Piacenza, la denuncia dei tre studenti fermati dai carabinieri: «Una notte di orrore nella caserma
Pugni, calci e umiliazioni dopo dodici anni risuonano ancora come un’eco di sinistra nei tre universitari che per “festeggiare” la fine degli esami sono finiti nelle mani dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza e sono stati massacrati solo da un banale errore. Una vicenda che è emersa dopo la denuncia del padre di uno di loro, un ex ufficiale dei carabinieri, che per anni non credeva al figlio ma ha dovuto ricredersi con le indagini che hanno portato all’arresto dei militari e ora il processo per tortura, traffico di droga e altri reati gravi .
Urla, percosse e umiliazioni
È il pomeriggio del 18 maggio 2009. La Citroen C3 con i tre ragazzi passa davanti all’Università Cattolica di Piacenza. Uno allunga la mano e fa un gesto di “liberazione” proprio mentre incrocia una gazzella dei carabinieri. Forse pensando che ce l’hanno con loro, i militari li raggiungono, li ferma e li fa scendere. “C’è stato un contatto spalla a spalla tra me e Cappellano (Salvatore, arrestato, ndr) che mi ha subito preso a pugni e ha detto: ‘Togliti testa di c…'”, ha detto Gianluca D’Alessio, uno dei giovani, alla Guardia di Finanza nelle indagini dei pm piacentini Matteo Centini e Antonio Colonna, coordinati dal pm Grazia Pradella. I tre vengono portati nel Levante. “Ci hanno fatto sedere per terra ammanettati”, racconta D’Alessio, che viene spogliato “completamente nudo” e perquisito mentre un suo amico, Daniele Della Noce, viene portato in una stanza dalla quale arriveranno “solo percosse e grida di dolore”. Della Noce viene sbattuto contro la porta che si apre, cade a terra, ma viene subito “riportato dentro trascinato dai piedi”. Nella speranza di farli rinunciare, D’Alessio dice di essere “figlio di un capitano dei carabinieri”, anche se il padre, ora dirigente INPS, si era dimesso. In risposta, botte anche per lui nella stanza dove trova anche l’incaricato Giuseppe Montella, l’uomo al centro dell’inchiesta Levante, l’unico che “è rimasto a guardare”. Cappellano non si ferma nemmeno quando Gianluca grida che gli stanno rompendo un braccio: “Per me puoi anche morire”. ma viene subito “portato dentro trascinato dai piedi”.
Appeso per le manette al ramo di un albero
I tre ragazzi raccontano che nessuno ha spiegato i motivi del loro arresto e che sono stati lasciati a lungo in manette, senza acqua potabile e senza poter chiamare famiglie o avvocati fino a quando non sono stati trasferiti alla caserma di via Beverora, i cui carabinieri , invece, lo trattavano “gentilmente”. La mattina dopo, scattata per il reportage fotografico, mentre attraversavano un cortile interno, Cappellano lasciò D’Alessio letteralmente appeso per le manette a un ramo di un albero: “Era più alto di me, costringendomi a stare in punta di piedi”. Un carabiniere di passaggio, noto per essere accusato di aver aggredito soldati, “mi ha dato un pugno in faccia”, ma un altro lo ha rimosso da quella posizione orribile, dicendo: “Non voglio vedere più questa merda”. Oggi, il PM inizierà l’arringa nel processo abbreviato prima delle richieste di condanna, che potrebbero superare i 15 anni di carcere. Non possono procedere, per prescrizione, sui presunti abusi ai tre ragazzi anch’essi processati e patteggiati per punizione per violenza e minaccia a pubblici ufficiali (possono chiedere il riesame). “Ho lavorato in Arma e non ho mai visto questi metodi”, dice Riccardo D’Alessio. È sempre in contatto con suo figlio che ora vive in Germania. assicura Riccardo D’Alessio.