In Italia sono dieci le strutture adibite a CPR, ovvero Centri di Permanenza per il Rimpatrio, nelle quali viene messa in atto la misura di detenzione amministrativa. In sostanza persone che non hanno commesso alcun reato, se non quello di aver superato i confini italiani senza documenti, vengono private della propria libertà personale e chiuse in vere e proprie prigioni in attesa di essere rimpatriati nei loro Paesi di origine.
di Valeria Casolaro
In Italia i CPR si trovano a Torino, Milano (riaperto a ottobre 2020), Bari, Brindisi, Isonzo, Macomer, Gradisca d’Isonzo, Roma, Caltanissetta, Palazzo San Gervasio e Trapani. Nonostante si tratti di centri di detenzione veri e propri, non è lo Stato a farsi carico della loro gestione, ma cooperative e in alcuni casi società multinazionali, che hanno trasformato la detenzione amministrativa in un vero e proprio business, i cui costi sono sostenuti dalla società tramite la leva fiscale.
Un business da 44 milioni di euro
Il rapporto Buchi Neri – La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) realizzato da CILD, la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili, spiega come ammonti a 44 milioni di euro la spesa sostenuta tra il 2018 e il 2021 dai soggetti privati che gestiscono le 10 strutture al momento attive in Italia e situate nelle città di Torino, Milano, Gradisca d’Isonzo, Roma, Macomer, Palazzo San Gervasio, Brindisi, Bari, Trapani e Caltanissetta. Una spesa ingente se si considera che la media di persone detenute si aggira intorno ai 400 individui, per i quali la spesa giornaliera va quindi stimata intorno ai 40.150 euro. A questi vanno aggiunti i costi di gestione delle strutture e del personale di polizia destinato alla sorveglianza.
In questo modo lo Stato minimizza i costi e le imprese e le cooperative ne traggono il massimo profitto. “Nel mezzo”, si legge nel report, “vi sono centinaia di persone trattenute in delle strutture che non rispettano, in molti casi, neanche gli standard dettati dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura”. La minimizzazione dei costi, imposta da un sistema di detenzione di matrice liberista, passa per i tagli ai servizi fondamentali per i soggetti detenuti, quali la presenza operatori notturni, psicologo, dei mediatori e del personale sanitario.
Se il liberismo entra nei modelli detentivi
La situazione di degrado e abbandono nel quale si trovano i detenuti nei CPR tocca tutti gli aspetti della vita quotidiana (anche se non in tutti i centri sono presenti gli stessi elementi di criticità): le stanze adibite al pernottamento sono spesso sovraffollate e piene di blatte, non vi sono i vetri alle finestre, i materassi sono ammuffiti e mancano i campanelli d’allarme. Le condizioni igieniche dei servizi sono disastrose e spesso i bagni non hanno le porte, anche quando collocati all’interno delle stanze. Spesso mancano i locali adibiti a mensa e non sono disponibili menu differenziati in base alla religione o alle esigenze dei migranti. A tutto ciò si va ad aggiungere la mancanza di luoghi ricreativi, di culto o dove praticare movimento fisico.
Le criticità che scaturiscono dalla gestione privata dei centri di detenzione, penale o amministrativa, sono note da tempo. L’affidamento della detenzione di vite umane a soggetti privati comporta necessariamente delle problematiche, che derivano nella quasi totalità dei casi dalle cattive pratiche. La tutela dei diritti, in questi casi, va ad appannaggio esclusivo del soggetto privato, che è libero di muoversi come meglio crede senza essere soggetto a uno stringente controllo. Una delle conseguenze più evidenti, nel caso dei CPR, è il prolungamento indefinito dei tempi di detenzione: se le disposizioni sono infatti che “lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario” e “con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità” per un massimo di “30 giorni, prorogabile fino a 90”, nella realtà dei fatti questi soggetti si trovano a rimanere rinchiusi nei CPR fino alla decorrenza massima dei termini, senza che i loro casi siano stati esaminati o aver avuto la possibilità di ritornare nel proprio Paese.
Il caso del CPR di Torino
Un caso particolarmente significativo è il CPR Brunelleschi di Torino, gestito dalla multinazionale Gepsa Italia. Gepsa Italia fa parte della società madre Engie Italia, che a sua volta appartiene a Engie Francia, in un gioco di scatole cinesi: si tratta di una multinazionale operante in diversi settori, in particolare l’energia sostenibile. Come si può leggere dal sito di Engie Italia, Gepsa si occupa di “gestione nell’ambito dei servizi per i migranti di CPR e CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria)”. Secondo quanto riportato dal report CILD, negli ultimi 10 anni Gepsa si è aggiudicata diversi appalti in Italia, come il CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto, il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Ponte Galeria e di Milano. Nel 2019 si è aggiudicata un bando di 51 milioni per la gestione dei Centri di accoglienza collettiva a Milano.
Nel 2021 il Comune di Torino ha pubblicato un nuovo bando per la gestione del CPR di corso Brunelleschi, dopo che Gepsa ha deciso di ritirarsi dalla scena. Le motivazioni addotte sarebbero gli eccessivi costi di gestione, divenuti insostenibili anche per una multinazionale come Gepsa. Impossibile non pensare, tuttavia, che le vicende giudiziarie seguite alla morte di Moussa Balde non abbiano influito sulla decisione della multinazionale. La relazione di quasi 20 pagine del Garante nazionale, redatta dopo una visita effettuata al centro in seguito al suicidio di Balde, ne ha evidenziato le principali criticità, a partire dall’inadeguatezza degli alloggiamenti delle persone, dell’assistenza sanitaria e della generale condizione di abbandono morale e istituzionale nella quale si trovano i migranti. Un intero settore del CPR, l’”Ospedaletto”, è stato chiuso a causa del “trattamento inumano e degradante” riscontrato all’interno ai danni dei migranti.
Punire i poveri
Lo sviluppo della logica securitaria e di contenimento che regge il gioco a cooperative e multinazionali dietro i CPR fa eco alla sempre minore presenza di interventi sociali volti all’integrazione dei soggetti. “Alla deliberata atrofia dello stato sociale corrisponde l’ipertrofia dello stato penale” scriveva negli anni ’90 il sociologo Loïc Wacquant analizzando il contesto americano, frase che ancora oggi suona più attuale che mai. Lo stato penale si infiltra nelle crepe lasciate aperte dallo stato sociale, mettendo in atto detenzioni arbitrarie e misure oppressive. Il capro espiatorio che giustifichi la necessità di una militarizzazione dello stato per garantire la sicurezza sono ancora una volta le classi sociali svantaggiate: la criminalizzazione della povertà è la chiave di volta dell’intera argomentazione. L’affidamento della detenzione al soggetto privato, che libera lo Stato dalle spese di gestione, crea così un settore economico redditizio che si incrosta sulla società e diviene impossibile da rimodellare.