Un detenuto che nel 2018 si trovava in isolamento ha confermato le botte degli agenti al tunisino. Poi depone la comandante della polizia penitenziaria: viene invitata a nominare un legale, atti trasmessi alla procura
di Laura Valdesi
“Rammentare quei momenti per me è un’altra tortura. Già dissi queste cose quando parlai con il pm”. E ancora: “Sono l’unico che non ha presentato un esposto perché non intendo ricordare queste cose. Aiutai gli altri (detenuti, ndr) a fare le lettere. Sapevano che studiavo giurisprudenza”. Inizia così la testimonianza di un carcerato, adesso recluso a La Spezia ma che nell’ottobre 2018 si trovava a Ranza, nel reparto di isolamento dove rimase otto mesi. Il giorno in cui avvenne il presunto pestaggio di un tunisino durante lo spostamento di cella lui era lì. E in una lunghissima deposizione ha ribadito più volte che è stato così. “Io i calci e i pugni li ho visti davanti alla mia cella!” esclama in ultimo incalzato dalle domande.
Prima quelle del pm Valentina Magnini, che sostiene l’accusa di torture nei confronti di cinque agenti della polizia penitenziaria. Riottoso, all’inizio. Ha già raccontato quello che sa, non intende ripercorrere quello che ha vissuto. “Stetti una settimana nudo in cella”, svela. E ancora: “Tentai il suicidio per avvelenamento perché non ce la facevo più a stare in quell’istituto”. Non vola una mosca nell’aula al terzo piano. “Non intendo rispondere più – s’impunta – non millanto niente signor giudice! Sto dicendo la verità, per favore portatemi via, voglio dimenticare tutto”, ribatte quando il pm gli fa alcune contestazioni. Non sono accuse, si limita a ripercorrere alcuni passaggi delle sommarie informazioni rese dal testimone all’inizio del 2019. Gli viene spiegato e allora prosegue. Racconta di “aver sentito il trambusto e quel ragazzo è atterrato davanti alla mia cella ma non l’ho visto però andare giù”. Una frase che il detenuto – emerge in udienza, è rimasto in carcere 22 anni – ripete più volte. “Sono stato il primo a battere il blindo”, spiega, per segnalare che stava accadendo qualcosa di serio. Gli vengono mostrate dal pm alcune foto tratte dal filmato del trasferimento di cella. Risponde, indica gli agenti. Poi rovescia i figli come se non volesse vedere più i loro volti. Dopo aver messo il tunisino nella nuova cella, sostiene, “passarono anche da noi (gli agenti, ndr) a salutarci in modo affettuoso”. A più riprese si chiede di chiarire il significato di quella frase. Lo fa con insistenza anche il presidente del collegio Simone Spina prima che termini la testimonianza. Ma il detenuto non aggiunge nulla di più: “Ho risposto, credo di aver risposto abbastanza”, ribatte. Gli avvocati della difesa contrastano il fuoco di fila di accuse. Manfredi Biotti, che assiste quattro degli imputati, cerca di evidenziare le contraddizioni nel racconto del carcerato su come avesse fatto a vedere calci e pugni, che il magrebino veniva trascinato fino alla cella, se lo spioncino del blindo superiore era chiuso. Avrebbe guardato in realtà da quello in basso che si apre dall’interno. “Dichiara di aver visto il braccio e la testa del ragazzo – qui s’infila l’avvocato Fabio D’Amato che difende l’ispettore imputato – leggo però che aveva riferito che da lì la testa non riusciva a vederla”. Il carcerato svela poi come avevano fatto a scrivere le lettere di denuncia se erano in isolamento. “Noi – dice – con una bottiglietta d’acqua facevamo l’ascensore”.
Una breve pausa, quando l’uomo viene portato via dall’aula. Si decide che il processo proseguirà il 25 novembre l’intera giornata. “Ad oltranza”, annuncia agli avvocati di parte civile e ai difensori il presidente Spina. Saranno otto i testimoni da ascoltare, fra cui due detenuti. Poi si riprende ascoltando l’allora comandante delle guardie del carcere ma la testimonianza finirà molto prima del previsto. Perché alla luce delle sue risposte, il collegio la invita a nominare un avvocato. Si cerca un legale, arriva dal piano inferiore. Non è neppure del foro di Siena. Si consulta brevemente con lui e, seppure incredula di quanto sta accadendo, preferisce non rispondere più alle domande. Gli atti vengono dunque trasmessi alla procura per le opportune valutazioni. Per capire se il suo comportamento sia stato corretto, essendo pubblico ufficiale.
da La Nazione