A ferragosto gli altri anni si andava quasi sempre fuori al carcere. Anche quando non si poteva tanto farlo, perché restrizioni varie e Repressione avrebbero impedito persino un saluto alle persone detenute.
Ferragosto è come altri periodi dell’anno per le/i detenuti. Solo peggio.
Peggio come altri periodi dell’anno che sono di festa, natale, capodanno, e per chi è recluso si acuisce tutto: l’isolamento, la separazione, il tempo perso, la vita persa.
La vita, che in certi periodi dell’anno, scorre diversa rispetto alla normale routine e senti ancor di più quello che stai perdendo, da reclusa/o.
Nel carcere di Teramo una parte della struttura volge lo sguardo verso la montagna, il Gran Sasso. L’altra verso le colline e il mare.
In estate, soprattutto a ferragosto, il cielo si illumina di fuochi d’artificio, più o meno lontani, come segnali di fumo della vita in festa.
Vista però dagli occhi della vita privata, dietro le sbarre.
A ferragosto si andava soprattutto per questo, fuori al carcere.
Per far sentire, anche un minimo, meno lancinante, quella separazione.
Soprattutto quel giorno.
E le persone detenute ringraziavano, da dentro il bollore estivo del mostro di ferro e cemento, per quel gesto, anche minimo.
Però quel momento rimaneva essenzialmente “nostro”, dei solidali fuori e dei reclusi dentro.
Non toccava il mondo esterno, salvo la passerella di qualche politico quel giorno, utile a fini mediatici.
D’altronde il carcere è il riflesso della società… E una società totalmente atomizzata e anestetizzata dal potere e dal controllo, può mai interessarsi dei carcerati?
Una società che vede compiersi sotto agli occhi genocidi e ecatombi in mare, e non riesce a mettere un freno a tale abominio, può mai interessarsi a chi neanche vede?
E sente?
A chi viene “rimosso” dal vivere collettivo?
Invisibilizzato/a.
Non è un caso che a tale processo di esclusione e rimozione, abbia contribuito negli ultimi decenni, l’edilizia carceraria, improntata anche a spostare le galere dalle città in luoghi più isolati.
E i vari governi, a maggior ragione l’attuale, continuano su quel solco, scavandolo sempre più.
Io personalmente, isolamento e oppressione, sia per quel che son stato in carcere le volte passate, sia adesso ai domiciliari, se l’ho avvertite.. E le avverto tutt’ora! , è “solo” per la condizione detentiva e gli asfissianti controlli polizieschi.
Non certo per tutta la straordinaria e toccante rete di rapporti e solidarietà che si sta muovendo.
Non solo nei nostri giri di compagne e compagni.
Ma anche nella società, molto spesso, o quasi sempre, restia a tali questioni.
E ciò avviene per vari motivi, tra cui, parlando del campo nemico che è quello da sovvertire, per l’evidenza dell’ingiustizia compiuta.
Per l’evidenza dell’assurda narrazione sulla “pericolosità sociale”, che ha cercato di legittimare un’ingiustizia.
Ma non c’è riuscita, perlomeno narrativamente, a legittimarla.
Ed è già qualcosa.
Ma soprattutto, è un’occasione!
Un’occasione di poter parlare di Repressione e trovare diversi complici.
Essere capiti e condivisi.
E agire nei modi che ognuno/a ritiene più opportuno.
Spetta a chi è fuori, farlo.
In questo caso, come in mille altre situazioni in cui la narrazione dominante scricchiola, tocca lì inserirsi come una raminaccia che diffonde libertà.
Provarci almeno.
Ferragosto è un periodo orrendo per chi è recluso/a. Come gli altri periodi, certo.
Ma chi c’è passato, lo sa.
E ho pensato ai miei amici e ai miei compagni, e anche le persone che non conosco, che hanno una condizione detentiva peggiore della mia.
Agli schizzi d’acqua al mare che non gli sono arrivati e alle camminate nei boschi.
Ai pranzi e ai brindisi che non hanno fatto. Se non con altri carcerati.
E mentre lo pensavo, un amico, mi ricordava di quel ferragosto passato insieme fuori una fabbrica in lotta