Anche a S. Vittore, come nel resto dei penitenziari italiani, la tensione, che già aleggiava per la paura del contagio da COVID-19, sfociò in una vigorosa protesta contro le infami condizioni di detenzione, il sovraffollamento (il 9 marzo scorso, giorno della rivolta, in questo carcere c’erano 1200 detenuti per 700 posti disponibili), le tragiche condizioni igienico-sanitarie, la sospensione dei colloqui e la limitazione dei permessi e della libertà vigilata. Queste condizioni, congiuntamente alla sospensione di ogni attività che comportasse l’ingresso e l’uscita di educatori ed operatori, mentre le guardie potevano continuare ad avere contatti con i detenuti senza neanche l’uso di dispositivi di protezione, furono la goccia che fece traboccare il vaso.
I detenuti salirono sui tetti chiedendo indulto e libertà, devastando celle ed interi reparti per farsi sentire. Stracci, carte e materassi furono dati alle fiamme per farsi vedere, raccogliendo da fuori la solidarietà di quanti, solidali e famigliari, scelsero di sfidare i divieti per non lasciarli soli, per dar forza alla loro voce, alla loro lotta, e per questo furono caricati violentemente dalla polizia in assetto antisommossa.
Ora di quelle azioni di protesta, bollate dalla Procura di Milano che ha chiuso le indagini sui tumulti del 9 marzo come “un unico piano criminoso”, sono rimaste le accuse, pesantissime, di sequestro di persona, devastazione e saccheggio, lesioni personali e rapina a carico di 12 detenuti tra i 21 e i 48 anni, 5 italiani e 7 cittadini di Marocco, Tunisia, Gambia e Algeria.
Ora di quelle proteste resta il bilancio tragico di almeno 14 detenuti morti, a cui solo dopo mesi, si è riusciti a dare un nome.
Si chiamavano Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan.
Seppure fossero morti per “overdose”, come si sono affrettati a sostenere Bonafede e DAP, erano comunque in loro custodia ed essi ne sono i responsabili.
Ora di quelle proteste restano le denunce dei detenuti pestati e torturati dalle guardie; restano le oscure morti per covid e mancanza di assistenza sanitaria in carcere;
resta la repressione dello stato, con l’incriminazione di compagne e compagni accusati di associazione sovversiva per aver espresso solidarietà alla giusta lotta dei detenuti e ai prigionieri politici
Ed è ad essi e ai detenuti ribelli che si rivolgono, con crescente evidenza, le minacce del DAP, del SAPPE e di Bonafede all’uso del regime del 41bis come misura preventiva antiinsurrezionale.
Oggi nelle galere il lockdown è tutt’altro che superato: i droni sorvegliano gli istituti penitenziari e la tendenza è quella di normalizzare questa situazione.
Contro questa “normalità”, che è la normalizzazione della repressione, dobbiamo costruire una mobilitazione nazionale, unitaria e organizzata, in solidarietà ai detenuti ribelli. Dobbiamo sostenere la legittima lotta dei detenuti per il diritto alla cura e all’affettività, per una vita dignitosa, per la richiesta di amnistia/indulto.
Contro la repressione sociale e politica, contro il carcere assassino e il carcere tortura, per la solidarietà di classe e militante nei confronti di tutti i prigionieri politici e dei proletari ribelli detenuti nelle carceri dell’imperialismo.
Un appuntamento da costruire insieme con una assemblea nazionale che proponiamo per settembre
Soccorso rosso proletario srpitalia@gmail.com