
Si è tenuta ieri, 16 aprile, la seconda udienza in Corte d’Assise contro Anan, Ali e Mansour, accusati di terrorismo per il presunto appoggio e sostegno alla resistenza in Palestina. Nella scorsa udienza, nonostante il GUP le avesse rigettate, la Corte d’Assise ha ammesso nel fascicolo del processo italiano alcuni interrogatori israeliani. Nell’udienza di oggi, la difesa ha presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrarne l’inammissibilità. La Corte si è riservata di decidere nel merito alla prossima udienza, il 7 maggio, e l’udienza dibattimentale vera e propria sarà il 21 maggio.
Qui il commento dell’avvocato Flavio Rossi Albertini sull’udienza odierna.

“70mila palestinesi uccisi, non “morti”, Giudice, non ti puoi sbagliare”
Al processo erano presenti una quarantina di compagni e compagne, tra dentro l’aula e fuori del tribunale in presidio.
Anan era presente in videoconferenza, e ha rilasciato anche oggi una dichiarazione.
Anche oggi l’accusa e il presidente della Corte, evidentemente molto infastiditi anche da recenti articoli apparsi sulla stampa
italiana e
internazionale, hanno continuato a sostenere che la decisione del tribunale sarà giuridica, non politica. E quando Anan stava per rilasciare una dichiarazione, hanno provato a contestare questo prima ancora che aprisse bocca, quasi a voler imporgli, come hanno provato a fare anche il 2 aprile con l’interprete egiziana che travisava le sue parole, cosa dovesse dire. Lo stesso atteggiamento ha avuto il giudice con la difesa: quando l’avvocato Rossi Albertini ha obbiettato che non potevano impedire che Anan si esprimesse liberamente, il presidente della corte, Romano Gargarella, ha accusato anche l’avvocato di fare di questo processo un caso politico, tant’è che alla domanda del difensore: “Perché, è previsto l’esame dell’avvocato? Il codice di procedura penale non credo che ancora lo preveda”, il giudice Gargarella ha risposto: “poi lo controlliamo ma penso di no”. E questo è un segnale che deve preoccuparci molto, e che richiama alla mente le persecuzioni del regime fascista turco o indiano, ma anche israeliano, degli avvocati dei prigionieri politici.

Di seguito il report, più dettagliato, della Casa del Popolo di Teramo:
QUESTO È UN PROCESSO POLITICO
Oggi all’Aquila è proseguito il processo contro Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. E ancora una volta, ciò che si è consumato in aula non è stato solo uno scontro fra tesi giuridiche, ma una vera e propria epurazione del contesto. La Corte continua a ripetere, con ostinazione quasi rituale, che questo non è un processo politico. Che si tratta di un procedimento tecnico, neutro, asettico.
Eppure, tutto il dispositivo messo in campo – dalla selezione dei testimoni all’ammissione di prove ottenute senza garanzie, fino alla gestione della parola – tradisce l’esatto contrario: la volontà di giudicare politicamente, senza riconoscere la natura politica di ciò che si giudica.
Anche oggi Anan ha preso parola. Con lucidità e coraggio, ha riportato la Corte all’essenziale:
“Signor giudice, perché non mi date il diritto di difendermi? Il procuratore usa documenti contro di me, ma voi rifiutate quelli che io ho presentato. Mi interrompete quando parlo, mettete fretta a me e alla mia difesa. È come se, una volta finita quest’udienza, io dovessi andare alle Maldive e non tornare alla mia cella in questo carcere ”.
“Io sono qui [in carcere] per motivi politici. Non ho fatto nulla contro l’Italia. Voi dite che questo non è un processo politico, ma siete voi a usare la politica per giudicarmi. State usando atti israeliani, di un paese che non rispetta i diritti umani, e rifiutate le prove che parlano della nostra storia e della nostra resistenza.”
“Voi state continuando l’oppressione che ha compiuto Israele su di noi [popolo palestinese].Sento che stiamo subendo una grande ingiustizia. Questo processo somiglia sempre di più ai tribunali francesi contro gli algerini.”
Durante l’udienza sono stati ascoltati alcuni periti tecnici, tra cui quello balistico. Il perito ha riferito che l’“arma” mostrata in una fotografia dei tre imputati era in pessime condizioni, non funzionante e facilmente reperibile in commercio. Alla domanda su che materiale fosse fatta, la risposta è stata secca:
Plastica.
Una delle colonne portanti della narrazione dell’allarme terroristico – quella della minaccia armata, della pericolosità militare – si è così sgonfiata sotto il peso della perizia: era un fucile giocattolo. Un’arma di plastica.
E allora, giustamente, ci si chiede: su cosa si fondano queste accuse di terrorismo? Su un giocattolo postato in una foto? Su post pubblicati anni fa sui social, che raccontavano l’esistenza di allora? Su queste tre vite che si vogliono strappare al proprio contesto, come se chi ha vissuto in Palestina fino al 2016 potesse parlare di sé come se fosse cresciuto altrove, in un mondo che non conosce occupazione militare, rastrellamenti, umiliazioni quotidiane?
La vita in un territorio occupato non è una parentesi: è una condizione politica concreta, quotidiana, che non può essere rimossa. Ignorarla non significa essere imparziali, ma prenderne parte. È contribuire, anche solo con l’apparente oggettività del diritto, a quel processo di spossessamento che toglie ai popoli occupati persino la possibilità di raccontarsi a partire da sé.
È diventare parte, consapevole o no, di un’oppressione che si regge sulla pretesa di raccontare l’altro svuotandolo della sua storia, della sua realtà, del suo diritto, imprescindibile, alla resistenza.
È fare del tribunale uno strumento dell’occupazione, mentre si continua a ricoprire questa violenza con la vuota retorica degli Stati democratici, con la grammatica stanca e rituale della legalità liberale.
Da una lettera di Anan arrivata a una compagna di srp ieri:
“Cara, sapevo che la corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo.
Ma non temere, non siamo finiti e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo il potere nelle nostre mani.
Cara amica Gia, auguro tutto il meglio a te e a tutti gli amici là fuori. “
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