Lo studente egiziano è “libero”, ma deve ancora fronteggiare due accuse e rischia 17 anni di carcere. Per questo oggi non può parlare di quello che gli è accaduto in prigione. Ma c’è chi lo fa per lui
«La speranza fa rimanere in vita». Patrick Zaki è libero dopo 668 giorni di prigionia e si trova nel salotto della sua casa di infanzia a Massoura. Dopo l’annuncio della sua scarcerazione lo studente egiziano ha passato la sua prima giornata in libertà con la sorella Marise, la fidanzata Reny e i genitori George e Hala. E ha parlato con i giornalisti italiani raccontando le sue ultime 48 ore: «Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato e hanno cominciato a prendermi le impronte – dice al Corriere della Sera -. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi volessero scarcerare. Ma poi ho capito che c’era una speranza. E la speranza è la cosa che ti fa rimanere in vita quando ti tolgono la libertà».
Cosa succede se Zaki parla
Repubblica spiega oggi che il primo febbraio dovrà tornare in aula per rispondere all’accusa di diffusione di notizie false e dannose per lo Stato. Rischia una pena di cinque anni. In più c’è una seconda accusa sospesa, quella di associazione terroristica. In questo caso si rischiano fino a 12 anni. La speranza è che la seconda accusa cada e che per la prima venga comminata una pena pari o inferiore ai 22 mesi scontati nel carcere di Tora a sud del Cairo. In questo modo l’Egitto potrebbe salvare la faccia e Zaki potrebbe tornare in Italia. Ma affinché questo accada è necessario che l’accusato tenga un profilo basso e che le diplomazie lavorino sottotraccia come è accaduto finora. Per questo nelle interviste rilasciate oggi lo studente egiziano parla pochissimo delle accuse nei suoi confronti e di quello che gli è accaduto in carcere.
«Grazie. Grazie ai tutti gli italiani, ai partiti politici che hanno preso a cuore il mio caso. E prima di tutto, Bologna: grazie. Bologna è la mia città, la mia università, la mia alma mater. Tornerò il prima possibile, perché lì c’è la mia gente. Grazie a Amnesty International, a Riccardo Noury a tutto il suo gruppo», dice solo oggi. E aggiunge che con l’italiano se la cava ancora «non troppo bene. Dico solo qualche parola. Allora… Insomma… Parlo italiano così così. Prometto che dalla prossima settimana mi rimetterò a studiare perché quando torno voglio parlare bene». Però racconta che in carcere ha letto Dostoevskij, Saramago ed Elena Ferrante: «È bellissima – dice – la migliore letteratura italiana che ho mai letto. Non vedo l’ora di andare a Napoli, io adoro Napoli». Anche perché la sua bisnonna Adel veniva da quella città.
Le mani da stringere in Italia
Zaki sa che l’Italia si è adoperata per tirarlo fuori dal carcere: «Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di persone a cui dovrò stringere la mano». Anche Liliana Segre, che ha votato per dargli la cittadinanza italiana al Senato: «Mi ha riempito d’orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che ciò avvenga quanto prima». Patrick Zaki è stato arrestato il 7 febbraio del 2020, appena sceso dall’aereo che lo riportava in Egitto dall’Italia. L’accusa punta il dito su un articolo pubblicato nel 2019 in cui parla delle persecuzioni patite della minoranza dei cristiani copti nel suo Paese. Non si sa ancora se può lasciare l’Egitto.
La sua legale, Hoda Nasrallah, ha spiegato ieri all’Ansa: «Non possiamo conoscere se c’è un’interdizione a partire se prima non decide di viaggiare. Lo sapremo in aeroporto». Lui intanto ringrazia anche la professoressa Rita Monticelli, la sua mentore al master Gemma di Bologna: «Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto». Khaled Douad, giornalista e oppositore del regime di Al Sisi, è finito anche lui in carcere e lì ha incontrato Zaki. «Non stava bene ovviamente, chi starebbe bene lì dentro. Immaginate il vostro corpo perquisito regolarmente in ogni angolo e la rabbia di non poter esprimere la rabbia», dice oggi a La Stampa.
La prigione di Patrick
E ancora: «Lo immagino adesso coricarsi nel suo letto e lo ripenso in carcere: era meno fortunato di me, che, dividendo la cella con un paio di settantenni, avevo una branda di ferro su cui dormire. Lui e i suoi due compagni stendevano le coperte sul pavimento di 4 metri quadrati, un buco dentro cui c’era pure un piccolo bagno. Aveva però 2 ore d’aria e poteva leggere i giornali che a me erano preclusi. Diceva che lo aiutavano i libri, quelli che hanno salvato anche me. I testi politici sono proibiti nelle carceri egiziane ma i manuali di storia e i romanzi no, capita cosi di leggere Camus, Kafka, Arthur Miller. Basta che te li portino i famigliari, perché chi è in attesa di giudizio non può accedere alla biblioteca».