A quasi otto anni dagli arresti per Scripta Manent, per la seconda volta la Corte di Cassazione, il 24 aprile 2024, si pronuncerà sul reato di “strage politica”, ex art. 285 c. p., nei confronti di Alfredo e miei, ultimo scampolo rimasto in sospeso del processo (i), dopo una giostra di rinvii, ricalcoli e magheggi repressivo-giurisprudenziali (ii).
Benché l’iterazione dell’errore anestetizzi all’orrore, e viviamo tempi di orrori multipli ostentati e anestesie totali, credo ci sia ancora qualche parola da spendere sul tentativo di annientamento in atto, sulle reazioni, riuscite e tentate. Non tanto perché ritenga questo possa esser utile alle nostre personali sorti ma per una forma di testardo “romanticismo” che ritiene silenzio e rassegnazione letali sempre ed a maggior ragione in un processo politico.
Non avendo alcuna inclinazione a rassegnarmi in silenzio alla somministrazione della “giustizia” (come avviene quotidianamente nelle patrie galere) e neppure a farmi limitare dalla logica della riduzione del danno (altro caposaldo della sopravvivenza tra galera e tribunali) ma spostando l’attenzione alle politiche repressive sottese a questo ed alla capacità effettiva di reazione, di creare momenti di lotta e rottura, di costruire argini, individuali e collettivi, alla tracotanza della repressione.
Ho parlato di errore ed orrore perché questo sono le politiche repressive nella loro essenza, errore ed orrore che si mescolano nello stravolgere completamente il portato teorico e pratico del nemico, seppellirlo vivo e/o costringerlo all’arroccamento della difesa preventiva e delle riserve indiane della “controcultura” e della ricerca di “indignazione democratica” (che pure questa ormai è poco più di una riserva indiana, con una soglia di sensibilità che è sempre più spesso una cotenna inscalfibile nei più), strategia che fiacca sul breve periodo la reattività dei compagni e delle compagne impastoiati, più di quanto credano, in un senso di ineluttabilità degli eventi ed impossibilità a costruir reazioni.
Sette anni fa pensavo fosse possibile gestire il processo Scripta Manent come ordinaria repressione, ribattendo dal punto di vista tecnico, punto per punto, sia sui singoli accadimenti che sull’intero costrutto associativo, vista la labilità palese del castello accusatorio. Un eccesso di ottimismo sulla volontà e strategie politiche in atto ed una miopia imperdonabile nel non evidenziare subito con maggior forza quello che stava passando. C’è stato “bisogno” di 41bis ed ergastolo che aleggiavano per far puntare occhi ed attenzione.
Lungi dal voler ricadere nella retorica dell’“errore giudiziario”, dell’eccesso, perché dal punto di vista giurisprudenziale e probatorio è stato proprio quello il dato da ammettere a denti stretti da alcuni media mainstream (altri hanno mantenuto la barra dritta sulla mostrificazione) che per giustificare l’anarchico in 41bis dovevano con un certo imbarazzo contestualizzare i fatti ed il personaggio, oltre che collocare il cuore dello Stato, la sua sicurezza – la cui messa in pericolo è proprio ciò che caratterizza la strage politica – in un paio di cassonetti esplosi alle 3 di notte sulle mura di cinta di una caserma, e a dover glissare con pari imbarazzo sulle altre falle della sceneggiatura offerta da DNAA e procura torinese.
Lungi dall’“errore giudiziario” perché questa è volontà precisa, con convergenze tra castelli di carte di questura e gabbie di cemento vista cemento: la componente episodica (la carriera del singolo birro o magistrato, i media sempre pronti a pompare il nuovo pericolo, la propaganda più becera) c’è ma confluisce in una macchina ben avviata che necessita sempre di nuove teste tagliate da esporre sui bastioni della legge e dell’ordine. Poi a volte la macchina si inceppa… ed è dovere ed orgoglio di ogni antiautoritario farla inceppare.
In questi anni di galera e processi ho avuto modo di sperimentare in vivo una serie di forzature logiche e giuridiche che non pensavo potesse esser possibile concentrare in un’operazione singola, rendendomi parimenti conto che è il modus operandi di prassi tra procure e tribunali nell’estensione della legislazione “speciale”, da “emergenziale” a “quotidiana”, di antimafia e antiterrorismo: non più eccezione, ma la consueta gestione che la DNAA applicava e applica ai processi alla cosiddetta criminalità organizzata ampliata agli anarchici e che la giustizia in generale applica a quei segmenti di opposizione sociale e non omologazione isolati e facilmente attaccabili che ancora esprimono, seppure in forma germinale, la necessità di riprendersi le piazze, la parola e la dignità di un’opposizione non negoziata. Un attacco sinergico – alimentato da un clima politico non di un semplice governo di destra ma equivalente negli ultimi governi “politici” o “tecnici” che volessero definirsi – contro le componenti non recuperabili ai fini elettorali: in un generale abbassamento dell’asticella del penalmente punibile e del parallelo innalzamento del mediaticamente mostrificabile, si possono leggere le strategie in atto e le resistenze da opporvi.
In questo senso credo sia chiaro lo scritto di Juan (iii) nel cogliere il positivo, se non la necessità di porvi argine, oltre alle dovute domande critiche ed autocritiche di movimento.
Sul costrutto giuridico: castelli di carte
Mostrificare il nemico, è quello che avviene, prassi non eccezionalità. Sicuramente in maniera più raffinata nel caso di processi politici, dove il nemico interno deve venir sterilizzato da qualsiasi empatia critica/comunicativa, ma avviene anche nella gestione dei processi ai mondi e sottomondi malavitosi dove i reati e la minaccia sono ingigantiti. In cui sono gli stessi “malcapitati” che prima vengono usati e si ingrassano un po’ grazie agli “onori” criminali tributati dalle cronache giornalistiche per poi venir triturati, compostati e distrutti nel circuito carcerario: spacciatori di strada trasformati in boss malavitosi, in una commedia delle parti in cui vittime e carnefici si mescolano, tutti proni al dio denaro.
Negli ultimi anni l’ombrello della “lotta alla mafia” è diventato il paravento utile a coprire un contesto in cui le collusioni tra politica istituzionale e interessi economici gestiti con la manovalanza illegale sono la prassi, ed è altrettanto una prassi buttare via la manovalanza esausta. Su questo si è innestato l’allargamento della DNA a DNAA, con l’applicazione di strategie simili e di simili circuiti carcerari. Poco importa che i numeri effettivi dei prigionieri per reati classificati di terrorismo siano infinitesimali, la grancassa mediatica ha pompato comunque il nuovo claim “mafiosi e terroristi” da contenere in gabbie speciali.
Sui circuiti detentivi: gabbie di cemento vista cemento
Il contesto mediatico è funzionale a creare un meccanismo di silenzio/assenso rispetto a veline di Stato e di governo, fino a quando non si riesce ad opporre/imporre una narrazione diversa. I mezzi che abbiamo spesso sono in dosi omeopatiche rispetto alla potenza di fuoco mediatica del nemico, ma a volte efficaci.
Lo abbiamo sperimentato durante la lotta per liberare Alfredo dal 41bis. Lotta persa sull’obiettivo specifico, dove c’è stata sì una parziale “vittoria morale”, nel senso che si è rotto il muro del silenzio rispetto ad un circuito di tortura “bianca” in Italia, aprendo pure delle crepe sulla mostrificazione del nemico e sulla stretta repressiva sugli anarchici, ma il dato di fatto è che Alfredo è ancora ostaggio di quelle gabbie, a Bancali. Insomma è una lotta ancora aperta. E c’è da ragionarci su.
In seguito allo sciopero della fame prolungatosi alle soglie della morte, ad una mobilitazione vasta, non solo di area anarchica e preceduta da una netta presa di posizione pubblica di diversi avvocati (iv) che ha fornito un input anche alle aree di movimento più intimorite ad esporsi, si è verificato un cortocircuito informativo che qualche risultato ha dato, benché i tentativi di recupero più beceri per restaurare il mostro troppo umanizzato non si siano fatti attendere. Nella miglior tradizione giornalistica prima di creazione del personaggio e poi della sua scarnificazione e smembramento. Parziale, non tutto è recuperabile per quanto sia un procedimento faticoso opporvisi.
A distanza di qualche mese c’è stato pure qualche tentativo giornalistico/editoriale di storicizzare fatti ed idee in forma più onesta benché lavorando sempre sulla falsariga delle carte di polizia (che gli storici e cronachisti di professione hanno il vizio di considerare fonte certa, quando a volte queste lo sono in base a meri dati sugli eventi, a volte in quanto anche questi sono parzializzati o forzati, ma poi si affonda nell’abisso del travisamento funzionale di biografie, idee, citazioni, pensiero politico). Per cui anche in questi casi alla forza di un’istanza di lotta collettiva ed individuale si sostituisce un personaggio, l’eroe singolo e testardo, che alla fine fa comodo per liquidare il suo portato ideale e pratico, vendendo per romanticismo quella che è una lucida lettura, benché amara, senza sconti, della realtà.
Tra castelli di carte e gabbie di cemento: variabili e costanti della strategia repressiva
Un cambio di passo con Scripta Manent c’è stato sia sull’uso dei reati che dei circuiti detentivi. O meglio, ci sono state negli ultimi anni diverse accelerazioni, con una serie di procedimenti contro l’area anarchica ed antagonista, di cui le condanne draconiane nei processi Scripta Manent e nei confronti di Juan in primo grado a 28 anni sono state l’esempio più eclatante, con la concomitante cappa del 41bis fatta scendere a cavallo di questi. Il reato di “strage politica” – un reato-monstre che solo a pronunciarlo fa cadere l’interlocutore in un pozzo nero di indiscriminato terrore – associato al 41bis – il girone infernale dei supercattivi – probabilmente dovevano servire ad annullare qualsiasi tipo di reazione. Inoltre il cambio di passo con la condanna per 270bis, associazione sovversiva per la FAI, apriva agli anarchici la “fruizione” del reato associativo con la relativa lettura stravolta delle relazioni umane e della solidarietà tra compagne e compagni.
Mi spiego: da anni m’è capitato di scontrarmi, assieme a molte/i compagne e compagni, con il tentativo di svariate procure italiche, da sole o con comunione d’intenti repressivi, di appiopparmi il reato associativo assieme ad altri anarchici, ad iniziare dal processo Marini e via via con operazioni che partivano dai giornali anarchici, usavano qualche azione come reato scopo ed imbastivano la quasi stagionale operazione. Con Scripta Manent è passato come precedente giudiziario il reato associativo con finalità di terrorismo. Poco importa a questi fini che Scripta Manent, dopo gli esordi da mega inchiesta, sia riuscita ad appiopparlo – con un raffazzonatissimo sistema “insiemistico” di associazioni a scatole cinesi di attori inconsapevoli e soprattutto inspiegata “struttura” (v) – solo ad Alfredo, Nicola e me… serve comunque da precedente per una serie di operazioni successive in cui non c’è neppure più lo sforzo di costruire una storia plausibile tra fatti, giornali… come in Scripta Scelera: basta il fatto di fare un giornale a far partire il reato associativo. È passata tout court la logica repressiva sui giornali anarchici se questi danno la parola ai compagni in carcere. L’abbassamento dell’asticella della punibilità lo si legge anche nell’“autoaddestramento”, che da reato inventato per reprimere l’attivismo e proselitismo sul web di area islamica in caso di singoli, ora passa a coprire anche l’attivismo antiautoritario, per quanto siano fenomeni con fini e mezzi antitetici. Vale e serve la suggestione del “lupo solitario” se l’imputato è da solo. Si usano poi a profusione reati di “pericolo presunto”, mostrificazioni preventive, per sorveglianze speciali distribuite a piene mani.
Un altro cambio di passo è stato il tentativo di applicare il 41bis all’area anarchica. Prima di quanto successo con Alfredo c’era stato il preliminare tentativo di creare a L’Aquila un’AS2 sotto gestione GOM con trattamento sovrapponibile al 41bis (in un allargamento di quanto già applicato a detenuti/e classificati islamici, prima a Badu ‘e Carros per le donne e a Rossano Calabro per gli uomini). Tentativo arginato con uno sciopero della fame congiunto di compagne e compagni all’epoca prigionieri in varie carceri e per differenti inchieste giudiziarie (vi). Senza dimenticare che il regime di 41bis è nato come sospensione speciale e temporanea, preceduto dall’articolo 90 che con misure simili negli anni ’80 rispose alle rivolte carcerarie, si è cristallizzato come “baluardo” antimafia per poi essere applicato ai prigionieri rivoluzionari comunisti con periodici rinnovi automatici, e rimane tuttora un deterrente e mezzo di pressione. Insomma: usi diversificati alla bisogna… succede sia per gli articoli del codice penale che per le gabbie di cemento.
Ora, per non ricadere nella mistica paralizzante di una macchina repressiva che tutto distrugge tra pene esemplari, desertificazione delle piazze e censura totale, bisogna pure dare un’occhiata alla capacità effettiva, che c’è stata e c’è, di non farsi mettere totalmente con le spalle al muro da questo. Anzi, in alcuni casi (e con costi non indifferenti o con la leggerezza della ragione che sia) si è riusciti a ribaltare la narrazione imposta ed a costruire qualcosa di nuovo. Anche in un’inaspettata convergenza di attenzione ed intenti che potenzialmente c’è stata e probabilmente si è spenta troppo velocemente in quell’incostanza che non è prerogativa solo dei movimenti ma costume diffuso.
Certo non sono tempi di praterie in fiamme ma neppure solo di pompieri e rassegnati. C’è una componente che resiste e persiste, ma subisce un po’ troppo di frequente la stanchezza costituzionale di pensar di passare la vita a combattere contro i mulini a vento, quando i venti so’ pure contrari!
Non credo negli eroi né nei superuomini ma nella coscienza che donne e uomini debbano costruirsi, che la lotta non è gratis, implica contraccolpi e cadute, resistenze ed ondivaghe botte d’autostima. E che ne valga la pena, sempre e comunque, per la qualità dei rapporti che si costruiscono, non di sopravvivenza ideale ma di vita quanto mai reale.
Anna Beniamino
Rebibbia, marzo 2024
Note:
i. Vedi: https://ilrovescio.info/2022/11/07/scripta-manent-appunto/
ii. Se serve… un breve riassunto:
– L’appello del 2020 aveva confermato le condanne per 422 c. p. (strage “comune”) – benché il GIP l’avesse già riqualificata in 280 c. p. – per Alfredo e me e le condanne per 270 bis, riducendo le dimensioni dell’associazione sovversiva e liberando 2 compagni dall’accusa di partecipazione che era passata in primo grado. Altra contraddizione tra le due sentenze è quella relativa all’istigazione a delinquere a mezzo riviste e blog, caduta in primo e riconosciuta in secondo grado per 13 compagni e compagne. Tra la strage e i vari reati in continuato il secondo grado condannava Alfredo a 20 anni e me a 16 anni e 6 mesi.
– La Cassazione del luglio 2022 ha riqualificato direttamente (senza rimandare in appello) il 422 c. p. in 285 c. p. (strage “politica”) in quanto a titolo di reato, lasciando ai giudici d’appello bis cinicamente l’onere del ricalcolo della pena, che, essendo il 285 c. p. un reato a pena fissa, sarebbero state ergastolo e 30 anni.
– All’udienza d’appello bis del dicembre 2022 (a cui ci presentammo, con Alfredo, in sciopero della fame contro il 41 bis ed ergastolo ostativo) furono accolte alcune delle questioni poste dalla difesa, in particolare quelle sulla mancata applicazione delle attenuanti ad Alfredo, rimandando il quesito in Corte Costituzionale che nel maggio 2022 ha risposto positivamente.
– Nell’udienza d’appello del giugno 2022, a seguito delle indicazioni della Corte Costituzionale, le condanne sono state quantificate in 23 anni per Alfredo e 17 anni e 9 mesi per me.
– La procura torinese è ricorsa in Cassazione contro la concessione ad entrambi del 311 c. p. (lieve entità del fatto) e contro la prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva concessa ad Alfredo. Le difese hanno fatto ricorso sollevando nuovamente una questione costituzionale rispetto alla pena fissa.
iii. https://ilrovescio.info/wp-content/uploads/2024/01/considerazioni-juan.pdf
v. La stessa sentenza di Cassazione del luglio 2022, dopo anni ed anni di processo, liquida l’associazione con poche righe che non tentano neppure di giustificare lo schema, che diventa autoportante, per cui Alfredo, Nicola ed io saremmo “associati di lunga data che hanno rivestito posizione apicale nella FAI”, senza spiegare da nessuna parte su cosa si basi quest’affermazione assiomatica. Ammettendo in maniera manifesta le “immanenti problematiche” ad “identificare, sulla base di evidenze che hanno assunto le più disparate morfologie, nei differenti coefficienti di intensità indiziaria scrutinati, una cellula eversiva strutturata attorno a 3 nuclei soggettivi, affasciati da scopi comuni, comuni risorse, comuni idealità, metodi replicati, conoscenze condivise, solidarietà manifestate […]”. Cioè, detto in termini più grezzi: sono una cellula eversiva perché sono anarchici che si conoscono da tempo. Punto. L’idea anarchica è il collante, la sostanza dell’associazione.
vi. Queste le parole con cui iniziò lo sciopero nel maggio del 2019:
“Ci troviamo da quasi due mesi rinchiuse nella sezione AS2 femminile de L’Aquila, ormai sono note, qui e fuori, le condizioni detentive frutto di un regolamento in odore di 41bis ammorbidito.
Siamo convinte che nessun miglioramento possa e voglia essere richiesto, non solo per questioni oggettive e strutturali della sezione gialla (ex-41bis): l’intero carcere è destinato quasi esclusivamente al regime 41bis, per cui allargare di un poco le maglie del regolamento di sezione ci pare di cattivo gusto e impraticabile, date le ancor più pesanti condizioni subite a pochi passi da qui, non possiamo non pensare a quante e quanti si battono da anni accumulando rapporti e processi penali. A questo si aggiunge il maldestro tentativo del DAP di far quadrare i conti istituendo una sezione mista anarco-islamica, che si è concretizzato in un ulteriore divieto di incontro nella sezione stessa, con un isolamento che perdura.
Esistono condizioni di carcerazione, comune o speciale, ancora peggiori di quelle aquilane. Questo non è un buon motivo per non opporci a ciò che impongono qui.
Noi di questo pane non ne mangeremo più: il 29 maggio iniziamo uno sciopero della fame chiedendo il trasferimento da questo carcere e la chiusura di questa sezione infame. Silvia e Anna”.
[Ricevuto via e-mail e pubblicato in https://lanemesi.noblogs.org/post/2024/04/07/anna-beniamino-la-giostra-della-repressione/]