L’ex capo del DAP Basentini a Fullone, uno dei “registi” della mattanza nel carcere campano: “hai fatto benissimo!”. Ebbene, né Fullone, né Basentini risultano indagati. Eppure il DAP sapeva dell’operato della polizia penitenziaria, il Ministero di Giustizia sapeva, e adesso con i video nessuno può dire di non sapere.
“Lo stato siamo noi” hanno urlato gli squadristi in divisa mentre picchiavano e torturavano i detenuti.
Ebbene, se lo stato siete voi, la favola delle mele marce raccontatela a chi, oltre ai sensi, ha perso anche il cervello e con esso la memoria.
Le violenze, le torture, le morti non sono il frutto di qualche poliziotto su di giri, ma il risultato di una giustizia borghese, di uno stato di polizia, del moderno fascismo che ha fatto carta straccia degli stessi diritti democratici che lo hanno sottratto un tempo alla giustizia proletaria. La violenza nelle carceri è una prassi sistemica che viene portata avanti dall’istituzione carcere e protetta e avallata dal Ministero di Giustizia.
Se una crepa si è aperta al di là del muro di omertà, lo si deve ai detenuti e le detenute in lotta, che non hanno abbassato la testa ed in quei giorni hanno fatto girare video di denuncia dei pestaggi subiti. Lo si deve alle compagne e ai compagni solidali, che sin da subito hanno capito e sostenuto le lotte dei detenuti e dei loro familiari e che perciò sono stati e continuano ad essere repressi come “nemici dello stato”.
La mattanza “scoperta” a Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato. E noi dobbiamo esigere la verità sulle stragi di stato nelle carceri e supportare i detenuti e i loro familiari, soprattutto quando le loro denunce vengono insabbiate/archiviate
Dalla stampa:
L’inchiesta sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Negli atti del gip le prove della manipolazione a opera degli indagati per giustificare la «perquisizione»
«Non posso ripensarci, vado al manicomio. Secondo me erano drogati. Noi dobbiamo pagare ma non dobbiamo pagare con la vita. Voglio denunciarli»: è il racconto di Vincenzo Cacace, il detenuto sulla sedia a rotelle che si vede nell’immagini di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vertere. Gli agenti lo tirano fuori dalla cella mentre lo percuotono con i manganelli. È il 6 aprile del 2020, il giorno prima nel reparto Nilo avevano protestato per timore che il Covid si diffondesse, il giorno dopo è partita la perquisizione straordinaria che il gip Sergio Enea ha definito «orribile mattanza». Sono 52 le misure cautelari, tra gli indagati anche personale con ruoli di vertice.
NEGLI ATTI emerge il ruolo del provveditore campano alle Carceri, Antonio Fullone, del comandante della polizia penitenziaria nell’istituto di pena, Gaetano Manganelli, e di altre figure apicali. La partecipazione di Manganelli alla perquisizione «non è minimamente discutibile – scrive il gip – si evince nitidamente oltre che dalle dichiarazioni rese da Anna Rita Costanzo (anche lei indagata, ndr) nel corso del suo interrogatorio («io arrivai dopo che i comandanti si erano riuniti per distribuire i ruoli e compiti nella stanza di Manganelli dove l’operazione era stata pianificata») ma anche dai messaggi che scambia con gli altri protagonisti».
Alle 13:38 Manganelli manda a Fullone il messaggio: «Stiamo pianificando operazione» e poi a Maria Parenti (direttrice facente funzione del carcere) «stiamo per effettuare la perquisizione straordinaria». A Fullone chiarisce: «Utilizziamo anche scudi e manganelli». A fine giornata è soddisfatto: «Buonanotte provveditore grazie per la determinazione assunta per la concreta vicinanza». Costanzo, commissaria capo responsabile del Nilo, nelle chat scrive: «Un’operazione eccellente. Siamo tutti molto soddisfatti. Meno male che sono venuta, mi sono riscattata». Messaggi anche tra Fullone e l’allora capo del Dap, Basentini, che al primo risponde: «Hai fatto benissimo» quando Fullone gli scrive: «Era il minimo per riprendersi l’istituto, il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così».
PER GESTIRE GLI ESITI «dell’operazione eccellente» sono stati necessari falsi referti medici, foto e video artefatti, depistaggi. Diciannove agenti colpiscono tanto forte e tanto a lungo i detenuti da procurarsi lesioni. Si fanno refertare e poi trasmettono gli atti all’autorità giudiziaria: «Hanno dichiarato di essersi procurati le lesioni a seguito di aggressioni a opera di detenuti – scrive il gip -. La circostanza è falsa, venendo smentita dai filmati del circuito di sorveglianza, che non rilevano mai alcuna forma di resistenza da parte dei detenuti. Sopraffatti dal gran numero di agenti presenti, si sono limitati a contenere i colpi subiti, badando principalmente a proteggere la testa».
MANGANELLI il 7 aprile inoltra alla procura due informative di reato sul 5 e 6. Nell’ultima viene denunciata «una resistenza opposta da 14 detenuti (“durante tale perquisizione, i detenuti di cui sopra si sono resi protagonisti di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale”) che con tale illecita condotta avrebbero cagionato lesioni a “varie unità si polizia penitenziari” che “hanno dovuto far ricorso alle cure dei sanitari del pronto soccorso”». Nella nota i 14 vengono indicati come i capi della protesta del 5. «La ricostruzione contenuta in entrambi gli atti – scrive il gip – è affetta da palese falsità ideologica».
Pasquale Colucci, uno degli ispettori più attivi, pure avrebbe stilato relazioni false. In una (data nell’incipit 8 aprile e in calce 6) scrive: «Durante le operazioni di perquisizione i detenuti erano armati e avevano opposto resistenza, lanciando contro gli agenti oggetti di varia natura tra cui bombolette di gas incendiate; nelle celle erano stati rinvenuti oggetti atti a offendere, fra cui pentole piene di olio bollente, spranga di ferro e altro». Per provare la ricostruzione sarebbero state alterate foto e video messi agli atti dagli indagati. Colucci e Costanzo, insieme ad altri agenti, «hanno simulato il rinvenimento di strumenti atti a offendere».
Colucci scrive in chat: «L’unica che mi sembra più sveglia è la Costanzo, gli ho detto cosa fare». E Costanzo a Salvatore Mezzarano: «Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro. In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornelli anche con acqua». I messaggi successivi ricostruiscono tutti i tentativi per confezionare le false prove con la data (falsa) del 6 aprile. Ma nella macchina fotografica utilizzata è rimasta traccia del giorno e dell’ora reale. «Dell’attività di depistaggio – scrive il gip – è consapevole e informata Francesca Acerra comandante del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di Napoli che, abdicando al suo ruolo istituzionale, svolge un ruolo di coordinamento nella redazione delle relazione inoltrate anche per il suo tramite all’autorità giudiziaria».
ANALOGA MANIPOLAZIONE la subiscono i video realizzati dagli indagati per millantare la violenza dei detenuti il 5. I messaggi tra Colucci e Fullone, prosegue il gip, «provano che il primo si è recato come da accordi pregressi presso il carcere ad acquisire i video (verosimilmente girati con un cellulare) solo in data 9 aprile». Colucci a Fullone il 9 aprile: «Sì soni sul posto ho raccolto tutto». E l’altro: «Ottimo». Gli audio però fanno capire che non si tratta di immagini del 5 così Colucci scrive al suo sottoposto Massimo Oliva: «Mi togli l’audio»
Adriana Pollice
da il manifesto
Sputi, botte e bastonate. Lamine Hakimi è morto in cella di isolamento dopo la mattanza, imbottito di farmaci e senza cure
Prima le botte, poi una quantità tossica di farmaci – oppiacei, neurolettici e benzodiazepine – assunta “in rapida successione e senza controllo sanitario“: è morto per un arresto cardiocircolatorio conseguente a un edema polmonare acuto, Lamine Hakimi, detenuto straniero affetto da schizofrenia, uno dei 15 carcerati del reparto Nilo classificati dalla Polizia Penitenziaria come pericolosi e per questo motivo messi in isolamento nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo l’”orribile mattanza“, come l’ha definita il Giudice per le indagini preliminari (Gip), del 6 aprile 2020.
Un evento che ha spinto l’ufficio inquirente guidato dal procuratore Maria Antonietta Troncone a ipotizzare nei confronti dei poliziotti indagati il delitto di “morte come conseguenza di altro reato“. Scelta però non condivisa dal Giudice, che invece ha classificato quel decesso come un suicidio. Hakimi morì il 4 maggio 2020 nella sezione Danubio, a distanza di quasi un mese dalle violenze perpetrate dai poliziotti penitenziari sulle persone ristrette nel Reparto Nilo.
Così come per le altre vittime delle violenze, sono descritte nel dettaglio, nella corposa ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Santa Maria Capua Vetere, le percosse subite dal detenuto algerino di 27 anni Lamine Hakimi, morto in cella il 5 maggio 2020. Un trattamento che non si discosta molto da quelle subite dagli altri carcerati ma esacerbato da un suo tentativo di ribellione: prelevato con la forza dalla sua cella, la numero 7, del reparto Nilo, percosso con calci, schiaffi, pugni durante il trasferimento, reagì cercando di sferrare un pugno a un poliziotto, così lo percossero ancora di più fino a provocarne lo svenimento. Gli schiacciarono la testa contro il pavimento e lo colpirono con il bastone alle costole e alle gambe mentre lo trascinavano a terra nel reparto. Diversi carcerati parlano delle sue condizioni e ognuno le definisce peggiori delle proprie:
“…stava troppo male, aveva segni di manganellate dappertutto e un bozzo dietro la testa… sono stato 15 giorni in stanza con lui, lo sogno tutte le notti…“. E ancora: “…ha sempre assunto la terapia psicofarmacologica e lo faceva stare bene…“, “…lui stava peggio di me, gli avevano fatto molto male, lo hanno sfondato… stava così male che per 4 giorni non ha preso la terapia. Dopo 4 giorni si è svegliato e abbiamo parlato…“.
Agli altri detenuti in isolamento che soffrivano di varie patologie, secondo quando riporta l’ordinanza, venne sospesa la somministrazione dei farmaci. Il giorno della morte di Hakimi, inoltre, venne eseguita un’altra perquisizione personale durante la quale, per l’ennesima volta, gli agenti sputarono sui detenuti e proferirono minacce nei loro confronti: “mica e’ finita qua! Avete avuto la colomba, dovete avere ancora l’uovo di Pasqua“.