I segreti di una rivolta
di Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Lorenza Pleuteri e Fabio Tonacci
La Repubblica, 17 gennaio 2021
La storia taciuta delle violenze del marzo 2020 nelle carceri italiane alla vigilia e nei primi giorni del lockdown. Quando i detenuti di 21 penitenziari misero in atto proteste, saccheggi ed evasioni. Con il bilancio di tredici morti. Dimenticati.
Domenica 8 marzo 2020, il cielo di Modena promette pioggia. L’Italia si risveglia da una notte difficile. Che non dimenticherà. Circolano le bozze del drammatico decreto con cui il presidente del Consiglio si prepara a chiudere a tempo indeterminato il Paese per proteggerlo dalla prima ondata della pandemia Covid che ha cominciato a fare strage negli ospedali e nelle residenze per anziani. Tocca per prima alla Lombardia diventare zona rossa. Il resto dell’Italia la seguirà ad horas.
Alle 13.15, nella Casa circondariale “Sant’Anna”, il grande carcere modenese, scoppia una rivolta. E così cominciano le sessanta ore più difficili della storia penitenziaria italiana. Vengono divelti i cancelli, branditi gli estintori, smontati i letti per farne mazze di ferro, un centinaio di detenuti assale i poliziotti della penitenziaria distruggendo tutto quello che capita a tiro. Telecamere di sorveglianza comprese. Modena, però, non è né un fuoco isolato, né un fuoco di paglia. È la scintilla che innesca una polveriera. La rivolta che travolge il “Sant’Anna” ha avuto infatti un prologo il giorno prima, nel carcere di Salerno. Un’esplosione di violenza sedata la sera stessa del 7 marzo, con il ritorno all’ordine. E che ora, a Modena, riprende vigore. Diventa incontenibile. Si prende le galere di tutta Italia. Dalla Puglia alla Lombardia, da San Vittore a Rebibbia.
Alla fine, le carceri coinvolte saranno 21. Scontri, incendi, violenze, devastazioni, furti, evasioni di massa. Per un bilancio che conta 107 agenti feriti, 69 detenuti ricoverati in ospedale. E, soprattutto, tredici detenuti, tredici uomini che si trovavano nella custodia dello Stato, morti. Tre i deceduti a Rieti, uno a Bologna, cinque a Modena, altri quattro, trasferiti da Modena, e deceduti ad Alessandria, Parma, Verona e Ascoli. Si chiamavano Marco Boattini (40 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni), Hafedh Chouchane (37 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Slim Agrebi (40 anni), Ali Bakili (52 anni), Lofti Ben Mesmia (40 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Artur Iuzu (42 anni), Ghazi Hadidi (36 anni), Salvatore Cuono Piscitelli (40 anni). È una strage che si consuma all’interno e a ridosso delle mura di cinta delle carceri. Una rivolta collettiva che, nei numeri, fa impallidire anche quella rimasta nella storia e nell’immaginario del circuito penitenziario italiano. Quella che, 40 anni prima, il 28 dicembre 1980, ha messo a ferro e fuoco il carcere speciale di Trani.
Eppure, in quei giorni di fine inverno, in una sorta di nemesi simbolica, schiacciata come è dall’enormità dell’inedita esperienza collettiva della segregazione sanitaria, quella storia di carcerati che arriva dalle galere – quelle vere – si perde nelle cronache delle edizioni cartacee dei quotidiani, annega nei siti web, scivola in coda ai notiziari radiofonici. Quelle tredici morti vengono liquidate con la superficialità che si riserva a vicende che si ritiene non meritino domande, a maggior ragione se incrociano un’umanità di serie B quale viene considerata quella dei detenuti, e per le quali, dunque, la prima e più innocua delle spiegazioni è quella destinata a fare fede. “Erano tossicodipendenti in astinenza”, si dice. “Hanno assaltato le infermerie delle carceri e sono morti per overdose di farmaci”.
Per giorni, dei morti non si conoscono neanche i nomi. “Ciò che più mi sconvolge – osserva oggi Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti – è che questa strage, in tempi di Covid, sia stata considerata come un effetto collaterale.
I protagonisti
Tuttavia, in questi dieci mesi, qualcosa si è mosso. Qualcuno delle domande ha cominciato a farle. Diverse procure hanno aperto indagini e stanno ancora investigando. Francesco Basentini, l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si è dimesso, e al suo posto il ministro Alfonso Bonafede ha scelto il magistrato antimafia Bernardo Papalia. Si sono mobilitate le associazioni e gli attivisti che hanno a cuore il presente, e dunque il futuro, di chi è costretto in prigione. Quei 13 detenuti sono davvero morti tutti per overdose? A nessuno di loro poteva essere risparmiato quel destino? E se qualcuno ha sbagliato, chi? Chi ha taciuto e continua a tacere una parte di verità? Abbiamo deciso anche noi di riavvolgere il nastro tornando a quei giorni di marzo. Abbiamo fatto domande, raccolto testimonianze inedite, documenti ufficiali, tra cui i rapporti dei direttori degli istituti penitenziari inviati al Dap e alcuni atti d’indagine. Ne emergono una ricostruzione inedita, molte omissioni, e la cattiva coscienza di chi, da quasi un anno, continua a volgere altrove lo sguardo.
L’incipit
7 marzo 2020, ore 14.40, Casa circondariale “Antonio Caputo”, Salerno. La voce si era sparsa in un baleno. Rapida e incontrollata. Come sempre accade all’interno di un universo chiuso da mura di cinta quando la voce, la “notizia”, è potenzialmente capace di stravolgere la routine che scandisce il tempo e la vita dei reclusi. Il colloquio con i familiari, le visite, i permessi di uscita, i diritti. La faccenda, del resto, è enorme: pare che il governo stia per varare un decreto epocale, il cui impatto sulla vita degli italiani non ha precedenti dal dopoguerra ad oggi. E riguarderà anche le carceri. Forse. Dicono che per contenere il contagio da Covid-19 già fuori controllo, saranno eliminati i colloqui settimanali. Rita Romano, la direttrice del carcere di Salerno, una capienza ampiamente superata di 88 detenuti, ha convocato il comandante della polizia penitenziaria e il dirigente sanitario. I detenuti sono nervosi, vanno tranquillizzati. E anche con una qualche urgenza. Gli va spiegato che le misure restrittive sono dettate dalla straordinarietà della situazione. Che la stretta non riguarda la sola Salerno ma tutti gli istituti penitenziari del Paese. E che quella stretta, auspicabilmente, sarà temporanea.
Per questo, Romano ha deciso di procedere a una visita all’interno della struttura. Inizieranno dalla Prima sezione (la media sicurezza) al primo piano B. Sono le 14.40 di sabato 7 marzo. Lei e i collaboratori hanno appena cominciato a parlare con i detenuti della sezione, quando dal secondo piano arriva improvviso un boato, provocato dallo sbattere incessante e violento delle brande metalliche contro le porte blindate delle celle e i cancelli di sbarramento. È il segnale. Romano e il personale che la accompagna trovano di corsa riparo al piano superiore, nella zona dell’edificio che chiamano “la Rotonda”.
Lo spettacolo che si anima di fronte ai loro sguardi li atterrisce. Eccitati da urla belluine, uomini con il volto coperto da maglie e da scaldacollo, si sono armati con pezzi di ferro acuminati ricavati dalle brande e dalle gambe dei tavolini. Sciamano liberi fuori e dentro i settori di reclusione. Gli insorti hanno preso il controllo del piano dopo essersi impossessati delle chiavi che aprono i cancelli delle semisezioni A e B, rubandole a due poliziotti che adesso tengono in ostaggio. Hanno fracassato le telecamere di sorveglianza. Qualcuno ha divelto i cardini di un idrante antincendio e sta sparando acqua a due atmosfere di pressione su altri detenuti. A guidare la rivolta sono cinque italiani. “La colpa di tutto questo è dell’amministrazione penitenziaria!”, gridano alla direttrice. “I colloqui non si devono interrompere!”.
La polveriera
8 marzo 2020, ore 13.15, Casa circondariale “Sant’Anna”, Modena. La scintilla si accende in cortile dopo pranzo. E dopo che i telegiornali hanno spiegato all’Italia cosa la aspetta. Mentre gli ospiti in cerca di aria cominciano a uscire dal Nuovo padiglione, alcuni detenuti si arrampicano sui muraglioni e raggiungono il camminamento della ronda della vigilanza. È il segnale che altri attendono. Il tunnel di collegamento tra il reparto e l’edificio principale della casa circondariale, che sulla carta conta 366 posti, viene preso d’assalto. Scoppiano disordini nella Terza sezione, i vetri vengono frantumati a calci e bastonate, i ribelli afferrano gli estintori e li azionano contro i poliziotti, che arretrano fino alla piazza davanti alla portineria. Dove rischiano di essere accerchiati. Alle loro spalle, infatti, sta avanzando un gruppo che ha appena scavalcato i divisori dei cortili dei passeggi. Il comandante della penitenziaria allerta la centrale operativa e tutto il personale presente in caserma. Agenti e graduati fuori servizio vedono apparire con sgomento messaggi drammatici nelle chat WhatsApp di lavoro. Il comandante si precipita nei locali dell’armeria centrale, ne apre gli armadi con le sue chiavi, afferra fucili e pistole che distribuisce ai suoi uomini e alle sue donne. È in atto un tentativo di evasione, il carcere è preso d’assedio dal suo interno.
In tre – l’italiano Vincenzo Esposito Maiello, il tunisino Yassine Moutate e lo slavo Axel Mesarevic – guidano la rivolta, cui partecipano attivamente 98 carcerati. Il piano prevede di scavalcare il muro di cinta, ma servono armi per respingere le guardie. Il detenuto cui è affidata la custodia degli attrezzi per la manutenzione ordinaria del fabbricato ha aperto la porta ai rivoltosi, che hanno saccheggiato il deposito. Ora brandiscono martelli, mazze, cacciaviti, picconi, sassi, scalpelli, una mola elettrica. Hanno preso anche le scale di metallo per raggiungere la cima della recinzione esterna, ma alcuni colpi esplosi in aria li fanno desistere. Si spostano dunque tutti verso la porta carraia e la portineria. Pestando con i chiusini in ghisa riescono a superare la prima barriera, distruggendo i vetri delle porte di accesso pedonale. Tra la massa dei rivoltosi e la libertà c’è solo un ultimo diaframma: la porta carraia esterna. Che la Penitenziaria ha fortificato come l’ultima trincea, disponendo una barriera di macchine e mezzi blindati per contenere l’impatto. La visuale è offuscata dalla polvere degli estintori. A fatica, gli agenti respingono anche questo secondo assalto. Al terzo, però, capitolano.
Un manipolo di uomini che si è staccato dal grosso dei rivoltosi, ha raggiunto l’infermeria. Con loro c’è Lofti Ben Mesmia, il primo a entrare e a dare il via al saccheggio. Dopo aver distrutto le porte degli ambulatori, il passo per arrivare al deposito delle medicine è stato breve. Due infermiere che stanno preparando le dosi da distribuire ai pazienti per la terapia quotidiana fuggono nel terrore. Come in preda all’astinenza più spaventosa, i carcerati afferrano i grossi sacchi neri usati per la spazzatura, li riempiono di tutto il metadone e gli psicofarmaci che riescono a trovare e li trascinano fuori. È il vero bottino di questa giornata di rabbia e violenza. Qualcuno comincia a ingerire pastiglie mentre è ancora nell’infermeria, altri escono con mani e tasche piene di confezioni e flaconi di metadone condensato. Litigano e si spingono per la spartizione della roba. Sul terreno del campo sportivo interno si forma un bivacco, dove ci si droga e ci si imbottisce di psicofarmaci. La rabbia si diluisce nel metadone.
Relazione di servizio
20 maggio 2020. Relazione al provveditorato regionale di Bologna della direttrice del carcere di Modena, Maria Martone, sui fatti dell’8 marzo.
Vincenzo Esposito Maiello, nato il 24-8-1974 a Casalnuovo di Napoli
“Danneggia il box degli agenti nella Prima sezione del Vecchio padiglione, distrugge l’arredo della sezione stessa, poi per evadere dall’istituto insieme ad altri dotati di armi improprie (estintori, mazze di ferro, cacciavite, martelli, gambi di legno, liquidi infiammabili) danneggia la porta carraia interna e tenta di forzare la porta carraia esterna. Minaccia di morte e aggredisce il personale che lo respingeva. Successivamente appicca il fuoco a una cella e ai cassoni dell’immondizia. Lancia oggetti contundenti contro il personale e appicca il fuoco a un materasso nell’atrio prossimo alla portineria interna. Offende e minaccia di morte il personale della polizia penitenziaria. Assume farmaci sottratti all’area sanitaria”.
Erial Ahmadi, nato l’1-1-1983 a Casablanca (Marocco)
“Insieme ad altri soggetti danneggia la Settima sezione del Nuovo padiglione. Sottrae un quantitativo di beni e si introduce nel magazzino farmaci dell’area sanitaria, sottrae un cellulare dall’ufficio matricole”. Deceduto.
Slim Agrebi, nato il 21-5-1979 a Sfax (Tunisia)
“Danneggia il box degli agenti della Terza sezione. Malgrado gli inviti a desistere, minaccia gravi lesioni al personale. In possesso di armi improprie (estintori, bastoni, caditoie), approfittando del lancio di oggetti contundenti verso il personale, danneggia la porta carraia interna, si introduce all’interno incitando gli altri a un tentativo di evasione. Nella sua camera vengono rinvenuti beni e farmaci sottratti dall’ufficio della sorveglianza generale e all’area sanitaria. Dopo aver assunto imprecisati quantitativi di metadone con altri detenuti della sezione, perde conoscenza. Alcuni dei presenti tentano di rianimarlo, prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale della polizia penitenziaria”. Deceduto.
Lofti Ben Mesmia, nato il 17-10-1979 in Tunisia
“Saccheggia la farmacia riportando in sezione un consistente quantitativo di medicinali, insieme ad altri detenuti alcuni dei quali travisati”. Deceduto.
Hafedh Chouchane, nato il 9-1-1984 a Mahdia (Tunisia)
“Unitamente ad altri detenuti, dotati di cacciaviti e martelli, con l’intento di procurare lesioni al personale della penitenziaria che ne impediva l’evasione dal muro di cinta, in prossimità della garitta 4 lancia oggetti. In possesso di un flacone di metadone, partecipa a un’estesa e violenta rissa tra soggetti di origine tunisina e soggetti di altre nazionalità originata dall’ottenimento di farmaci. Dopo aver assunto quantitativi di metadone perde conoscenza. Altri detenuti tentano di rianimarlo prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale di polizia penitenziaria”. Deceduto.
Sasà
Ascoli, 10 marzo 2020. In morte di Salvatore Piscitelli, detto Sasà. Del carcere di Modena è rimasto poco. Diciamo pure quasi niente. Si contano i cadaveri. Cinque ragazzi non ce l’hanno fatta. Nei verbali di autopsia, la causa di morte è così riassunta: “Decesso riconducibile a edema polmonare acuto produttivo di insufficienza respiratoria acuta irreversibile”.
A provocarla, overdose di metadone e ingestione di psicofarmaci. “Benzodiazepine, alprazolam, diazepam e pregabalin, lorazepam, ddp, pregabalin, lprazolam, nordezepam”, annoteranno i medici legali dopo le analisi di laboratorio. Per nessuno si evidenziano, invece, tracce di intossicazione da fumo: eppure le celle bruciavano e loro non sono riusciti a scappare.
La rivolta ha reso il carcere “Inagibile”, certificano da Modena al Dipartimento centrale. “Possiamo ospitare pochissime persone”. Da Roma arriva l’ordine immediato di trasferire tutti, con poche eccezioni. In 471 partono per Porto Azzurro, Cagliari, Sassari, Cuneo, Trento, Vercelli, Belluno, Perugia, Rovigo, Sanremo, Genova, Ascoli, Terni, Parma, Reggio Emilia, Bollate. Tra loro c’era un uomo di 40 anni che sembrava un ragazzo. Si chiamava Salvatore Piscitelli. Per chi gli voleva bene, semplicemente Sasà. Di Sasà è infatti necessario parlare al passato. Perché non c’è più. Ha lasciato Modena da vivo, destinazione Ascoli. E dalla città marchigiana non è più tornato. A distanza di quasi un anno, non è ancora chiaro dove Sasà sia deceduto: in ospedale, dice la direttrice del carcere di Ascoli. In cella, giurano i suoi amici. In realtà sulla morte di Sasà tutto è ancora poco chiaro. Ecco perché la sua storia è forse il paradigma perfetto dei segreti che la sommossa ancora nasconde.
Salvatore Cuono Piscitelli era nato ad Acerra il 10 gennaio del 1980. Orfano dei genitori (a soli due mesi del padre, a undici anche della madre), viene cresciuto dalla nonna. È il più piccolo di quattro fratelli, un maschio e due sorelle che ora vivono lontani: una in Svizzera, l’altra a Saronno. L’incontro con la droga è precocissimo. E, da ragazzo, quale è, infila strade inevitabilmente e invariabilmente storte. Il suo certificato penale è l’autoscatto di un tossico. In prigione a Modena era entrato per il furto e l’uso di una carta di credito rubata. Sarebbe uscito il 17 agosto. Ma non è escluso che prima o poi ci sarebbe ritornato. Non era la prima volta, infatti che finiva dietro le sbarre. Era stato anche nel carcere di Bollate, a Milano. Dove però aveva scoperto qualcosa. Qualcosa di particolare, che aveva giurato di non voler lasciare mai più: il teatro. Sasà era un attore.
Era stata la galera a farlo salire per la prima volta su un palcoscenico. Ma aveva continuato a farlo anche da uomo libero, nella comunità Cascina Verde di Azzate, provincia di Varese. E nella casa Don Guanella di Barza d’Ispra, a pochi chilometri di distanza. Da qui Sergio Besi, uno dei dirigenti, racconta: “Sasà è arrivato da Bollate in affidamento in prova per motivi terapeutici a novembre 2017, caldeggiato da tutte le educatrici delle quali era la mascotte, nel senso buono. Era benvoluto da tutti. Si era inserito molto bene a livello lavorativo, era un ottimo lavapiatti. E le cose erano andate bene anche a livello di socializzazione, nonostante tutte le sue fragilità. Era un ragazzo che aveva le sue debolezze. Ma nello stesso tempo c’era bisogno di qualcuno che lo gestisse. Era un ragazzo di buon cuore ma molto fragile con alle spalle una vita e una famiglia estremamente sfortunata, di indole tutt’altro che criminale, un ragazzo che a mio modo di vedere avrebbe però trovato la sua dimensione sempre e solo in ambienti ‘protetti’. Con regole precise e staff qualificati: penso a psicologi, assistenti sociali. Ma penso anche alla protezione ‘materna’”. Besi ha ragione. Fuori dalla comunità Salvatore Piscitelli era di nuovo inciampato. E così era tornato in prigione, a Modena appunto. I report interni lo descrivono come un detenuto senza particolari problemi. Fino al giorno della rivolta.
L’ultimo viaggio
Il carcere di Modena è in fiamme. E Salvatore riesce a recuperare del metadone. Ne abusa. La situazione nella quale si trova non viene però notata da nessuno. Né dagli agenti, né dal personale sanitario. I documenti che Repubblica ha potuto consultare riportano infatti che Piscitelli, sedata la rivolta, viene fatto salire con altre persone su una camionetta. La direzione che il furgone della Penitenziaria prende è quella dell’istituto di pena di Ascoli. Da Modena giurano che al momento di lasciare il “Sant’Anna” Sasà sia in buone condizioni. O per lo meno non manifesti alcun problema che possa sconsigliare il lungo viaggio verso le Marche. “Sono tutti stati visitati da un medico”, diranno poi al Dap e al ministero della Giustizia. Ma è una bugia. O, almeno, questo indicano una serie di circostanze. Innanzitutto i numeri, che non tornano. Quanti sono i medici che hanno visitato i 471 detenuti? In quanto tempo l’hanno fatto? Cosa hanno potuto constatare? Ma ci sono poi le testimonianze raccolte fino a questo momento da un paio di giornalisti e dalla Procura. Assertive nel sostenere che quando parte da Modena Sasà è già in pessimo stato. E probabilmente ha bisogno di essere curato.
“Stava malissimo – scrive un detenuto nel suo italiano sgrammaticato in una lettera – ed è stato anche picchiato sull’autobus. Quando siamo arrivati ad Ascoli, non riusciva a camminare”. “Quando ci hanno scaricato – aggiunge un secondo detenuto, anche lui in una lettera in cui dice di temere ritorsioni per aver parlato – lo hanno trascinato fino alla cella. Lo hanno buttato dentro come un sacco di patate… Hanno picchiato di brutto. A Modena era troppo debole. Non è riuscito a resistere a quelle botte. Forse ha preso qualcosa. Solo Dio lo sa. Medicinali. Lui è morto a Ascoli Piceno”. Le testimonianze sono finite in uno dei tre fascicoli giudiziari aperti dalla procura di Modena. Un altro deriva da un lungo esposto presentato da cinque compagni di carcere di Salvatore, una denuncia consegnata alla procura generale di Ancona nel novembre scorso e trasmessa ai pm della cittadina emiliana. L’ipotesi di reato è omicidio colposo, al momento contro ignoti. Ma l’indagine potrebbe tornare di nuovo ad Ascoli, per una questione di competenza.
“Ci hanno pestato a sangue”
Raccontano i cinque compagni di detenzione di Sasà nelle loro quattro pagine di esposto: “Salvatore è arrivato ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmaci. Era stato brutalmente picchiato a Modena e durante il trasferimento. Non riusciva nemmeno a camminare e doveva essere sostenuto da altri detenuti”. Nessuno all’arrivo lo avrebbe visitato. Lui come gli altri circa 50 ragazzi trasferiti da Modena che, stando alla denuncia, sul corpo portavano i segni delle violenze: “Hanno picchiato con il manganello in faccia persone in palese stato di alterazione dovuta all’abuso di farmaci. Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente dopo esserci consegnati agli agenti. Ci hanno ammanettato e tolto le scarpe, non abbiamo opposto resistenza. Ci hanno minacciato, sputato, insultato e preso a manganellate, un vero pestaggio di massa”.
Caricati sui mezzi della penitenziaria per essere trasferiti, raccontano di essere stati di nuovo picchiati durante il viaggio verso Ascoli Piceno. All’arrivo, poi, ancora botte. E botte ancora la mattina seguente, quando “molti vengono presi a calci, pugni e manganellate all’interno delle celle”. All’opera – scrivono i cinque – “c’è un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria”.
“Mio fratello è al freddo e si sta ammalando. Subisce ritorsioni per aver denunciato le violenze” dice la sorella di uno dei cinque detenuti che hanno presentato un esposto per i pestaggi subiti nei penitenziari di Modena e Ascoli Piceno, dove è morto Sasà Piscitelli.
È una denuncia, va da sé. Potrebbe essere la verità. O, al contrario, una calunnia. Il racconto dei cinque non è avvalorato dagli esiti certificati dall’autopsia, che ha escluso segni di violenza sul corpo di Sasà. E tuttavia quel racconto combacia con le dichiarazioni di altri detenuti, trasferiti dal carcere di Modena. Si vedrà. Quello che per il momento resta sono due verità e troppe domande: Salvatore Piscitelli è morto. E con lui altri tre compagni di prigione che sono stati trasferiti da Modena dopo i fatti dell’8 marzo. Artur Iuzu nel carcere, o forse all’ospedale, di Parma. Abdellah Rouan ad Alessandria. Ghazi Hadidi durante il viaggio verso Trento, all’altezza di Verona, dove la scorta ha deciso di fare una sosta. Potevano viaggiare? Perché non sono stati portati in ospedale, come invece è successo per altri? Potevano essere salvati? È un fatto che nessuno potrà tornare a interrogare le spoglie di Sasà in cerca di risposte postume. Il suo corpo è stato cremato. Ai parenti è stato detto che era necessario a causa del Covid. La cerimonia funebre si è tenuta 4 luglio, nel cimitero di Saronno. C’erano i familiari e gli altri amici teatranti. Hanno messo Who wants to live forever dei Queen, per salutarlo.
Mistero a Rieti
9 marzo 2020, ore 14.30, Casa circondariale “Nuovo complesso” di Rieti. I cancelli di sbarramento delle nove sezioni detentive dell’istituto di pena di Rieti sono stati chiusi con quattro mandate, ma non è bastato. La furia per l’interruzione dei colloqui con i familiari dovuta al Dpcm con le misure anti-Covid deflagra alle 14.30. I detenuti dei reparti G1, G2 e G3 tirano fuori dalle stanze le brande e iniziano a sbattere i letti sui cancelli. Un gruppo di 80 rivoltosi fracassa gli impianti di videosorveglianza e le telecamere, sradica i termosifoni, saccheggia l’armadio della farmacia dell’infermeria. Gli insorti rubano e inghiottono metadone e psicofarmaci. In tre salgono sul terrazzo dell’edificio e, dall’alto, lanciano sassi e tutto quel che trovano. Sono gli stessi che intavolano una trattativa con la direzione dell’istituto, il “Nuovo complesso” (capienza: 295 posti). Che va avanti per ore. Fino alle 19. Poi i ribelli desistono, rientrano in cella. La rivolta è finita.
I danni materiali alla struttura sono importanti: le prime stime parlano di due milioni necessari solo per ripristinare l’arredo devastato. Il bilancio umano è drammatico. Tre detenuti – l’italiano Marco Boattini, il croato Ante Culic e l’ecuadoregno Carlo Samir Perez Alvarez – muoiono tra il 9 e il 10 marzo. Ufficialmente, per le complicanze dovute a overdose di metadone e altre sostanze trafugate dall’infermeria. Secondo un detenuto, Perez Alvarez è stato male durante la notte. Il compagno di cella ha chiesto aiuto per ore, ma nessuno è accorso. La circostanza è contenuta nella denuncia presentata dall’avvocata della famiglia Alvarez, Simonetta Galantucci. L’autopsia sul cadavere dell’ecuadoregno ha escluso segni di violenze sul corpo, ma le indagini per accertare le cause della morte di Perez, Culic e Boattini, condotte dalla Procura di Rieti, guidata da Lina Cusano, sono tuttora aperte. Così come le domande ancora sul tavolo: dopo la rivolta, e la razzia di medicinali e metadone, i tre detenuti sono stati mai visitati? Lo Stato, che li teneva in custodia, si è chiesto in che condizioni fisiche fossero?
“Archiviato”
Bologna, 13 luglio 2020, Palazzo di Giustizia. Fa un caldo impossibile, come può esserlo soltanto Bologna d’estate, quando la pm Manuela Cavallo deposita un provvedimento di due pagine. “Richiesta di archiviazione”, è scritto nell’intestazione. “In data 11 marzo del 2020 veniva rinvenuto il corpo senza vita di Haitem Kedri all’interno di una cella della casa circondariale di Bologna”. Haitem è uno dei 13 morti della rivolta. Meglio, è l’ultimo dei 13. Ventinove anni e cinque o sei nomi diversi, tunisino, finisce in carcere a Bologna in attesa di un giudizio: le ultime due volte lo hanno arrestato per rapina e per spaccio, è uno dei tanti migranti sbarcati a Lampedusa nella primavera del 2011, fotosegnalati e colpiti da un decreto di espulsione non rispettato, superato dalla richiesta di asilo politico.
Non ha partecipato alla rivolta ma è morto lo stesso. Suicidato, forse. O comunque disperato. Riepiloga la sostituta procuratrice: “La ricostruzione dei fatti più plausibile – anche alla luce delle informazioni fornite dal compagno di cella e riscontrate dall’esame autoptico, nonché dal sopralluogo nella cella del detenuto – è che Haitem, già destinatario di farmaci per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere durante la rivolta dei detenuti dei due giorni antecedenti alla morte e che quest’ultima sia avvenuta per overdose”.
Gli esami tossicologici diranno che i singoli psicofarmaci e il metadone (alcuni previsti dalla terapia prescritta, altri procacciati da chi ha rubato) singolarmente non erano in dosaggi pericolosi. Fatale è stato il mix. Riassume la pm: “Dagli accertamenti svolti sulla salma non è emersa la responsabilità di terzi”. La morte è “stata causata dalla massiccia assunzione di farmaci e sostanze psicotrope in combinazioni e dosi letali. Sul corpo, infatti, non sono state rinvenute lesioni, né segni di contenzione”. Tutte le sostanze individuate nei liquidi prelevati dal cadavere di Kedri, altro passaggio testuale, “appartenevano alle tipologie di farmaci legittimamente presenti presso la struttura carceraria in quanto utilizzati per la cura di patologie ed il trattamento delle dipendenze”. Tradotto: Haitem ha ingoiato un miscuglio di farmaci. Ha voluto morire così, o forse è stato un incidente.
Raccontata così, tuttavia, la storia di Haitem, un po’ come quella di Sasà, è una storia sbagliata. E lo sa il garante dei detenuti, Mauro Palma, che a questa richiesta di archiviazione ha presentato opposizione. Oltre a ulteriori accertamenti su Lofti e Bakili, ha chiesto che il corpo di Haitem possa essere esaminato da un medico legale di sua fiducia, Cristina Cattaneo, professore ordinario a Milano, la più nota anatomopatologa italiana. “L’ho scelta – dice Palma – perché aveva uno spessore internazionale: a Lampedusa ha fatto uno straordinario lavoro per l’identificazione dei migranti morti in mare. E non sapevo, come mi hanno fatto notare, che era stata lei a firmare la prima perizia sul corpo di Stefano Cucchi. Quella in cui non ci si accorse del pestaggio”.
Haitem
Bologna, mattina dell’11 marzo 2020. Haitem non partecipa alla rivolta nel carcere di Bologna, iniziata la mattina del 9 marzo e conclusa il pomeriggio del 10. Lo scrive e poi lo fa mettere a verbale il suo compagno di cella. “Era strano, come un po’ ubriaco”. Gli chiede il perché e lui gli racconta che “durante la rivolta ha assunto farmaci”. Gli spiega che è stanco e che vuole dormire. E a lungo. La mattina dell’11 marzo, il compagno di cella sente russare e si rigira sulla branda, fino alle 10.30. Che sia a letto fino a tardi non è insolito. Capita di frequente. Alle 12.40 altri carcerati (mai identificati e dunque mai interrogati) si avvicinano per parlare con il ragazzo. Non risponde, però. Il compagno lo scuote per svegliarlo e si accorge che non respira più, dando un inutile allarme.
Soltanto in quel momento, a decesso avvenuto, la cella viene perquisita. E sotto il materasso del ragazzo morto saltano fuori 103 pasticche e 6 siringhe, una delle quali usata. Ma perché la stanza non è stata accuratamente controllata prima, sapendo che i detenuti ribelli avevano rubato e distribuito sostanze potenzialmente nocive? Perché la polizia penitenziaria è arrivata dopo? E i medici non hanno fatto il giro, post rivolta? “Il carcere – spiega Domenico Maldarizzi, dirigente nazionale della Uilpa, sigla sindacale della polizia penitenziaria – non era in una situazione ordinaria. Chi non c’era non può capire. Era devastato, inagibile, terremotato. Mancava la luce, l’acqua allagava i reparti. Abbiamo passato due giorni drammatici. Siamo riusciti a portare via il metadone prima del peggio. Non è stato possibile raggiungere tutte le celle. Le priorità erano altre. La rivolta era finita da poche ore, andavano disposti e organizzati i trasferimenti d’urgenza”. Tra agenti e detenuti si sono contate 22 persone contuse o ferite, 16 medicate in loco e 6 portate in ospedale. Insomma, non ci sarebbe stato il tempo per perquisire cella per cella e per recuperare tutti farmaci sottratti e non ancora consumati. Fatto sta che Kedri è morto. Nel suo diario clinico risulta indicato che era a rischio medio di suicidio e prendeva metadone e farmaci. Dopo la rivolta, sebbene fosse un soggetto da tenere monitorato, non è stato visitato. Dalla cella aveva più volte chiesto di cercare la fidanzata, che fa la badante e vive a Reggio Emilia. Avrebbe voluto che lo andasse a trovare per un colloquio. Non si è mai presentata.
Il ministro
Roma, ministero della Giustizia, ottobre 2020. “Atti criminali”. Sono le prime parole che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede pronuncia l’11 di marzo mentre le carceri italiane vanno in fumo, gli uomini muoiono e il Paese si chiude in lockdown. Un modo come un altro per liquidare la faccenda, pur nella sua gravità, confinandola in un’esplosione improvvisa di rabbia e assolvere la struttura carceraria prima ancora di cominciare a fare qualche domanda e ottenere qualche risposta. E tuttavia, una fonte di via Arenula racconta a Repubblica che qualcosa comincia a cambiare a metà aprile. “Sul nostro tavolo – spiega – arrivano i primi report dettagliati, inviati da amministrazioni e referenti territoriali. E ci si rende conto che qualcosa, evidentemente, non ha funzionato”. Cosa? “Le vittime sono tantissime, non si è stati in grado di intercettare i malumori, dare rassicurazioni. E intervenire”.
Questo qualcosa, in realtà, ha un nome e cognome: si chiama Francesco Basentini. È un magistrato lucano scelto da Bonafede nel giugno 2018 per il delicatissimo ruolo di numero uno del Dap. È stato preferito a Nino Di Matteo, il pm antimafia di Palermo, oggi alla Direzione nazionale a Roma. Basentini tra marzo e aprile è al centro di polemiche feroci: il suo ufficio ha firmato un provvedimento che, in nome dell’emergenza Coronavirus, ha l’obiettivo di decongestionare gli istituti di pena. E che quindi apre alle misure alternative, detenzione domiciliare soprattutto, anche per chi ha condanne e imputazioni per mafia o per reati collegati alla criminalità organizzata. Si tratta di un atto non concordato con la Dna. Fa infuriare il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho. E ha un effetto devastante sull’opinione pubblica. Di più: al ministero si consolida la certezza che troppe cose, nella prevenzione e nella gestione delle rivolte carcerarie, non hanno funzionato. Ci sono i morti. E c’è l’incredibile caso del penitenziario di Foggia, dove in 440 su 614 provano a evadere: riuscendovi in 77. Tra i fuggitivi, si contano assassini ed esponenti della mafia locale. L’ultimo verrà riacciuffato soltanto a luglio. Ma a Foggia nulla accade per coincidenza o per sbaglio. E nemmeno quell’evasione, “con i detenuti nelle retrovie che gridavano e incitavano gli altri a interrompere ogni forma di dialogo con la Penitenziaria”, avviene per caso: i magistrati sono convinti che dietro ci sia una regia criminale. E questo preoccupa molto Roma. Gli uffici giudiziari. E anche il palazzo della Politica.
Dove cominciano, tra l’altro, ad arrivare anche altri tipi di messaggi. Chiari. Gli amici di Sasà hanno preso coraggio e inviato il lungo esposto. Le Procura di mezza Italia stanno indagando sui decessi e, più in generale, sulle rivolte. Le autopsie raccontano che sono morti di overdose, è vero. Ma c’è il fondato sospetto delle violenze. Di pestaggi sistematici. E, soprattutto, delle responsabilità degli istituti: i medici legali parlano chiaramente di abusi di droghe (metadone) e psicofarmaci. Erano ben custoditi? Sono stati messi in sicurezza in tutte le galere, appena si è saputo dei cadaveri contati a Modena e dell’assalto alle scorte? I detenuti sono stati visitati, come è d’obbligo in caso di trasferimenti, all’arrivo in un carcere e dopo azioni in cui la Polizia penitenziaria abbia fatto uso della forza? In sintesi e di nuovo: la strage era evitabile? La congiura del silenzio ormai è stata spezzata.
Si iniziano a raccogliere i frutti di mesi di impegno del Comitato legato a dirittiglobali.it, di blog come giustiziami.it, dei volontari che operano in carcere, dei movimenti, di parenti a lungo inascoltati e di pochi parlamentari firmatari di interrogazioni, alcune delle quali rimaste senza riposta. “Ritengo che tutte queste morti e gli atti di ribellione e protesta si potevano e si dovevano evitare”, dice il garante Mauro Palma. “La rivolta parte da una componente psicologica. Dalla paura di essere improvvisamente privati dei colloqui prima fossero garantite le video chiamate. È il terrore della gabbia. Ora dunque dobbiamo approfondire la mancanza di cure, se c’è stata, e non lasciare alcuna ombra su quanto accaduto. È possibile che siano stati commessi degli errori di comunicazione da parte dei provveditorati, che non sia stato spiegato bene ai detenuti che i loro affetti sarebbero stati comunque tutelati”. Al ministero alcuni ex detenuti hanno spedito una locandina teatrale. Che ricorda uno spettacolo del luglio del 2019. Al teatro Argentina di Roma andava in scena una rappresentazione di avanguardia. La regia era di Michelina Capato Sartore. Sul palco c’era un attore che di nome faceva Salvatore Piscitelli, Sasà. E il titolo dell’opera, a suo modo, era una premonizione prima ancora che un’epigrafe: “Che ne resta di noi?”.