sociale” del soggetto, prontamente smentiti dalle prese di posizione di larghe parti della popolazione e dall’affetto quotidiano delle persone con parole e gesti.
Per poi continuare con il “non isolamento” e “non dimenticanza”, che molto spesso invece vivono e subiscono le persone arrestate.
La mia non è una situazione di isolamento, sia fisica che ideale.
Sia per il luogo della pena non restrittivo come la situazione carceraria, sia per tutte le persone che ho attorno, a cui son grato.
Ma come detto, questa situazione è “l’eccezionalità”, a differenza di come il sistema carcere fagocita vite umane nel silenzio della “società civile”.
A tale situazione, la mia, hanno contribuito diversi fattori.
Tra questi, anche il fatto di non permettermi neanche di lavorare per “pericolosità sociale”.
Un palese ingiustizia, capita e sentita da molti, a maggior ragione se si tiene in considerazione il lavoro: l’apicoltura.
Anche inserita nel sociale.
Questa palese ingiustizia ha reso evidente la separazione che c è tra lo Stato e il suo apparato, da una parte, con il popolo (con tutto quello che vorrà dire…) e il suo sentimento, dall’altra.
Con buona pace di chi, in tutti questi decenni, ha tentato un goffo lavoro di recupero con la tiritera che lo Stato siamo noi!
E inoltre, la mia situazione, ha portato il discorso carcere/repressione all’evidenza di tutti/e.
Di una ragazza che ti guarda negli occhi ad una cassa, o di una signora che ti rincuora tra gli scaffali.
La normalità, invece, che avvolge il carcere/Repressione è quella del distacco, “a me non succede”, del timore, della diffidenza.
Credo invece che tale “eccezionalità”, la repressione sentita anche in società, sia una crepa e vada allargata, perlomeno narrativamente.
Che tale ingiustizia, infamia, sia talmente evidente da far emergere le contraddizioni, anche dialettiche e narrative, nella propaganda statale.
È un’occasione, tra le tante, che abbiamo di smontare la narrazione della controparte.
Però le crepe, si sa, poi si possono insinuare ovunque…
Allora come spiegare, a chi propaganda il carcere e il sistema repressivo, come “strumento di reinserimento sociale”, che ad un individuo viene negato anche il lavoro di apicoltore, per il semplice fatto che è un nemico di questo ordine costituito?
Perché la realtà dei fatti questa è!
Ed è ben compresa da tutte e tutti.
E tocca allargare questa dissonanza con la narrazione dominante, soprattutto quando è così lampante.
Per concludere, ho sempre pensato che le lotte avessero dei margini, non come confini, ma come possibilità.
E li avessero laddove sapevano trovare dei complici anche che “non avrebbero prestato giuramento alla mia bandiera”.
Che siano bisogni, sogni o tensioni simili. Anche del momento.
Fuori alle carceri, ad esempio, ai presidi, le detenuti e i detenuti riconoscevano le voci di chi sapeva che vuol dire stare in cella con questo caldo, non avere l’acqua, subire i trasferimenti, le angherie delle guardie, essere appesi alle domandine, vivere o meglio sopravvivere spossessati di tutto e separati dal contesto sociale.
Il “dentro” e il “fuori” si può superare anche così, capendosi, sentendosi complici.
La “normalità”, invece, ci mostra come il mostro carcere/repressione sia avulso da tutto (salvo alcune situazioni specifiche), immerso nel dimenticatoio e in quel buco nero che è la gabbia.
Parlarne è importante e fondamentale.
Ma è vitale saper trovare delle corde che leghino con il contesto “fuori”.
A questo può servire “l’eccezionalità”, ad esempio, della mia situazione.
E tale situazione, senza che ci giriamo troppo attorno, riguarda anche altre persone impegnate nelle lotte e, ahinoi, tenderà a riguardarci sempre più, visto l’acuirsi della repressione e dell’autoritarismo.
Quelle corde servono anche ad unire la “normalità” e “l’eccezionalità”.
Perché se delle crepe partono da quest’ultime, esse possono e devono arrivare ovunque.
Per demolire il mostro dell’oppressione.
Perché alla fine, non si so manco resi conto, lorsignori, che questa infame Repressione ha reso il più grande servigio alle idee che ho sempre cercato di portare avanti.
Le ha rese ancora più chiare, comprensibili e condivisibili a molti.
È vero, è un’eccezione quando si parla di Repressione… Molto spesso avvolta dalla paura e dal silenzio della “normalità”.
Spetta a noi fare in modo che le crepe della libertà, laddove si sono insinuate e sono riuscite a rompere il dominio, riescano ad espandersi ovunque. “