Morto in cella, i famigliari: “Non è stato un suicidio”
Nel corso dell’autopsia sarebbe stata riscontrata nel sangue di un detenuto trovato morto in cella nell’aprile del 2020 l’alta concentrazione di un farmaco, pari all’assunzione di ben 48 pastiglie. Si trattava di un medicinale che l’uomo, che all’epoca della morte aveva 34 anni, non avrebbe avuto motivo di prendere e quindi di possedere. L’avvocato Ugo Fogliano per conto della famiglia si è opposto ieri alla richiesta di archiviazione del caso presentata dalla Procura. Le indagini erano state coordinate dal pm Federico Carrai, oggi trasferito in Lazio, che inizialmente aveva ipotizzato che la morte dell’uomo fosse dovuta a un omicidio preterintenzionale. In particolare l’attenzione si era focalizzata sull’infermiera che in quel periodo si occupava della distribuzione dei vari farmaci ai detenuti della casa circondariale. Nel corso dell’attività investigativa non sarebbero però stati trovati riscontri, tanto da convincere il magistrato ad archiviare l’episodio. Una decisione mai accettata dai familiari del ragazzo, che in quel periodo stava per essere trasferito in una struttura della Lombardia, regione in cui vive la sua famiglia, destinata a un reparto a tutela attenuata. Nonostante l’uomo avesse già sofferto di problemi psichiatrici i genitori ritengono che non avesse mai avuto la tendenza a gesti autolesionistici e quindi escludono che abbia ingerito un numero così elevato di pastiglie volontariamente, anche perché, ha ribadito ieri l’avvocato Fogliano davanti al gip, non avrebbe dovuto mai entrare in contatto con quel tipo di medicinali. La decisione se accettare l’opposizione e quindi riaprire di fatto il caso spetto ora al giudice Arianna Pisano, che si pronuncerà nei prossimi giorni.