Argentina. Due uomini armati entrati in una comunità sottoposta a isolamento dalla governatrice aprono il fuoco: un morto e un ferito. Per le associazioni indigene la responsabilità è delle istituzioni, mentre prosegue il sit-in davanti al Congresso per il diritto alla terra
di Claudia Fanti
La brutale campagna anti-mapuche in corso nella provincia del Río Negro, nella Patagonia argentina, ha fatto la sua prima vittima: il giovane mapuche Elías Garay, assassinato domenica da due uomini armati che hanno fatto irruzione nella comunità Quemquetrew, impegnata in un processo di recupero delle sue terre ancestrali nella zona di Cuesta del Ternero.
L’aggressione, in cui è rimasto gravemente ferito anche un altro mapuche, Gonzalo Cabrera, segue di poco il violento sgombero ordinato il primo ottobre dalla governatrice Arabela Carreras, che ha pure disposto l’isolamento della comunità, impedendo l’arrivo degli alimenti.
Ed è stato proprio in un’area fortemente presidiata dalle forze di sicurezza, con tanto di droni e posti di blocco della polizia mirati a impedire qualsiasi ingresso nel territorio recuperato, che l’attacco è potuto misteriosamente avvenire. «Che siano apparse lì due persone armate non ha alcun senso», ha denunciato Orlando Carriqueo, dirigente della Coordinadora Mapuche Tehuelche, accusando il governo del Río Negro di voler occultare il crimine.
«Ripudiamo la repressione contro il popolo mapuche e condanniamo la morte del giovane Garay», ha dichiarato il premio Nobel e presidente del Servicio de Paz y Justicia (Serpaj) Adolfo Pérez Esquivel, che ha attribuito la responsabilità dell’assassinio alla governatrice Carreras, per il suo «rifiuto a dialogare» e la sua «opzione per la repressione».
E mentre sia la governatrice che il ministro della Sicurezza Aníbal Fernández scagionano la polizia, cercando di scaricare la colpa su due presunti cacciatori, a chiedere che si faccia chiarezza sull’omicidio sono le diverse organizzazioni indigene accampate da un mese davanti al Congresso per esigere che «si rispettino i diritti dei popoli originari al loro territorio e alla loro identità».
Così, il grido di giustizia per Elías Garay si è unito alla richiesta di una proroga della legge 26.160 di emergenza territoriale indigena, che proibisce lo sfratto forzato delle comunità fin quando non verranno ultimate le ricerche sul loro effettivo diritto all’occupazione e alla proprietà dei territori rivendicati.
Approvata nel 2006 durante la presidenza di Néstor Kirchner ma rimasta largamente inattuata malgrado le sue tre proroghe, la legge è decaduta martedì, in seguito alla mancata votazione di un’ulteriore proroga di quattro anni da parte della Camera dei deputati, dopo la sua approvazione al Senato il 28 ottobre scorso. Non è bastato quasi un mese di tempo, infatti, per trovare il tempo di metterla in agenda: troppo forte la distrazione provocata dalle elezioni legislative del 14 novembre scorso.
E se a metterci una pezza è stato il presidente Alberto Fernández, stabilendo la proroga tramite un decreto di necessità e urgenza, le comunità indigene e le associazioni che le accompagnano esigono che sia il parlamento a decidere, discutendo non solo un provvedimento di emergenza, ma una vera legge di proprietà comunitaria indigena.
da il manifesto