Si chiamavano Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan.
Non sono tutti, ma tutti sono morti in stato di detenzione a seguito delle rivolte nelle carceri del marzo 2020.
Non sono tutti, ma solo quelli dei quali si è riusciti a ricostruirne l’identità, nonostante il silenzio tombale e le menzogne sulla loro morte. Menzogne di stato su una strage di stato di cui ancora non si conoscono tutte le vittime ma si sa già che non c’è colpevole, anzi, “non c’è reato” e che rischia di essere archiviata come tante altre, come quella per la morte di Haitem Kedri al carcere della Dozza.
Iniziamo quindi a parlare del carcere di Bologna in attesa di “parlare” dei fatti di Modena e Rieti. Lo facciamo con un articolo di Vito Totire, psichiatra (rete nazionale per l’ecologia sociale)
Morte per overdose? Troppo semplice
La pm Manuela Cavallo ha chiesto l’archiviazione per la morte («overdose di farmaci») di Haitem Kedri, il detenuto tunisino 29enne, trovato cadavere l’11 marzo 2020 nella sua cella del carcere di Bologna, dove nei due giorni precedenti era scoppiata una rivolta.
Lascia contrariati la notizia della archiviazione della indagine relativa alla morte del detenuto Haitem Kedri; si parla di overdose, una “sintesi” semplicistica che rischia di confondere l’effetto con la causa.
Un approccio sistemico all’evento della cosiddetta “rivolta” del 9 marzo 2020 in carcere ci induce piuttosto ad alcune riflessioni:
1) Manca una ricostruzione obiettiva del clima interno al carcere precedente alla giornata del 9 marzo; è del tutto verosimile che la mancanza di informazioni corrette, la deprivazione socio-sensoriale più vari messaggi fuorvianti e negazionisti abbiano indotto un grave stato di ansia nella comunità delle persone detenute; che la situazione più “calda” si sia verificata nel settore giudiziario non è motivo di sorpresa trattandosi di un fenomeno costante; banali conoscenze di “psicologia carceraria” avrebbero indotto le riflessioni e deduzioni del caso che evidentemente non sono state fatte, visto l’epilogo;
2) In questo clima, fortemente ansiogeno e amplificato dalle condizioni di costrittività e di abuso di mezzi di correzione tipico e cronicizzato nel carcere di Bologna, si sono manifestati eventi che qualcuno ha definito rivolta;
3) In una situazione fortemente ansiogena ovviamente cresce la appetenza nei confronti di ansiolitici, essendo peraltro storicamente nota la appetenza per i paradisi artificiali (come si insegnava una volta agli studenti di psichiatria); fatto è che il sistema carcerario ha cronicizzato e reiterato il modello costrittività / disagio / mono-risposta psicofarmacologica (o tabagica); è necessaria una indagine generale sul’uso di sigarette e psicofarmaci nella comunità detenuta rispetto a un gruppo di confronto esterno per chiarire meglio (anche) la dinamica della supposta rivolta; lo faremo nel prossimo futuro;
4) Intanto una comunità reclusa portata alla esasperazione assalta – si dice – la infermeria del carcere! Solo una visione edulcorata della realtà carceraria potrebbe indurre un sentimento di sorpresa. Potremmo sorprenderci di un assalto ai forni da parte della plebe affamata o di un assalto al pozzo da parte di un gruppo di persone assetate e disidratate? Ci parrebbe accettabile che in una comunità con ospiti afflitti da pulsioni autolesioniste e suicidarie il gestore della comunità lasciasse in giro pistole cariche o altri mezzi atti a produrre lesioni?
5) Si narra o si insinua dunque circa un assalto agli armadietti della o delle infermerie. Ma le telecamere furono danneggiate (pare). Sono stati riscontrati segni di effrazione sugli armadietti? Non si sa nulla tranne l’epilogo finale asserito: overdose. A noi pare una ricostruzione superficiale e sbrigativamente assolutoria (a vantaggio della “organizzazione” cioè del carcere);
6) La procura della repubblica non ha intravisto nella dinamica dei fatti una responsabilità in termini di «omessa custodia» (dei farmaci)? E’ stata fatta la conta dei farmaci mancanti dopo la supposta “rivolta” ? E se la conta è stata fatta si è proceduto al recupero degli stessi?
7) Eppure nella cella della persona deceduta sono state trovate 103 pasticche, più 5 siringhe; se assalto c’è stato ha “saccheggiato” solo lui? A quanto ammonta dunque l’ammanco di farmaci – eufemisticamente – definiti dalla richiesta di archiviazione della pm Cavallo come «appartenenti alla tipologia di farmaci legittimamente presenti nella struttura , utilizzati per la cura delle patologie e il trattamento delle dipendenze». Si intravede una certa forma di pudore che porta a evitare i termini di “psicofarmaci” e “metadone”. Circa poi il «legittimamente»: non avevamo dubbi che, almeno nell’infermeria, non sarebbe stati reperibili sostanze stupefacenti illegali; ci troviamo di fronte a una excusatio non petita? Un articolo del quotidiano «Il resto del Carlino» usa nel titolo il termine «overdose di farmaci»: la rimozione dello “psico” è un lapsus o un caso? Certo è più difficile una overdose di farmaci che non siano psicofarmaci o analoghi;
8) Nulla si sa dell’altro evento a rischio di morte che ha riguardato un’altra persona detenuta. Se la persona deceduta aveva con sè 103 pasticche, considerato l’altro evento, l’ammanco deve essere stato ancora maggiore. Tutto questo – per tornare al recupero dei farmaci mancanti – in una istituzione carceraria (parliamo del carcere in generale non dello specifico di Bologna) che mai ha lesinato perquisizioni più o meno invasive e umilianti, comprese le ispezioni anali; molto impegno magari è stato dedicato alla ricerca di telefonini la cui nocività – sulle brevi latenze – è molto minore degli psicofarmaci… Il ben informato Resto del Carlino riferisce che la persona deceduta faceva già uso di farmaci «per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione»: allora la sua cella era tra le prime a cui lo psicologo doveva bussare per farsi riconsegnare qualcosa… Infatti non pensiamo che il modello “perquisizione” sia quello adeguato per salvare una persona dal rischio di overdose da psicofarmaci. Ma per affrontare tutto questo occorre cambiare registro e andare oltre la prassi del “sorvegliare e punire” a cui le istituzioni totali in Italia si uniformano salvo sbandare frequentemente volentieri verso il “punire” e basta.
CONCLUSIONI
La linea di condotta delle istituzioni rispetto alle condizioni di vita delle persone private della libertà lascia contrariati.
Abbiamo denunciato negli ultimi tempi:
un suicidio nei locali della questura di Bologna;
un suicidio nel carcere della Dozza;
due decessi di persone detenute covid-correlati;
la condizione di inagibilità igienicosanitaria e di abuso dei mezzi di correzione del carcere (denuncia reiterata ogni sei mesi a partire dal 2004) ;
Di tutte queste denunce non abbiamo avuto riscontri. Nulla da rilevare?
La Ausl: non ha neppur risposto alle reiterate richieste del report secondo semestre 2019 sulle carceri (vedremo se risponderà alla richiesta del report primo semestre 2020); non ha risposto alla richiesta di informazioni circa la situazione epidemiologica covi-correlata all’interno della Dozza.
Le istituzioni rispondono come se il carcere fosse “cosa loro” nella quale i comuni cittadini non possono in alcun modo interferire; ma da sole le istituzioni sono state capaci di gravi disastri.
Tuttavia noi interferiremo sempre memori della favola del lupo e dell’agnello…Per svelare finalmente chi ha davvero intorbidato le acque…
NON CONDIVIDIAMO LA ARCHIVIAZIONE DELLA MORTE DI HAITEM KEDRI E AUSPICHIAMO DI ENTRARE IN SINERGIA CON CHIUNQUE ABBIA TITOLO A FARE OPPOSIZIONE.
Parliamo del carcere di Bologna in attesa di “parlare” dei fatti di Modena.
Vito Totire, psichiatra, è portavoce della rete nazionale per l’ecologia sociale